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Prefazione
Il mio primo incontro con i manga risale alla lontana estate dei
miei dodici anni quando, tra i fumetti italiani sullo scaffale di
un’edicola, vidi per la prima volta un volumetto dalla copertina
coloratissima, del tutto diverso dagli altri: si trattava di un
numero di “Kimagure Orange Road”, il manga da cui è stato
tratto il cartone animato noto in Italia col nome di “E' quasi
magia Johnny”.
Prima d’allora, avevo già sentito parlare del fumetto giapponese,
ma un profondo pregiudizio nei confronti di questo tipo di
lettura aveva sempre ostacolato un mio vero incontro col mondo
dei manga, pregiudizio che scoprii ben presto essere comune
alla maggior parte dei potenziali lettori.
Sta di fatto che quel giorno, un po’ per curiosità ed un po’ per noia, decisi di comprare il
volumetto di Orange Road: dopo averlo letto, mi appassionai talmente alla vicenda narrata al
punto da richiederne tutti i numeri arretrati.
Con il passare del tempo cominciai ad interessarmi anche ad altri titoli: la mia collezione di
manga aumentava di giorno in giorno, insieme alla mia conoscenza sull’argomento.
Fin da piccola ho sempre amato disegnare, anche se in quel periodo le mie uniche “opere”
erano rappresentate dagli schizzi a tempera e pastello eseguiti durante le lezioni di Educazione
Artistica, alle scuole medie. Grazie a questa mia passione per
il disegno, quindi, dopo un breve periodo di rodaggio
cominciai a sentire la necessità di provare a riprodurre le
tavole che tanto amavo.
In seguito, dopo aver ricalcato fino alla nausea i volti dei miei
beniamini, imparai a riprodurre autonomamente gli occhi e il
viso dei personaggi, elementi che rappresentavano per me il
massimo dell’espressività. Cominciai, senza volerlo, a
modificare le espressioni dei volti disegnati in base alle mie
emozioni personali, e mi accorsi che riuscivo a fissare ciò
che provavo sul foglio: i miei schizzi diventavano una sorta
Il mitico primo volumetto di
Orange Road
Le passioni si coltivano da
piccoli
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di “fotografia interiore”, al punto tale che, riguardandoli in
seguito, riuscivo a riprovare la stessa emozione di quando
li avevo disegnati. Non appena mi accorsi di questo
singolare processo, tentai di utilizzarlo come mezzo di
comunicazione: provavo a “parlare” attraverso i miei
disegni, nella speranza che qualcuno cogliesse il mio
messaggio.
Ora, dopo tanti anni, credo d’avere acquisito uno stile del
tutto personale, anche se ho ancora molto da imparare per
quanto riguarda tecnica ed elaborazione dei personaggi. Il
mio sogno è, una volta perfezionate queste ultime, riuscire a
trasmettere agli altri le mie emozioni, senza aver bisogno di
parole.
Col crescere della mia passione per il manga, ho cominciato ad interessarmi sempre di più al
mercato degli anime
1
in commercio. Ai tempi delle medie mi ero tanto appassionata al cartone
animato “Sailormoon”, che cominciai a spedire alcuni miei disegni agli “angoli della posta”
dei giornalini dedicati a questa serie, insieme al mio indirizzo: cercavo qualcuno con cui
avviare una corrispondenza. Quando pubblicarono alcuni dei miei schizzi, cominciai a
ricevere molte lettere da tutta Italia (la mania del manga può essere paragonata all’incessante
attività delle tarme: esteriormente non compare che un piccolo foro, ma all’interno vi è un
apparato di cunicoli strabiliante; questa metafora a significare che, anche se non sembra, gli
appassionati di manga ed anime sono in continuo aumento)
e trovai parecchi corrispondenti – persone che, in alcuni
casi, si trasformarono in amici.
Verso i quindici anni, cominciai a frequentare le prime
fiere del fumetto e a collezionare ogni tipo di gadgets,
sperperando con estrema facilità i soldi che avevo
accumulato nel corso degli anni precedenti. In Italia
vengono infatti organizzate numerose conventions a tema,
le più importanti delle quali sono l’“Expocartoon di Roma”
– che ha da poco cambiato il nome in “Romics” – la
1
Si tratta del termine con cui in Giappone vengono definiti i cartoni animati (il termine deriva, infatti, da
“animation”). Sono dunque anime tutti i cartoni animati giapponesi che ha accompagnato la maggior parte degli
italiani durante la propria infanzia: da Holly e Benji a Mimì, da Goldrake ad Heidi.. molti di questi altro non
sono che trasposizioni animate di manga.
Uno dei primi disegni su
Sailormoon
Con un'amica al Lucca Comics
5
“Comiconvention” e il “Cartoomics” diMilano,
ed infine il leggendario “Lucca Comics”, di
Lucca. Queste manifestazioni hanno una duplice
funzione: la prima è, ovviamente, quella di
mettere in commercio qualsiasi tipo di materiale
originale, ad uso e consumo degli otaku
2
nostrani, la cui passione per il manga li porta
spesso a collezionare fumetti, video e gadgets di
ogni tipo. La seconda funzione di tali fiere
consiste, invece, nel porsi come luogo di ritrovo
per amici, spesso conosciuti via internet, accomunati dalla medesima passione.
Ho accennato alla discussione con altre persone mediante internet: quest’importante mezzo di
comunicazione è notevolmente diffuso tra appassionati di manga, generalmente appartenenti
ad una fascia d’età compresa fra i dieci e i trent’anni. Poter comunicare in tempo reale con
persone che condividono i propri gusti è il vantaggio principale delle cosiddette “chat”, che
rappresentano importanti luoghi d’incontro e di scambio. La rete è anche un’ottima fonte
d’informazioni riguardanti i manga: in internet è, infatti, possibile trovare scansioni tradotte di
manga originali, colonne sonore di anime, o, addirittura, intere serie animate sottotitolate, da
poter visionare liberamente sul proprio computer.
Vista la mia grande passione per il mondo giapponese, ho deciso di sviluppare la mia tesi di
laurea intorno a quest’argomento e, se inizialmente credevo di saperne abbastanza riguardo ai
fumetti giapponesi, man mano che mi documentavo ho dovuto ricredermi: possedevo, infatti,
una visione limitata della società giapponese, dei suoi paradossi e delle sue contraddizioni. In
pratica, conoscevo i loro atteggiamenti, i loro usi e costumi, ma non sapevo risalire alle
origini di ciascun fenomeno.
Oggi, dopo mesi di assidua ricerca e di studio, mi sento debitrice verso questo lavoro che mi
ha permesso di riscoprire, sotto una nuova luce, quel mondo dei manga che ha avuto un ruolo
così determinante nella mia infanzia ed adolescenza. Leggendo libri ed acquisendo
informazioni riguardo alla mentalità giapponese ed al loro modus vivendi, sono riuscita a poco
a poco a ricostruire quel grande puzzle di cui avevo sparso i tasselli, facendomi un’idea
precisa della complessa ed affascinante realtà che viene tanto fedelmente riflessa dal manga, il
maggiore mezzo di comunicazione che riesce a coglierne i chiaroscuri, i paradossi, i problemi.
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Otaku è la definizione giapponese di persona con una passione esasperata per un oggetto o un personaggio,
reale o virtuale. In Italia vengono chiamati generalmente otaku gli appassionati di anime e manga. Il fenomeno
originario giapponese verrà analizzato nel capitolo I.2.1.
Il mio primo raduno all'Expocartoon
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Introduzione
Col presente lavoro si è tentato di effettuare un’analisi dettagliata dello spettacolo giapponese,
e di condurre una riflessione, il più esaustiva possibile, sull’importante ruolo che esso ricopre
all’interno della società.
Nel variegato panorama dell’arte nipponica, si è cercato in particolare di approfondire
l’analisi del mondo del fumetto, il cosiddetto manga, nella sua trasposizione a cartoni animati,
l’anime (da “animation”), passando in rassegna tutte le manifestazioni collegate a queste
realtà. L’intento principale della tesi è quello di stabilire gli stretti legami intercorrenti tra
questo sistema comunicativo ed il mondo di cui esso è specchio, ossia la società nipponica in
tutte le sue contraddizioni e peculiarità, contribuendo in tal modo a sradicare il pregiudizio
con cui alcuni critici di scarsa competenza si ostinano a svalutare questa forma d’espressione
artistica.
Quest’ultimo non rappresenta, però, l’unico caso in cui il luogo comune finisce per distorcere
la realtà dei fatti. Tutto ciò che riguarda l’universo nipponico – un sistema di valori in cui
tutto è portato alle estreme conseguenze – viene infatti spesso giudicato senza mezze misure:
o lo si ama o lo si odia, inevitabilmente.
La società nipponica, come si leggerà nel capitolo successivo, è soggetta a ritmi e stili di vita
frenetici che lasciano poco spazio all’individualità: ciò comporta una sopravvalutazione dello
spettacolo, che viene spesso considerato come una valvola di sfogo essenziale, per sfuggire
alla pesante alienazione cui il sistema sottopone i suoi lavoratori: come si vedrà più avanti, ad
esempio, le arti orientali si basano sulla pratica del silenzio e su lunghi momenti di riflessione,
che costituiscono una vera e propria necessità per individui privati della propria dimensione
umana. L’arte rappresenta, infatti, una sorta di “capsula” – si pensi alle “capsule” dell’artista
Mariko Mori, o ai “capsule hotel” di Tokyo – in cui chiudersi ed isolarsi dagli stimoli esterni,
un limbo amniotico da cui contemplare la frenesia della vita quotidiana. Nel corso del
lavoro verranno illustrate le diverse reazioni degli individui ai ritmi stressanti della vita
lavorativa in Giappone, prestando particolare attenzione alla soluzione del suicidio, della
violenza giovanile e delle mode di strada.
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Si cercherà dunque di ricostruire il momento della nascita dello spettacolo, passando dai primi
rudimenti del teatro tradizionale – il nō e il kabuki – fino al kyougen e al bunraku, il teatro
delle marionette, e analizzando poi il passaggio alla pellicola cinematografica, di cui si
illustreranno i protagonisti più noti a livello internazionale.
Si analizzerà inoltre il complesso universo artistico giapponese, di cui si prenderanno in
considerazione i singoli casi di Mariko Mori, Araki Nobuyoshi, Masumasa Morimura,
Tadanori Yokoo – quest’ultimo visto attraverso gli occhi di Maurizio Turchet, artista
multimediale che entrò in contatto con il grafico giapponese durante gli anni Sessanta.
Verrà in seguito analizzato il modo di vivere la corporeità proprio dell’individuo giapponese,
studiando tre dei maggiori stilisti del Giappone contemporaneo: Junko Koshino, Rei
Wakakubo – la creatrice del marchio Comme des Garçons – e Yohji Yamamoto.
Si passerà quindi a considerare anche il dinamico contesto musicale giapponese, delineando a
grandi linee la storia della musica nipponica e, più nello specifico, i vari tipi di musica
giovanile contemporanea, tra cui emergono con maggiore evidenza il fenomeno di costume
del j-rock e quello delle aidoru, esempio paradigmatico del pensiero “usa e getta” proprio
della mentalità giapponese.
Una parte sostanziosa del lavoro sarà quindi dedicata al manga, che rappresenta forse il più
noto fenomeno di massa giapponese: sin dall’antichità, infatti, l’immagine ha rivestito
un’importanza fondamentale all’interno della cultura in Giappone, venendo tramandata di
padre in figlio attraverso la millenaria arte della calligrafia. Non è un caso che questo paese
sia stato definito da Roland Barthes l’impero dei segni per eccellenza.
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L’ordinamento gerarchico della società
“Chi difende tutti difende se stesso; chi pensa solo a sé si distrugge, e d’ora in poi sarà
punito”.
I sette samurai, Akira Kurosawa
“E’ facile spezzare una sola freccia, ma tre legate insieme non si spezzano”.
Ran, Akira Kurosawa
L’eredità più pesante che il periodo Tokugawa
1
, e la successiva restaurazione Meiji, hanno
lasciato al Giappone è, senz’ombra di dubbio, lo stretto ordinamento gerarchico della società.
Nel Sol Levante, la gerarchia sociale è sviluppata ad ogni livello ed in ogni ambito (famiglia,
scuola, lavoro): infatti, mentre la società occidentale, erede della cultura greca e giudaico-
cristiana, si basa su valori individuali che vedono il singolo come perno su cui gira l’intero
universo, quella giapponese è fondata esclusivamente sull’idea di gruppo, sul concetto di
consenso e su una rete di vincoli reciproci e di comunanza tra gli elementi dello stesso nucleo.
Il valore più importante, per l’Occidente capitalista, è rappresentato dall’affermazione del
singolo individuo, mentre in Giappone sono il consenso e il senso d’appartenenza alla
collettività a costituire i parametri fondamentali del vivere sociale: il solo giudizio a contare è,
in definitiva, quello del gruppo d’appartenenza.
In Giappone, l’inserimento del singolo all’interno di una gerarchia è essenziale, per diventare
parte integrante di un gruppo: se un membro non vi è perfettamente inserito, è come se non vi
facesse affatto parte; non è soltanto, infatti, di fondamentale importanza prendere parte, a
qualsiasi livello, alla gerarchia sociale del proprio nucleo d’appartenenza, ma è altrettanto
necessario rispettare scrupolosamente tale ordine gerarchico. Ignorandolo, il membro di un
gruppo rischia non solo l’emarginazione, ma addirittura la tacita espulsione.
Il potere e l’influenza del nucleo non influiscono solo sull’individuo in quanto tale, bensì ne
modificano le idee ed il modo di pensare: in questo modo l’autonomia individuale è ridotta al
minimo, rendendo difficile l’individuazione di un confine tra la vita pubblica e quella privata.
L’esistenza dell’individuo giapponese è, infatti, racchiusa all’interno della comunità di
villaggio o del singolo posto di lavoro: i membri di una ditta si sentono parte di una grande
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Dal 1603 al 1868 il Giappone sarà governato dalla famiglia Tokugawa, che eserciterà il potere attraverso un
governo militare residente a Edo; per tale motivo questo periodo viene indicato con il nome di periodo Edo o
periodo Tokugawa.
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famiglia, tanto che anche i matrimoni all’interno dell’azienda sono assai diffusi. A questo
proposito, è da considerarsi esemplare il numero di alloggi forniti dall’azienda stessa: tali
abitazioni si concentrano generalmente in una singola area, formando un’entità ben distinta
all’interno di un sobborgo di una grande città. In tal modo ogni impresa viene a formare,
insieme alle famiglie dei propri dipendenti, un gruppo sociale omogeneo e distinto dagli altri.
Esistendo una coscienza di gruppo così forte, non c’è possibilità, per l’individuo, di crearsi
una vita sociale al di fuori dello specifico gruppo d’appartenenza dell’azienda.
La struttura della famiglia giapponese è costituita da un nucleo centrale, rappresentato dalla
madre e dai figli, al quale si aggrega il padre/marito: questi tende ad interessarsi alla famiglia
nel suo complesso, ma non alla moglie e ai figli in quanto individui, ed in famiglia è visto alla
stregua di un “ospite di riguardo”. Il mantenimento della famiglia pesa unicamente sulle
spalle del marito, poiché le donne generalmente abbandonano il proprio lavoro dopo il
matrimonio, o al massimo dopo la nascita del primo figlio: per questo motivo il sarariman
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è
caricato quotidianamente di orari lavorativi massacranti e, complice spesso la lontananza tra il
posto di lavoro e la propria abitazione, il più delle volte rincasa a notte inoltrata.
Dopo il matrimonio, la donna entra a far parte del gruppo d’appartenenza del marito,
lasciando quello, costituito da amici e familiari, che si era formata nell’infanzia, con il quale
manterrà rapporti strettamente formali. Viene quindi relegata al ruolo di nutrice: a lei sola
spetta l’importante incarico di occuparsi dell’educazione
dei figli, tanto che l’eccessiva attenzione di alcune madri
nei confronti della prole è ormai sempre più spesso ritenuta,
dai sociologi, sintomo di un disagio sociale.
Tali e tante sono le speranze che i genitori nutrono nei figli
con buone possibilità di carriera, che questi si sentono
moralmente obbligati a riuscire negli studi, al punto da
arrivare, in rari casi, al suicidio in caso di bocciatura ad un
concorso.
Nonostante le nuove generazioni tendano a trasgredire le
regole gerarchiche durante il periodo adolescenziale, al
momento dell’inserimento nel mondo del lavoro si
uniformeranno ben presto all’ordine tradizionale: si
renderanno infatti conto, in prima persona, di quale costo
sociale comporti una simile ribellione. Il rispetto dovuto ai
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Dall’inglese “salary man”, ossia colui che porta il salario a casa.
La riverenza delle donne nei
confronti dei mariti
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superiori viene impartito già sui banchi di scuola: vi è una netta distinzione tra gli studenti più
“anziani” (senpai) e quelli più giovani (kohai), divisione che è rispettata in particolar modo da
chi aderisce a circoli sportivi. Una buona istruzione, data dalla frequentazione di istituti
prestigiosi, è il requisito fondamentale per riuscire ad ottenere un posto di lavoro redditizio:
l’esame d’ammissione all’università viene considerato una pietra miliare, un momento
cruciale nella vita di ogni persona. Chi riesce ad entrare in un’università importante, potrà
venire assunto in una delle grandi corporazioni i cui impiegati costituiscono l’élite della forza-
lavoro giapponese, ma le chance vanno diminuendo man mano che si scende nella graduatoria
accademica. Ciò che realmente conta al datore di lavoro, è il nome dell’università che si
frequenta: se è prestigioso, garantisce non tanto un sapere, quanto una reale capacità di sforzo
– quello a suo tempo compiuto per essere ammessi nell’accademia in questione.
Quando arriva il momento di preparare un esame d’ammissione – uno per ogni ciclo di studi,
iniziando dalla scuola materna – gli studenti riducono, o addirittura sospendono, ogni altra
attività, e con tanto più anticipo quanto più alta è la posta in gioco. Al terzo anno di liceo, i
ragazzi e le ragazze che intendono presentarsi al concorso in un’università di buon livello,
passano letteralmente l’intera giornata a studiare. In caso non riescano a superare questo
scoglio, ritenteranno l’anno seguente, durante il quale frequenteranno un juku
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e studieranno
ancora più di prima. Passeranno in altre parole dodici mesi da ronin
4
, termine che anticamente
veniva designato ai samurai senza padrone.
Una volta superato il fatidico esame d’ammissione all’università, gli studi superiori non si
rivelano impegnativi: persino nelle migliori università la laurea dopo quattro anni è garantita,
in cambio di uno sforzo limitato. In Giappone, infatti, salvo le professioni tecniche e
scientifiche, il mestiere non si impara sui banchi di scuola, ma più tardi sul campo, una volta
trovato un impiego.
Una volta assunto il proprio posto in una ditta, l’individuo tende a restare all’interno della
stessa istituzione fino alla pensione, limitandosi semplicemente a risalire lentamente la scala
gerarchica interna. Nel caso in cui decidesse di cambiare lavoro, infatti, dovrebbe ripartire dal
primo gradino di tale scala.
Poiché l’ordine gerarchico si manifesta così puntualmente negli aspetti essenziali della vita
quotidiana, capita facilmente che esso si estenda anche alla vita privata. Chi riveste un’alta
carica sul lavoro, sarà sempre considerato superiore ai suoi sottoposti in qualsiasi luogo egli si
trovi: sia esso il ristorante, la propria casa o la strada. Quando le mogli dei lavoratori
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Con questo termine si indicano i corsi serali di preparazione agli esami d’ammissione.
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Oggi sono chiamati ronin gli studenti che hanno fallito l’entrata all’università scelta, e quindi s’impegnano per
un altro anno a preparare l’esame d’ammissione.
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s’incontrano, si comporteranno anch’esse in conformità al rango dei propri mariti, usando le
espressioni di cortesia e i gesti che si addicono al loro ruolo sociale. Bisogna ricordare che in
Giappone più si sale nella scala sociale, più si allarga il divario tra la facciata che le persone
mostrano agli estranei (tatemae) e la loro vera natura (honne), tanto che molti finiscono col
perdere la capacità di controllare questa dicotomia, assumendo una rigidità costante.
L’ordine gerarchico non regola soltanto il comportamento sociale, ma frena anche la libera
espressione del pensiero: chi occupa una posizione di grado inferiore non può esprimere
opinioni in contrasto con quelle di chi occupa un livello più elevato. Un kohai evita quindi
con cura di confrontarsi apertamente con un suo diretto superiore: un simile atteggiamento
spiega perché, nella conversazione, si usi raramente una forma sbrigativamente negativa,
preferendo restare in silenzio. Evitare un’espressione negativa chiara e netta rivela il timore di
rompere l’armonia e l’ordine del gruppo, di ferire la sensibilità di un superiore e, in casi
estremi, di essere addirittura estromessi dal gruppo.
In una casa giapponese tradizionale persino la sistemazione di diversi individui nella
medesima stanza rivela l’ordine gerarchico sottostante, esplicitando con chiarezza le
differenze di grado che devono essere rispettate dagli inquilini. Il posto a sedere di riguardo,
ad esempio, è sempre collocato al centro della stanza, alle cui spalle si trova il tokonoma
5
,
dove è appeso un rotolo di carta dipinto e sono disposti dei fiori; il posto a sedere di minor
prestigio è invece quello più vicino all’ingresso. Una sistemazione di questo genere non
consente mai che due o più persone si trovino in posizione di parità. Un ospite è sempre fatto
sedere in una posizione di riguardo rispetto a quella del padrone di casa, purché il ceto sociale
del primo non sia di molto inferiore a quello del secondo.
E’ l’insieme dei doveri e degli obblighi verso gli altri, a
condizionare la cultura e la mentalità giapponesi. Nella
coscienza nipponica il senso del dovere è predominante su tutto
il resto, esplicitandosi nel carico illimitato degli obblighi (giri e
on) verso i propri genitori, la famiglia, i maestri, il gruppo, la
società e persino l’ambiente. I legami del giri/on si stringono
tra due persone che possono avere ruoli diversi (genitore-figlio,
maestro-allievo, datore di lavoro-dipendente) o stato sociale
equivalente. Queste relazioni durevoli sono alla base dell’idea
che il soggetto ha di se stesso e della stima che gli altri hanno
5
Rientranza in una parete nella quale si espone un dipinto o dei fiori secondo le diverse stagioni. L’ospite
d’onore siede sempre con le spalle rivolte al tokonoma.
Il tokonoma
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verso di lui. Restituire un favore ricevuto è un
obbligo, non una scelta: bisogna dimostrare di
non dimenticarsi mai dei propri debiti, poiché
ciò tiene in vita la relazione tra due o più
persone, consentendo una buona convivenza
all’interno del gruppo. Il pedaggio da pagare
per un’esistenza felice è dunque proprio
l’opprimente senso d’appartenenza alla
comunità. Ognuno sente di dovere molto a
tutti gli elementi del suo gruppo, e lo
dimostra nel soddisfare gli obblighi innati
alla propria condizione di singolo individuo nella collettività.
L’ordinamento gerarchico della società giapponese ha una struttura prettamente verticale, che
induce anche gli individui che condividono il medesimo ruolo a tentare di differenziarsi tra
loro. In tal modo, prende forma un sistema gerarchico sorprendentemente raffinato e
complesso, basato sull’anzianità del servizio prestato presso lo stesso gruppo e sull’età,
piuttosto che sull’effettiva capacità individuale.
Il sistema gerarchico fondato sull’anzianità è più semplice e alquanto più stabile del sistema
meritocratico poiché, una volta fissato, funziona automaticamente, senza bisogno di controlli
o direttive, comportando però una notevole rigidità. Nessun membro del gruppo può, infatti,
introdurvi alcuna modifica, nemmeno parziale. Ad effettuare una trasformazione radicale non
può che essere un avvenimento traumatico, che sconvolga direttamente il principio
dell’ordine, o l’unità stessa del gruppo.
Per evitare che un qualsiasi elemento del gruppo possa emergere all’improvviso, evitando la
lenta ascesa della scala gerarchica, l’individuo viene educato in un ambiente che gli
impartisce immediatamente il rispetto per l’importanza del gruppo, valore che va anteposto
persino alla riuscita individuale. Il fatto che l’apporto di un individuo sia superiore o inferiore
al livello richiesto dipende, in ampia misura, dall’armonia che regna nel gruppo, di cui il
principale responsabile è il capo. Per tale motivo, in Giappone, i dirigenti attribuiscono la
massima importanza ai rapporti intercorrenti tra i loro subordinati. La libertà d’azione
individuale è vincolata a limiti tali da garantire che l’attività di ciascuno non possa creare
alcuno scompenso all’interno del gruppo, nel suo interesse. Ogni azione deve essere volta a
tutelare gli interessi collettivi, e non quelli individuali. Qualsiasi sia il contributo del singolo,
L'estremo rispetto dei sottoposti nei confronti dei
superiori
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esso non deve determinare alcun mutamento nell’ordine
gerarchico: i vantaggi che derivano dai contributi
individuali saranno pertanto condivisi dall’intero gruppo.
A questo proposito si può citare la scena finale del film
“Vivere”, di Akira Kurosawa, in cui viene mostrata
chiaramente la natura del regime burocratico giapponese:
l’anziano Watanabe, capoufficio della sezione richieste del
comune, avendo saputo di avere un cancro allo stomaco,
passa gli ultimi mesi di vita dedicando ogni sua energia al
sogno di trasformare una zona paludosa in un campo di
giochi per bambini. Alla sua morte, durante il funerale, il
sindaco in un suo discorso toglie ogni valore al gesto del
dipendente, proclamando il merito della collettività.
In questo paese, dove vige la supremazia della classe media, dal piccolo impiegato all’alto
dirigente di una multinazionale, le differenze sociali sono molto meno sentite che in Europa e
nessuno si vergogna di svolgere, provvisoriamente o no, un lavoro umile. Ogni persona
svolge il proprio compito, anche il più semplice e ripetitivo, con scrupolo e disciplina: le
ragazze degli ascensori, nei grandi magazzini, per ore si inchinano al modo di robot ogni volta
che le porte si aprono e chiudono, ripetendo ad ogni piano la stessa litania; i facchini
dell’aeroporto, dopo aver aiutato i viaggiatori a mettere le valigie sugli autobus, li ringraziano
inchinandosi; gli addetti alle pulizie dei treni, uomini e donne, puliscono accuratamente i
sedili come se fossero le poltrone di casa propria. E’ lunga la lista delle persone che eseguono
il proprio modesto lavoro meglio che possono, riconoscenti verso chi lo procura loro, contente
di rendersi utili alla comunità.
Grazie all’estrema semplicità che contraddistingue questo paese, uno straniero educato in
Giappone sarà tranquillamente accettato quale membro del gruppo e potrà far uso della
solidarietà che sta alla base di esso. Paradossalmente il paese d’origine o il colore della pelle
non generano tanti pregiudizi quanti ne creano la scuola o le istituzioni; condividere le stesse
esperienze negli anni giovanili ha conseguenze che si protraggono per tutta la vita; per far
parte di un gruppo, un individuo deve aver condiviso un’attività all’interno di un’istituzione,
per un periodo di tempo continuativo. È dunque chiaro perché il posto di lavoro sia così
importante nella formazione del cameratismo: l’organizzazione giapponese del lavoro vincola
profondamente, fin dagli anni della giovinezza, il singolo individuo all’istituzione, tanto che
si arriva a morire per esso.
Il capoufficio Watanabe in Vivere
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Negli ultimi anni è stato, infatti, accertato un aumento
esponenziale dei casi di suicidio causati dal karōshi, ossia dal
superlavoro, argomento che sarà trattato più
approfonditamente: questo stato di cose rende particolarmente
evidente quanto la fedeltà al gruppo di appartenenza – in
questo caso l’azienda – possa spingere un suo membro ad
annullarsi per cercare di operare in favore di esso.
Per seguire uno stile di vita così rigido, è dunque necessario
compiere un buon tirocinio sociale: l’individuo acquisisce
queste regole nel corso della propria vita sociale, dall’infanzia
all’età adulta; questa realtà comporta una tensione nervosa ed
un dispendio emotivo che è difficile riscontrare in molte altre società.
Un campanello d’allarme che denota l’ansia di vivere dei giovani giapponesi è dato dalla
morbosa attrazione al fenomeno delle “neoreligioni”, ossia a correnti di pensiero religioso
sviluppatesi in tempi recenti: essi si rifugiano nella religione per sfuggire agli eccessivi
vincoli sociali. Le neoreligioni hanno un sapore fortemente mistico e spesso sono intrise di
occultismo: le esperienze mistiche permettono all’individuo di sfuggire alla realtà – seppure
per un breve periodo – poiché la sensazione di entrare in contatto con qualcosa di misterioso
ed insolito fa dimenticare la solitudine dell’esistenza. A dispetto della ricchezza del tenore di
vita medio dei giapponesi, il desiderio di evadere dalla realtà sta diventando, infatti, sempre
più forte ed inevitabile: questa statistica fornisce una prova inconfutabile dell’oppressione
data dalla civiltà moderna.
Questo fenomeno ci aiuta a capire perché i lavoratori giapponesi nutrano un così forte bisogno
di frequentare bettole e bar malfamati. Ogni sera, a Tokyo, dopo la chiusura degli uffici, gli
impiegati si fermano nei night club prima di tornare a casa, e alcuni rimangono a bere ben
oltre la partenza dell’ultimo treno per la periferia. Non è tanto il piacere del bere ad attrarli,
quanto la possibilità di rilassarsi dopo la tensione e l’alienante competizione di una giornata di
lavoro. L’interesse per la famiglia da parte del lavoratore diminuisce via via che egli è
promosso ai livelli superiori della gerarchia aziendale, e preferisce trascorrere le sempre più
rare ore di libertà chiacchierando con gli amici: far conversazione bevendo alcolici al bar è
un’attività divenuta pressoché indispensabile data l’atmosfera soffocante propria del posto di
lavoro. Altre valvole di sfogo dopo una giornata di lavoro massacrante sono rappresentate dal
karaoke, l’impianto canoro ormai famoso in tutto il mondo e dal pachinko, denominato a
ragione “lo sport nazionale giapponese”: analizziamoli in maniera più approfondita.
Un uomo distrutto dopo una
giornata lavorativa
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Karaoke
La parola karaoke deriva da oke, che significa
“recipiente”, e da kara, “vuoto”, e significa
“orchestra vuota”: le registrazioni usate nel
karaoke contengono le tracce strumentali,
mentre quelle vocali vengono fornite sul posto
dai partecipanti.
Il karaoke apparve per la prima volta verso il
1975, quando fu introdotto nei bar dei
quartieri urbani dei divertimenti. A quel
tempo, i bar affittavano a riscatto le
attrezzature dei fabbricanti. Poco dopo,
furono sviluppati modelli di apparecchiature
per uso domestico, che ora si possono vedere
in molte case. Sono particolarmente popolari nelle aree rurali, dove le opportunità per il
divertimento e la ricreazione sono più rare che in un ambiente urbano.
All’inizio della sua storia, il karaoke offriva solo semplici cassette su nastro, un microfono e
un libro di canzoni, mentre le odierne versioni più avanzate utilizzano laser disk.
Ciascun disco contiene ventotto canzoni: una volta effettuata la selezione del pezzo, la
macchina cerca automaticamente la traccia desiderata, come un juke-box; uno schermo
televisivo mostra le parole del pezzo sovrimposte su di un
breve videoclip, creato per accordarsi con lo spirito della
canzone, rendendola molto più interessante per gli ascoltatori.
Dato che le parole mostrate sullo schermo cambiano di colore
a tempo di musica, anche un interprete inesperto può
facilmente riuscire a cantare con il karaoke.
Per le famiglie a cui piacciono le canzoni popolari, cantare
sull’accompagnamento del karaoke crea una buona
opportunità per rilassarsi in compagnia. A differenza delle feste
occidentali, dove le persone normalmente s’intrattengono con
Un apparecchio portatile per karaoke
Una scena di Boiling Point di
Takeshi Kitano