INTRODUZIONE
Sin dai primi anni Sessanta, la politica araba
dell’Italia vive un processo di stabilizzizazione e
miglioramento dei rapporti politici con gli Stati
nordafricani mentre meno intensa appare la sua
azione in Medio Oriente. I rapporti dell’Italia con
i Paesi dell’area medio-orientale erano ripresi con
cordialità in seguito alla crisi di Suez del 1956. In
primo luogo con l’Egitto, con la visita di Nasser
del 14 novembre e successivamente con
l’annuncio del rinvio a data ravvicinata – marzo-
aprile 1957 – di una serie di visite del Presidente
Gronchi in Libano e in Iran. La dottrina
Eisenhower, enunciata dal segretario di Stato
americano Dulles alla Camera dei rappresentanti
il 7 gennaio 1957, era stata accolta
favorevolmente dal nostro Paese. Sulla stessa
linea continuarono i rapporti politici in Medio
Oriente dal governo di centro-sinistra, inaugurato
nel marzo 1962 da Amintore Fanfani e che
comprendeva democristiani, socialdemocratici e
repubblicani.
La Guerra dei Sei Giorni fu un evento decisivo
nella questione arabo-israeliana e scosse un
mondo ormai abituato alla situazione di stallo
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determinata dalla guerra fredda. La rapidità e la
completezza della vittoria israeliana furono fonti
di sollievo e nel contempo ragioni di euforia per il
popolo d’Israele. La vista dei carri armati nel
Canale di Suez e dei paracadutisti in preghiera di
fronte al Muro del Pianto di Gerusalemme
sarebbe stata inconcepibile solo pochi giorni
prima, quando Israele appariva circondato da una
coalizione di paesi arabi determinata alla sua
distruzione. Dall’altra parte il mondo arabo si
sentiva umiliato ed offeso, i palestinesi si
sentivano derubati dalle proprie già deboli
speranze, gli europei e gli americani erano stati
ridotti a meri spettatori in una crisi sfuggita al
controllo internazionale. La guerra, che iniziò la
mattina del 5 giungo 1967 con devastanti
incursioni dell’aviazione israeliana sulle basi
aeree egiziane e che terminò il 10 giugno con la
conquista delle alture del Golan in Siria,
determinò un mutamento del quadro politico-
strategico del Medio Oriente che tutt’oggi attende
una risoluzione.
“Come in tutti i precedenti conflitti arabo
israeliani – spiega Giovanni Codovini, autore del
libro Storia del conflitto arabo-palestinese e
ricercatore presso l’Istituto storico Umbria
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contemporanea – si incrociarono destabilizzazione
internazionale e realpolitik. Così è necessario
distinguere tra eventi di media durata e
avvenimenti prossimi. Per quanto riguarda i primi,
va rilevato che lo scacchiere mediorientale tra il
1956 e il 1967 divenne luogo geopolitico di
radicali cambiamenti: nel 1958 Egitto e Siria
fondarono la RAU (Repubblica araba unita), fatto
fondamentale che finì però per dividere
l’arabismo. Non a caso le monarchie più
moderate, come Giordania e Siria, contrapposero
alla Rau l’Unione araba. Il fallimento della Rau
determinò un cambiamento di prospettiva
dell’Egitto di Nasser, il quale rafforzò i vincoli
con l’Unione Sovietica che, per bocca di
Chruscev, identificava la politica comunista con
la causa araba contro il sionismo e l’imperialismo
occidentale. Nel 1963 il partito Baath andò al
potere in Egitto e in Siria, e soprattutto nel
maggio 1964 un evento radiale cambiò
strategicamente il contesto internazionale: un
Congresso nazionale palestinese fondò
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina
(Olp), un arcipelago di formazioni politico-
militari (a principale fu al – Fatah di Arafat)
cementate dall’affermazione che l’ “entità sionista
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di Israele”(entità, si badi, non Stato) andava
liquidata. Solo tra il gennaio 1965 e il giungo
1967 gruppi guerriglieri palestinesi, collegati a
Fatah, partendo dal Libano, Giordania e Siria
effettuarono 122 incursioni contro obiettivi
israeliani, seguite dalle rappresaglie israeliane
culminate con i fatti di Sammu in Giordania nel
1966. E veniamo così agli eventi prossimi:
l’abbattimento di sei Mig-21 siriani da parte
dell’aviazione israeliana e l’inaspettato ritiro dei
caschi blu dell’Onu dalla zona del Canale di Suez,
dopo l’invito a farlo di Nasser al segretario
generale U Thant, favorì il già predisposto piano
d’attacco contro Israele dell’Egitto. La decisione
egiziana di bloccare lo stretto di Titan appariva
come il più classico casus belli. La guerra dei sei
giorni ebbe così inizio”.
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La politica espansionistica appartenne di più ai
paesi arabi che, difatti, nel 1973, attaccarono
nuovamente Israele proprio sulla questione dei
territori cosiddetti occupati. “Inoltre, nel 1976, la
Siria inviò nel Libano due brigate per sostenere la
Falange cristiana maronita contro l’Olp e il
movimento nazionale libanese. Mentre, a seguito
della guerra del Kippur – conclude Codovini – si
1
“L’effetto domino è una regola aurea”, intervista a Giovanni Codovini di Alessandro Marucci in “Millenovecento”,
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instaurò un virtuoso processo di pace tra Israele
ed Egitto che portò all’accordo di Camp David del
settembre 1978 con il quale Israele restituì a Sadat
il Sinai”.
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All’indomani dello scoppio del conflitto le
reazioni nel nostro Paese furono contrastanti. Il
centro-sinistra aveva abbracciato la linea
filoatlantica e filosionista, i socialisti
manifestarono solidarietà al piccolo Stato, il PCI
si mantenne invece una posizione filosovietica.
Il “Corriere della Sera” lodava il patriottismo
manifestato dallo Stato d’Israele che poteva
vantare, scrisse Indro Montanelli il 7 giungo
1967, “un esercito western che eccelle proprio
nella sua specialità degli eroi western: quella di
battere sul tempo l’avversario nell’estrarre la
pistola dalla fondina”.
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La reazione del nostro Esecutivo raggiunto dalla
notizia dello scoppio della guerra in Medio
Oriente fu quella di chiedere immediatamente
l’intervento delle forze dell’Onu. Gli ambasciatori
italiani a Washington, Londra, Mosca e Parigi
furono incaricati dal ministro degli Esteri Fanfani
a sottolineare la tesi italiana ai governi dei quattro
Milano, novembre 2002, pp.42.
2
“L’effetto domino è una regola aurea”, intervista a Giovanni Codovini, Ivi, p.43.
3
MONTANELLI I, David contro Golia, in “il Corriere della Sera”, 7 giugno 1967, p.1.
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paesi che, quali membri permanenti del Consiglio
di Sicurezza, avrebbero dovuto adoperarsi per
prendere le misure necessarie.
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Fanfani, già all’epoca della crisi di Suez, era stato
in viaggio a Washington dove ebbe un colloquio
con il presidente Eisenhower e il segretario di
Stato Foster Dulles, aveva cercato di
tranquillizzarli con professioni di fedele
atlantismo ma si fece promotore
contemporaneamente di un grande piano per
l’assistenza economica ai paesi del Medio
Oriente. L’onere dei finanziamenti sarebbe caduto
prevalentemente sulle spalle degli Stati Uniti, ma
l’Italia avrebbe avuto nell’ambito di questo “piano
Marshall” per il Mediterraneo il ruolo di difensore
dei paesi arabi. Da allora continuò a proseguire
sul binario di una doppia amicizia: con gli Stati
Uniti e con i Paesi arabi. Ai primi, dette un pegno
di fedeltà accettando l’installazione in territorio
italiano di rampe di missili di media gittata; ai
secondi dette un segno delle disposizioni italiane
assecondando la politica petrolifera di Mattei.
Faceva insomma, verso gli Stati Uniti, una
politica sul filo del rasoio cercando di conciliare il
massimo di fedeltà con il massimo
4
Discorso di Fanfani alla Camera dei deputati sulla crisi in Medio Oriente, in “Index”, 1965-1968, pp. 2543-2545.
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d’indipendenza. Se tale politica tendeva a scalzare
la Francia da alcune delle sue posizioni
tradizionali in Africa del Nord, la cosa non
dovette spiacergli: era un modo per frustrare le
ambizioni neocolonialiste del generale de Gaulle
che proprio nello stesso periodo aveva avanzato la
proposta che aveva irritato molto Fanfani: quella
di un direttorio tripartito al vertice dell’Alleanza
Atlantica. Cercò anche più tardi di inserirsi nel
vecchio contenzioso del Canale di Suez: agli inizi
di gennaio vide Nasser al Cairo e qualche giorno
dopo de Gaulle a Parigi per riferirgli i risultati dei
suoi colloqui.
L’Italia era la più piccola e la più debole delle
grandi potenze, ma poteva sfruttare la forza degli
altri e concorrere a risultati in cui il suo ruolo
sarebbe stato valorizzato. Era, quella di Fanfani,
la versione aggiornata e volontaristica di quella
politica del “peso determinante” che il paese
aveva praticato per buona parte della sua storia
unitaria.
Nel 1956 Israele aveva preparato e realizzato, con
la Francia e l’Inghilterra, una manovra aggressiva.
Nel 1967 reagì con la forza, invece, ad
un’offensiva egiziana solo per rompere l’assedio e
prevenire la manovra di Nasser. Se nel 1956 una
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larga parte dell’opinione politica italiana aveva
simpatizzato per gli israeliani, nel 1967 i suoi
sentimenti erano diversi. Tuttavia, il centro-
sinistra aveva modificato gli schieramenti e gli
equilibri politici del paese. Il partito socialista era
ormai atlantico ed europeo, ma faceva fatica a
rompere i vincoli che ancora lo legavano ai settori
più antiamericani della sinistra italiana. L’apertura
a sinistra, tuttavia, dette spazio e respiro a quelle
correnti del mondo cattolico che avevano
accettato a malincuore, nel 1949, l’adesione
dell’Italia al Patto Atlantico.
La richiesta di ritiro dei reparti delle Nazioni
Unite dal Sinai avanzata il 23 maggio 1967 non
suscitò reazioni ufficiali da parte dell’Italia e
anche nei giorni immediatamente precedenti lo
scoppio delle ostilità, il governo Moro si astenne
dal pronunciare condanne nei confronti
dell’iniziativa egiziana o del successivo blocco
del Golfo di Aqaba.
Un altro fattore, infine, contribuì ad ingrossare il
fronte proarabo dell’opinione italiana: quello
degli interessi economici. Quando scoppiò la
Guerra dei Sei giorni, l’Italia era, fra i paesi
occidentali, quello che occupava in Egitto le
posizioni più promettenti. L’Italconsult stava
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bonificando 55.000 ettari di terre coltivabili, l’Eni
controllava due società, imprese italiane avevano
ampliato raffinerie e costruito centrali elettriche,
Olivetti e Fiat avevano fatto importanti
investimenti. Ad alcuni ambienti politici ed
economici questi successi parvero la
prefigurazione di ciò che l’Italia avrebbe
rappresentato nel Mediterraneo se avesse saputo
instaurare con i paesi arabi un rapporto
privilegiato.
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Contro questo largo fronte proarabo e
antisraeliano si schierarono quelle forze a cui
parve necessario dimostrare anche in queste
circostanze che gli amici dell’Italia erano in
Occidente. I socialisti furono soggetti, più di
qualsiasi altro gruppo politico, a opposte
sollecitazioni. In passato erano stati
sostanzialmente filoisraeliani perché tale era la
tendenza prevalente del socialismo democratico
europeo in seno alla II Internazionale; divennero
da allora sempre più sensibili alla causa
palestinese. La frattura si ripercosse sul vertice del
paese. Alla fine di un dibattito alla Camera, il 7
giugno 1967, fu approvata, con il voto dei
comunisti, una risoluzione che rimetteva all’Onu
5
ROMANO S., Guida alla politica estera italiana. Dal crollo del fascismo al crollo del comunimo, Rizzoli, Milano,
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la soluzione della vertenza e che fu letta dagli
israeliani come ostile, di fatto, alla loro posizione.
All’Assemblea straordinaria dell’Onu, qualche
giorno dopo, Aldo Moro adottò una posizione
apparentemente equidistante indicando nelle
Nazioni Unite l’istituzione internazionale a cui
delegare la soluzione del conflitto; e poiché il
peso del “terzo mondo” all’Onu era andato
costantemente crescendo, le sue dichiarazioni
parvero a molti obiettivamente proarabe. Ancora
più favorevole alla posizione dei paesi arabi fu
Fanfani, ritornato agli esteri nel febbraio del 1966,
che espresse con la sua abile diplomazia,
l’atteggiamento amichevole dell’Italia verso i
Paesi arabi ma, allo stesso tempo, il
riconoscimento del diritto di Israele ad esistere
come Stato.
6
1993, pp. 115-119.
6
Annuario ISPI 1967-1971, pag.436.
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