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ipertestuali (innalzando l’ipertesto alla figura della
grande micro - narrazione della nostra epoca), verso il
tema dell’interattività che ci conduce più nello specifico
nel discorso etico - politico, che fino alla parte terza,
portava solo in nuce i germi di quella che dimostreremo
essere l’alba di una nuova era per l’uomo, potenzialmente
sia di distruzione che di progresso.
Basandoci su una riflessione di Faillon secondo cui la
tecnica deve essere inquadrata non come “strumento” ma come
“processo” per cui l’arte diventa esplorazione creativa del
processo tecnico e lo trasforma in linguaggio,
l’interrogativo che ci poniamo è: l’innovazione tecnologica
può diventare innovazione linguistica? Per il momento ci
interessa rilevare per concludere così in sospeso e con una
speranza di aver accesso una qualche curiosità nei
confronti dello scritto, che le nuove tecnologie sono state
ideate secondo un’etica partecipativa e ludica, e che per
questo motivo è necessario che l’arte giochi con essa, ma
non solo l’arte… ispirandoci alla Gemini e a Baudrillard,
per cui “l’arte percorre le vie dell’incertezza creativa” e
gioca con le tecnologie, facciamo luce sull’incertezza come
condizione dell’uomo nel mondo, la contingenza del moderno.
Il gioco come terreno privilegiato di tutta
l’esperienza umana, e l’immaginazione come materia del
sogno, del desiderio, del progresso.
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Parte prima
Strumenti
Questa prima parte è dedicata all’obiettivo di
comprendere gli “strumenti” preliminari per seguire il
nostro ragionamento, e la nostra successiva tesi.
Innanzitutto è utile specificare il particolare significato
che attribuiamo all'espressione “strumenti”: si tratta
spesso di termini fin troppo usurati dal pensiero comune,
questi ultimi utilizzati per disegnare a grandi linee
l’”epoca del digitale” nella quale viviamo; altre volte si
tratta di concetti dedotti dai significati multipli che
assumono i menzionati termini, che ci conducono alla fine
di questo primo viaggio. Come un modesto bonsai, la nostra
tesi inizia ad allargare le radici in vista dei “processi”
di sviluppo, che saranno diramate nella parte seconda. Non
esitiamo a procedere per comprenderci meglio.
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Capitolo primo
ξ Multimedialità: definizioni e problematiche
Opportuno è incominciare dal significato
dell’espressione “multimedialità”, che deduciamo
dall’enciclopedia libera multimediale Wikipedia. Qui
leggiamo:
“ La multimedialità è la compresenza e interazione di più
mezzi di comunicazione in uno stesso supporto o contesto
informativo. Si parla di contenuti multimediali, specie in
ambito informatico, quando per comunicare un'informazione
riguardo a qualcosa ci si avvale di molti media, cioè mezzi
di comunicazione di massa, diversi: immagini in movimento
(video), immagini statiche (fotografie), musica e testo.”
Da questa definizione è facile intuire che l’idea di
multimedialità presuppone l’integrazione dei relativi
codici testuali, grafici, musicali, audiovisivi,
fotografici, e perché no, tattili specifici di ogni media
chiamato in causa. D’altra parte ciò non è stato possibile
fino all’innescamento del processo di digitalizzazione dei
dati, che ha reso possibile la trasposizione e la
conversione delle informazioni in un unico metamedium
tecnologico, il computer. Alla base dunque del concetto vi
è un’indiscussa fluidità nella transcodifica e nella
navigazione tra i media stessi. L’idea di multimedialità,
tuttavia, precede e anticipa la rivoluzione digitale che
l’ha resa “operativa”: il termine nasce negli anni Ottanta
quando ancora non innescato il vero mutamento, diventa
punto d’incontro tra l’industria e le sperimentazioni
artistiche concentrate entrambe nella ricerca di riunire in
una stessa offerta immagini, suoni, codici, tramite la
tecnologia dirompente. La questione terminologica è
tuttavia molto più complessa di quanto si possa immaginare.
Conosciamo bene l’usura del termine multimedia, e la
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conseguente banalizzazione del suo significato. Non
possiamo però trascurare la peculiare ambiguità insita
nell’espressione. Infatti, il prefisso “multi” può evocare
l’idea di una moltiplicazione in cui “cambiando l’ordine
degli addendi, la somma non cambia”. In questa elementare
formulazione notiamo una pericolosa “molteplicità
indifferenziata”, per nulla utile alla nostra discussione.
Per tale motivo a lungo i più disparati studiosi hanno
combattuto per un rinnovamento del termine, proponendo
svariate e interessanti sfumature. Tra le più
significative, vi è la nascita del vocabolo “intermedia”, i
cui natali si trovano nel testo del 1966 “Intermedia” di
Richard Higgins. Esso è anche il nome del software creato
da Landow nel 1985 per l’editing di ipertesti, in cui in
prefisso “inter” comunica l’assenza di una gerarchizzazione
tra i media, i quali conservano le proprie peculiarità
all’interno del dialogo. L’opposto, dunque, di quello che
esprime il termine “multi”, più consono a una cultura
abituata a “graduare” e “classificare” ogni sua
manifestazione. Accanto ad “inter” è stato accostato il
concetto di “codice” che s’inserisce negli studi sull’arte
come linguaggio degli anni Sessanta proseguiti nel decennio
successivo. Semiologi come Barthes ed Eco cercano di
analizzare le opere d’arte e i media con gli stessi
strumenti della semiotica: entrambe svilupperebbero un
proprio sistema di regole (il codice) che ne specifica le
caratteristiche espressive; per tale motivo le nuovi arti
performative che simultaneamente utilizzano più linguaggi
creerebbero un’inter – codice. Soffermandoci sulle neonate
modalità di fruizione innescate dai processi di
transcodifica digitali, d’obbligo è parlare delle
disquisizioni di Pierre Lèvy sul nostro termine.
Quest’ultimo ci induce a considerare che parlare di
multimedialità è come soffermarsi esclusivamente sulle
“forme di rappresentazione” piuttosto che sulle modalità di
comunicazione e fruizione che fondano i new media. Nel 1999
egli conia il termine “unimedia” per nominare “il confluire
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di media separati in un’unica rete digitale integrata”.
Apparentemente opposto a “multimedia”, il vocabolo vuole
tuttavia rappresentare il punto d’arrivo della sua
evoluzione, nel momento in cui il dialogo tra i media si
compie nella convergenza in un unico standard, quello
digitale. Tutto ciò a dimostrazione che il sistema mediale
attuale presenta un’elevata omogeneità e coerenza data
dalla condivisione di regole morfostrutturali e
performative molto simili, potendosi tradursi senza
sostanziali perdite d’informazione. Alla fine però, il
termine “multimediale” pur nella coscienza dei suoi limiti,
mantiene una riconoscibilità collettiva che lo rende un
utile “luogo comune” di riferimento. Multimedialità dunque
come pluralità sinestetica che si presenta come un
intreccio di tre elementi: interazione tra i media
tecnologici; interazione tra i linguaggi artistici e i loro
rispettivi campi sensoriali; trasformazione permanente e
reciproca dei due elementi precedenti.
Il “farsi” multimediale ha in conclusione trasformato
radicalmente i linguaggi artisti codificati, divenendo
padre dell’integrazione di forme artistiche precedenti
(video-poesia, video-arte, video istallazioni…) e madre
nella nascita di nuove tipologie d’arte (net art, computer
art, hacker art, software art…). D’altra parte il “farsi
multimediale” è stato la massima aspirazione del sistema
arte dalla svolta epocale nel pensiero occidentale tra la
fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento.
“L’utopica sintesi delle arti” si dirama per decenni dai
romantici fino alle avanguardie storiche, ma dopotutto non
è in questa sede che intendiamo tracciare un percorso
storico della sua evoluzione. Più avanti (capitolo quarto),
cercheremo di tracciare una genealogia di questa “utopia”,
senza però pretendere di delineare un continuum storico,
bensì scegliendo esempi artistici di questi decenni che più
ci hanno incuriosito. Per il momento ci interessa
unicamente porre l’accento sull’indissolubile legame che vi
è tra l’arte e il multimediale digitale come sua massima
10
aspirazione ed evoluzione. La sintesi numerica di testi,
immagini, o suoni in un unico metamedium, indipendente dal
supporto originario che diventa una periferica, segna la
terza “rivoluzione” nell’ambito del rapporto tra arte,
tecnica e comunicazione.
“ La prima rivoluzione è stata quella della riproducibilità
tecnica (dalla stampa alla fotografia e al cinema)
descritta da Walter Benjiamin negli anni Trenta; la seconda
rivoluzione si è realizzata con la trasmissione e la
riproducibilità tecnica a distanza in diretta (telegrafo,
telefono, radio, televisione), studiata nei suoi effetti
psicologici e sociali da Marshall McLuhan nei primi anni
Sessanta; la terza rivoluzione, introdotta alla fine del
Novecento, è appunto quella che alcuni hanno definito,
parafrasando Benjiamin, della riproducibilità digitale (F.
Ciotti e G. Roncaglia, 2000) e che noi preferiamo definire
la Sintesi digitale connettiva (computer e rete.)
1
“
Quello che ipotizzeremo nel corso delle nostre
disquisizioni, è che ci troviamo all’alba di una “quarta
rivoluzione”, segnata questa volta da processi bio-
cibernetici, in cui il vero ed indiscusso protagonista è
l’entità “linguaggio”… D’altra parte è prematuro in questo
primo capitolo “Saltare alle conclusioni”, e per tale
motivo preferiamo far accrescere un po’ di suspense…
Ciò che ci interessa per il momento è comprendere che il
passaggio dall’elettronica analogica al digitale, con la
conseguente trasformazione dei linguaggi artistici
codificati, ha prodotto “rimedi azioni” (J. D. Botler e R.
Grusin, 2002) delle forme storiche dei mass media. Cammino
che come già accennato, affonda le proprie radici in un
percorso avviato nel XIX secolo e “detonato” nel XX: dalla
chimera dell’opera totale alla decostruzione temporale e
1
A. Balzola, A. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche
delle arti dl nuovo millennio, Collana Saggi, Garzanti Editore, Padova, 2004.
11
spaziale dell’opera, dalla riformulazione della figura
dell’artista, e dello spectator, alle neonate dinamiche di
fruizione. Tutti discorsi che si dirameranno durante il
corso della nostra stesura, ma che adesso ci consentono di
comprendere che in particolare il Novecento ha visto regine
la comunicazione e la tecnologia anche nel mondo delle
arti, e poiché comunicare, nell’ottica del paradigma
interattivo, significa principalmente produrre un
cambiamento, “la forma va intesa nel senso (direzione e
significato) della trasformazione”(A. Balzola, A.
Monteverdi, 2004). Oggi fare arte è interrogare
creativamente le modalità di comunicazione ed espressione
dei medium, per cui assistiamo a uno spostamento dall’opera
al processo creativo. Tutto ciò verrà più ampiamente
trattato nel corso delle conclusioni di questa prima parte,
giacché parlare di “processo creativo”, ci sarà utile per
proiettarci in quella che sarà la seconda parte
dell’elaborato, nominata appunto “processi”. In
conclusione, riteniamo opportuno precisare in questo
capitolo il concetto di remediation, alla luce del quale
Botler e Grusin analizzano la struttura multimediale
propria dell’epoca della digitalizzazione. La rimediazione,
racchiusa nella straordinaria intuizione di M. McLuhan “il
contenuto di un medium è sempre un altro medium
2
” viene
riformulata da Botler e Grusin, e utilizzata come nocciolo
del concetto di remediation. La rimediazione è il rapporto
che s’istaura tra vecchi e nuovi media, i quali in
incessante dialogo, competono e si riformulano
migliorandosi e costituendo una chiave di lettura
privilegiata per la “decodificazione” degli usi sociali e
delle interpretazioni culturali connesse all’uso dei media.
Le tecnologie, infatti, non sono mai separate dalle
pratiche sociali che le determinano. Nel capitolo terzo di
“Remediation” leggiamo: “Il riconoscimento culturale non
deriva solo dal modo in cui funziona ognuna di queste
2
M. McLuhan, Understanding Media. The Extension of Man, McGraw-Hill, New York 1964.
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tecnologie, ma anche dal modo in cui ciascuna di esse si
relaziona alle altre. Ogni tecnologia fa parte di una rete
di contesti tecnici, sociali ed economici: questo network
costituisce il medium come tecnologia
3
”. Elemento centrale
del concetto è che nella nostra cultura un singolo medium è
impossibilitato a operare in forma isolata. Poiché non solo
si appropria di tecniche e forme di altri media, ma anche
degli specifici significati sociali di questi ultimi, e
cerca di “competere con loro o di rimodellarli in nome del
reale”. Ricomprendiamo allora anche il concetto di
multimedialità all’interno di un “network of remediation”,
che alimenta il dialogo tra “vecchi” e “nuovi” media.
Sottointeso è l’ovvio parallelo che esiste tra parlare di
“network” e dare importanza alle “connessioni”. In questo
rinnovato modo di intendere il rapporto tra i media, il
digitale non segna allora una discontinuità bensì una
particolare tappa del processo evolutivo, espressiva e
rivoluzionaria per le inedite capacità di rimodellamento
non solo della natura dei grandi media di massa, ma anche
della specifica dimensione percettiva e socialmente
accettata, delle forme artistiche ed espressive. Il
potenziale di remediation è così elevato perché le
tecnologie digitali sfruttano in modo estremamente
raffinato entrambe le strategie della rimediazione: la
logica dell’immediacy e la logica dell’hypermediacy. Questo
potenziale e le sue implicazioni saranno esposti più
compiutamente nel nostro capitolo intitolato in modo
paradigmatico “L’ipermediazione trasparente”. Ciò che ci
interessa alla fine di questo primo capitolo, è aver
espresso come un termine così abusato come “multimedialità”
abbia in realtà oltre che delle profonde radici storiche,
anche delle implicazioni del tutto inaspettate connesse
agli usi e alle pratiche sociali, particolarmente evidenti
nel campo dell’arte, luogo privilegiato di produzione
simbolica dell’essere.
3
J. D. Botler, R. Grusin, Remediation, Understanding New Media, The MIT Press, Cambridge , 1999.