come lingua viva in progressiva evoluzione, accrescendo la sua preminenza
anche nel panorama europeo.
Più in generale, le motivazioni che hanno ispirato le scelte del
legislatore italiano sono essenzialmente due:
- da un lato, il fatto che l’insegnamento precoce della lingua straniera
va ad integrare in modo tangibile quel processo di alfabetizzazione
culturale che la scuola intende promuovere e che non è riconducibile
al solo ambito dell’istruzione, ma va inteso come accesso alla
cultura, mediante l’apprendimento formativo dei suoi più elementari
alfabeti e linguaggi;
- dall’altro, la constatazione che non ha senso parlare di una lingua
come qualcosa di astratto, in quanto essa non può essere ridotta a
mero strumento utilitaristico, fatto di regole e costruzioni
grammaticali, al contrario la lingua non può essere isolata dalla
cultura del popolo che la utilizza per esprimersi e per rappresentare
se stesso
3
.
In un mondo così intensamente interdipendente ed intercomunicante, come
quello in cui viviamo, la conoscenza della lingua straniera favorisce,
dunque, il processo di socializzazione, di conoscenza dell’altro da sé, del
riconoscimento della diversità, in quanto chi si accinge ad apprendere una
lingua diversa dalla propria, apprende anche i fattori culturali ad essa
3
Già nella Premessa Generale, e precisamente nella parte riservata ai Criteri e fini della
scuola elementare, si afferma che “in relazione alle complessive finalità educative, la
scuola deve operare perché il fanciullo […] sia progressivamente guidato ad ampliare
l’orizzonte culturale e sociale oltre la realtà ambientale più prossima, per riflettere […]
sulla realtà culturale e sociale più vasta, in uno spirito di comprensione e di
cooperazione internazionale…”. Cf. K. I. CANELLA – S. MUSACCI, Insegnare lingua
inglese…, op. cit., p. 44.
6
connessi, scopre il relativismo cognitivo e matura la consapevolezza che la
sua lingua, e la rappresentazione della realtà che essa veicola, non siano le
sole possibili. Ciò apre nel bambino la via al decentramento, al sapersi
posizionare in altri punti di vista, sia in termini cognitivi che culturali, e
quindi comportamentali: affiancare alla propria cultura l’immagine di una
cultura “altra” e di rappresentazioni della realtà diverse dalla propria, sia in
termini di segni e di suoni, che di codici e di valori, permette infatti
all’alunno di intuire ed apprezzare la compresenza di sistemi di conoscenza
e di comunicazione possibili e alternativi. La cultura, naturalmente, viene
intesa nel suo senso più ampio, non limitata alle forme alte del pensiero e
dell’agire, ma estesa all’intero modo di vivere, di pensare e di esprimersi di
un individuo e/o di gruppo sociale.
Tali presupposti orientano nella prospettiva dell’educazione
interculturale, la quale rappresenta la sfida che la scuola, in quanto agenzia
di formazione, è chiamata a raccogliere al fine di trasformare i processi
multiculturali, in atto quando in uno stesso territorio si trovano a coesistere
culture diverse, in rapporti di intercultura, cioè di trasformazione di tutti
attraverso una lettura delle diversità e delle molteplici e coesistenti
appartenenze di ciascuno come risorsa per sé e per gli altri. In tal modo, la
scuola può contribuire in maniera incisiva sia alla costruzione di un progetto
di vita e di azione comune che stimoli il senso di responsabilità e di
partecipazione di ciascuno, sia all’edificazione di una società che privilegi i
meccanismi di partecipazione alla vita civile e democratica, piuttosto che la
discriminazione tra il migliore ed il peggiore.
7
L’interesse per l’educazione interculturale, tema di notevole
complessità, è sorto e si è sviluppato in concomitanza con i fenomeni
migratori che hanno raggiunto, in misura fino ad oggi inconsueta, il nostro
Paese (come del resto accade anche in altri Paesi europei); è certo, però, che
il parlare di educazione interculturale non si limita all’accoglienza e
all’integrazione degli alunni di altre nazionalità nel sistema scolastico, ma si
accompagna all’esigenza di una rilettura di tutte le progettualità scelte dalla
scuola attraverso una rivisitazione e un decentramento culturale dei
contenuti didattici. Per questo, costituisce non una semplice materia di
studio che si colloca accanto alle altre discipline, quanto piuttosto lo sfondo
integratore delle stesse, vale a dire un approccio per rivedere i curricoli
formativi, gli stili comunicativi e la gestione delle differenze, delle identità e
dei bisogni di apprendimento. Si tratta, in altri termini, di un metodo che
coinvolge tutti gli allievi, in quanto portatori di una propria differenza
culturale e di esperienze originali vissute nella quotidianità; un metodo da
attuare, dunque, anche in assenza di alunni stranieri in classe, poiché pone
l’accento sul processo di confronto e di scambio, di apertura all’alterità, di
cambiamento reciproco, di ibridazione
4
. Un metodo, ancora, fondato su un
principio fondamentale che è quello dialogico: non c’è prospettiva
interculturale, infatti, se non in un’ottica della relazione dialogica in grado
di essere trasformativa per entrambi i termini della relazione.
Lo scopo del presente lavoro è proprio quello di dimostrare come
l’insegnamento della lingua straniera, che più di tutte le altre discipline si
4
Cf. S. DI CARLO, Proposte per una educazione interculturale, Tecnodid, Napoli 1994, p.
73.
8
fonda sul dialogo e sulla reciprocità della comprensione, possa rientrare a
pieno titolo nella dimensione interculturale, attraverso l’utilizzo di materiali
appropriati e seguendo dei percorsi che procedono alla scoperta della cultura
espressa da quella lingua.
Tra questi percorsi, primo fra tutti è quello che privilegia il metodo
narrativo. La narrazione, infatti, è un “topos” culturale presente in ogni
popolo e in ogni tempo, ed ha rivestito una notevole importanza nella
trasmissione della cultura umana, un tempo prevalentemente orale. La prassi
del raccontare, infatti, consente non solo di trasmettere i propri vissuti
culturali attraverso una trama narrativa individuale, ma innesca
automaticamente una prassi di condivisione tra coloro che sono intenti sia
all’ascolto che al racconto; soprattutto, è importante perché crea un contesto
entro il quale è possibile comprendere la lingua attraverso i significati che
essa esprime, e non semplicemente attraverso meccanismi di traduzione e
memorizzazione delle regole grammaticali che risulterebbero inefficaci in
ordine all’acquisizione della competenza comunicativa interculturale. La
narrazione, dunque, è di per sé una operazione interculturale, poiché ogni
storia, costruita o inventata, è prima di tutto un intreccio di altre storie, di
altre culture di qui e d’altrove; lo spazio del racconto, inoltre, è unico, in
quanto rappresenta il più vero ed affettivo luogo pedagogico
dell’apprendimento linguistico.
La prima parte dell’elaborato, pertanto, mette in luce la stretta
connessione esistente tra educazione interculturale e narrazione di fiabe e
storie multietniche; dopo aver sottolineato, nel primo capitolo, le
9
caratteristiche fondamentali dell’educazione interculturale, che rientra nel
contesto più ampio della pedagogia interculturale, si ribadisce il ruolo
decisivo della scuola, il luogo della mediazione interculturale per
eccellenza: essa, infatti, è chiamata ad una revisione delle proposte
didattiche in modo da orientare il processo di formazione verso
l’acquisizione di quelle competenze necessarie ad affrontare con successo le
sfide poste da una società sempre più globalizzata. Emerge, così, l’esigenza
di una didattica interculturale, che deve essere impostata come pratica
quotidiana applicabile a qualsiasi ambito disciplinare e a qualsiasi
disciplina: fare didattica interculturale nella scuola significa, infatti,
programmare una serie di percorsi, che abbiano come scopo quello di
assicurare un arricchimento cognitivo e antropologico, ma soprattutto quello
di determinare un ampliamento dell’orizzonte culturale, che apra la persona
ad un’identità migrante, nomade, meticcia, e al quale collegare l’intero
processo di apprendimento. E l’apertura all’altro, alla diversità, si riconduce
inevitabilmente ai motivi del narrare; la narrazione, pertanto, non è più
intesa soltanto come un contenuto dell’educazione, come attività
occasionale, ma come un suo nuovo e originale principio epistemico, quello
di educare narrando.
Nel secondo capitolo, quindi, si introduce nello specifico il tema
della narrazione come pratica alle radici della civiltà. Si sottolinea come il
raccontare sia il mezzo privilegiato per poter tramandare di padre in figlio
usanze, credenze ed espressioni del costume, e per poter passare
informazioni sugli eventi cruciali del mondo; ma il valore del racconto è
10
dato anche dal fatto che esso può diventare, in un contesto educativo,
strumento di formazione e mezzo per implementare le capacità individuali
di affrontare e governare la complessità. Quando una situazione narrativa,
poi, ha per oggetto il fantastico o il magico, essa si connota come vera e
propria espressione d’arte, come momento di contatto con una dimensione
fuori dalla realtà e dal tempo ordinario; narrare una fiaba, infatti, vuol dire
creare una congiunzione tra fantasia e realtà, visitare paesaggi sconosciuti,
vedere ciò che prima era invisibile, svelare verità nascoste e farne tesoro per
affrontare in modo più consapevole il mondo reale. Si tenta, dunque, di
risalire alle origini di questo particolare genere letterario, molto vicino al
mito, scorrendo le ipotesi più importanti postulate in merito dalle varie
scuole di pensiero, per poi effettuarne l’analisi della struttura, seppure nelle
linee essenziali. Si considerano, inoltre, gli aspetti psicologici sottesi alla
fruizione delle fiabe; il fruitore per eccellenza dei racconti fiabeschi è il
bambino, per il modo in cui egli vede le cose e vive l’esperienza concreta.
Attraverso il linguaggio delle fiabe, infatti, il bambino è capace di percepire
il significato della propria esistenza, non altrimenti accessibile, poiché
dotato del cosiddetto pensiero magico, in cui gli eventi sono compresi più
secondo la logica del desiderio che il principio di realtà. È anche vero,
tuttavia, che non si può capitalizzare l’attenzione del bambino sempre o
prevalentemente sulla fiaba, in quanto si sviluppano gradualmente in lui le
capacità di affrontare anche altri generi letterari, quindi altri tipi di storie,
dove l’elemento magico lascia il posto alla realtà e alla concretezza dei fatti.
Infine, si riflette sull’utilizzo di fiabe e storie nella prospettiva interculturale,
11
mettendo in evidenza che ciò diventa didatticamente efficace solo se si
riesce a fare percepire la funzione analoga che fiabe e storie molto diverse
fra loro assolvono in culture lontane. In altri termini, occorre evitare di
focalizzare l'attenzione sulle differenze culturali, rischiando di ridurle ad
elementi folkloristici e alimentando così gli stereotipi, piuttosto è utile
portare gli alunni a riconoscere gli elementi comuni che esistono tra le
diverse culture, in modo da stabilire un contatto con esse.
La seconda parte dell’elaborato si addentra, invece, nelle tematiche
inerenti all’insegnamento della lingua inglese nella scuola primaria in
chiave interculturale; pertanto, nel terzo capitolo, vengono enucleati i
principali elementi teorici che si pongono alla base dell’apprendimento di
una lingua straniera. Prima di tutto, si analizzano le differenti modalità con
cui il bambino apprende la lingua materna e quella straniera, poiché è
importante sottolineare che il bambino che si appresta ad imparare una
lingua diversa dalla propria porta già con sé il bagaglio, ormai consolidato,
della propria lingua madre, e la conoscenza di quest’ultima non ha a che
fare soltanto con la lingua parlata, ma anche con tutto quello che il bambino
stesso conosce del mondo e della società in cui è cresciuto e vive. Per questo
si parla di competenza comunicativa, che consiste nel saper comunicare in
modo efficace in una certa lingua, adattando le varie forme linguistiche ai
diversi contesti d’uso. Naturalmente non si può sottovalutare la scelta del
metodo, da tempo oggetto di discussione, ma al di là delle critiche e delle
opinioni, si tende a privilegiare l’approccio comunicativo, che associa
l’apprendimento delle strutture linguistiche all’uso significativo della
12
lingua, finalizzato cioè a comunicare messaggi reali in un contesto dato. Si
adducono, poi, le ragioni per le quali la lingua più studiata nella scuola
primaria è quella inglese: il ruolo cruciale che questa lingua così diffusa ha
assunto per la comunità internazionale è dovuto al fatto che essa è divenuta
veicolo essenziale di accesso alle informazioni e ai saperi, rappresentando
così un vero e proprio patrimonio per chi la utilizza. Tuttavia, al di là degli
aspetti utilitaristici, si evidenzia come l’inglese esprima e rappresenti tante
culture, e anche molto diverse tra loro, poiché essa è il frutto di una
molteplicità di influssi linguistici, etnici e culturali che si va intensificando
sempre di più a causa della dimensione mondiale che ha assunto. Conoscere
l’inglese oggi significa, dunque, sapersi relazionare non solo sul piano
strettamente linguistico, ma anche su quello culturale, con interlocutori di
varie provenienze: di qui, l’esigenza di un insegnamento in chiave
interculturale della lingua straniera, che favorisca un processo di graduale
adattamento ad un target culturale diverso dal proprio. Ciò non può non
riflettersi sulla didattica: le tendenze più recenti nell’ambito della
glottodidattica sono orientate al riconoscimento del ruolo centrale rivestito
non dall’alunno o dalla lingua oggetto dell’apprendimento, bensì dalla
situazione comunicativa, in quanto gli alunni devono essere esposti a
materiale linguistico che susciti una conversazione autentica e non costruita
all’uopo. Perciò, è necessario prima di tutto creare in classe un clima
favorevole all’apprendimento, utilizzando prevalentemente attività a
carattere ludico: il gioco, infatti, con il suo aspetto socializzante ed emotivo,
diventa uno strumento centrale per l’apprendimento di nuove esperienze;
13
poi, è opportuno orientare la didattica verso l’acquisizione degli oral skills,
ossia le attività di ascolto e parlato, approdando solo in un secondo
momento alle abilità di lettura e scrittura, dato che proprio dall’ascolto
diretto della lingua i bambini acquisiscono dati ed informazioni che
permetteranno loro di produrre da soli frasi ed espressioni in inglese. Lo
storytelling, dunque, appare come una delle attività più efficaci per
coniugare l’esigenza di ascolto degli alunni con il loro bisogno di fare
esperienza, e il racconto di fiabe e storie rappresenta un’esperienza reale ed
autentica che, allo stesso tempo, contribuisce a consolidare le abilità di
comunicazione.
Il quarto ed ultimo capitolo si apre, infine, con un interrogativo: ci si
chiede, infatti, quali siano le storie più adatte all’apprendimento della lingua
straniera. La risposta a questa domanda si concretizza nella presentazione
del materiale narrativo scelto per tracciare un percorso che si articola in
cinque tappe, e che fornisce non solo spunti per attività pratiche, ma anche,
sul versante interculturale, informazioni, caratteristiche, tradizioni e
quant’altro permea una civiltà ricca e multiforme come quella anglofona.
Questo materiale, costituito da fiabe, favole e storie illustrate in lingua
inglese, non solo è in grado di fornire dei modelli espressivi, ma grazie alla
struttura di tali testi, caratterizzata dalla ripetizione di frasi ed espressioni,
rende la lingua più facilmente comprensibile e assimilabile, e si presta
altresì allo svolgimento di svariate attività, come quelle proposte nell’unità
didattica che conclude il capitolo.
14
PARTE PRIMA
15
CAPITOLO I
I PERCHÉ DI UNA EDUCAZIONE INTERCULTURALE
La società italiana, così come quella degli altri paesi europei e
dell’intera area occidentale, è attualmente interessata da rapide, profonde e
contrastanti trasformazioni che determinano una situazione di complessità-
problematicità riguardo alla vita dei singoli e della comunità tutta.
La rapidità dei processi di cambiamento e la consapevolezza di
attraversare una fase storica di transizione hanno determinato un diffuso
senso di insicurezza in ordine al consolidato quadro dei valori e, di
conseguenza, una crescente contraddittorietà nelle condotte e negli stili di
vita individuali e collettivi. Hanno tuttavia, in positivo, creato nuove e più
ampie opportunità per tutti, frantumando definitivamente la tradizionale
rigidità dei ceti e delle classi sociali. A ciò, in particolare, hanno contribuito
l’espandersi della cultura, l’elevazione dei livelli di alfabetizzazione e il
miglioramento delle condizioni economiche. In tale contesto, poi, un ruolo
cruciale ha avuto sia l’espansione dei mezzi di comunicazione di massa, che
rappresentano un’importante fonte di informazione e di stimolazione
culturale, sia la diffusione dei mezzi informatici e telematici, i quali hanno
introdotto opportunità cognitive di grande rilevanza. A seguito di tali
fenomeni, tuttavia, si è venuta a determinare una duplice tendenza: da un
lato, la globalizzazione dei problemi, con la conseguente perdita di autorità
da parte degli stati-nazione; dall’altro, l’esplosione della pluralità,
16
dell’autonomia e delle differenze
5
. Un ulteriore elemento che interviene a
modificare non solo gli stili di vita e di comportamento, ma gli stessi assetti
culturali, politici ed economici della società complessa, è costituito
dall’accentuarsi delle situazioni di natura multiculturale e polietnica. I
crescenti flussi migratori di singoli, di gruppi e di interi popoli, di gente
costretta a spostarsi per differenti e molteplici ragioni, di sopravvivenza o di
dissenso politico, stanno modificando profondamente il volto della società
italiana, al cui interno convivono e si incrociano in crescente misura gruppi
migranti diversamente “colorati” e portatori di culture caratterizzate da una
varietà di cadenze, ritmi e accenti
6
:
Gli operai del Marocco e del Senegal nelle fabbriche dell’Emilia e
del Veneto, le domestiche somale e filippine, i ristoranti cinesi e
africani, i lavavetri ai semafori e i braccianti nei campi di
pomodoro del Sud, la Moschea e la musica araba sono immagini
concrete, riferimenti reali della vita quotidiana, pezzetti di mondo
noti a tutti, anche ai bambini
7
.
Si sono così determinati – come testimoniano le cronache e i fatti quotidiani
– fenomeni di difficile convivenza, poiché accanto ad atteggiamenti di
apertura, di disponibilità e di collaborazione si collocano anche
5
Cf. F. BELLINO, La dialettica interculturale nella società complessa tra identità, alterità
e reciprocità, in F. MASSIMEO – A. PORTOGHESE – P. SELVAGGI (a cura di),
L’educazione interculturale e l’inserimento degli alunni albanesi nella scuola
dell’obbligo, Quaderno dell’IRRSAE Puglia n. 18, Ecumenica Editrice, Bari 1992, pp.
125-131.
6
In Italia, la “grande svolta” avviene negli anni ’70, per la precisione nel 1973, quando per
la prima volta i dati statistici segnalano un fatto nuovo: il numero dei rimpatri è superiore
a quello degli espatri. L’Italia, così, da paese di emigrazione, diventa paese di
immigrazione. Cf. L. LESTINGI, Immigrazione e razzismo: considerazioni sulla
situazione italiana, in L’educazione interculturale…, op. cit., p. 122.
7
V. ONGINI, Lo scaffale multiculturale, Mondatori, Milano 2001
2
, p. 9.
17
atteggiamenti di insofferenza, di diffidenza, di intolleranza e di vero e
proprio rifiuto. Allo stesso modo, ad esperienze produttive e di confronto, di
conoscenza e di integrazione, si contrappongono esperienze di netta
opposizione a modelli di pensiero e a forme di vita, a tradizioni, fedi e valori
pregiudizialmente negati e rifiutati perché “altri”.
I processi migratori e la conseguente necessità di elaborare e definire
nuove forme di convivenza democratica tra popoli e culture diversi,
richiedono intelligenza ed equilibrio e spingono nella direzione di una
ricerca di ipotesi interculturali, ossia di modelli educativi e sociali capaci di
esaltare e concretizzare la cultura dell’accoglienza e dell’integrazione, di
superare la logica assistenzialistica e di contrapporre un argine serio e solido
ad ogni forma di razzismo.
In tale prospettiva, la scuola, in quanto istituzione finalizzata ad
educare alla convivenza democratica in uno spirito di comprensione e di
cooperazione con gli altri popoli, è chiamata in causa sia come ambiente
direttamente investito da questi problemi, sia come fattore strategico capace
di affrontarli e di concorrere a risolverli in termini di consapevolezza critica
e di formazione delle coscienze. Giuseppe Decollanz afferma, a tal
proposito:
Oggi viene chiesto alla scuola di dotare le nuove generazioni non
solo del senso del rispetto e dell’accettazione di altri popoli e di
altre culture, ma anche degli strumenti adeguati per combattere, sul
piano intellettuale, culturale, etico, religioso e psicologico, quegli
18
stereotipi che esasperano i conflitti e allontanano le speranze di
pace
8
.
Alla scuola, insomma, è affidato il compito sia di affrontare,
problematizzare e smontare i pregiudizi che spesso hanno legittimato e
continuano a legittimare forme di espropriazione economica e culturale, di
sfruttamento, di discriminazione e perfino di persecuzione, sia di costruire
l’ampliamento e il riconoscimento concreto dei fondamentali diritti umani e
civili, estesi a tutti, individui, gruppi e popoli, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di cultura, di fedi religiose, di aspirazioni e di colore della
pelle. La risposta a queste sollecitazioni è costituita dalla educazione
interculturale.
1.1 L’interculturalità, una scommessa pedagogica
La scuola e il mondo dell’educazione sono attraversati oggi più che
mai dal tema della relazione, dell’incontro e della gestione delle differenze.
Differenze visibili, vissute e diventate pratica quotidiana grazie alla
presenza di chi viene da lontano e vive accanto a noi; differenze evocate e
introdotte negli spazi di vita dalla comunicazione e dai contatti reali o
virtuali con il mondo e con gli altri. Nell’esperienza della maggior parte dei
bambini e dei ragazzi che vivono nelle nostre città, il confronto con storie e
biografie d’infanzia che hanno radici altrove – modi diversi di parlare,
giocare, pregare, studiare, rappresentare il tempo e lo spazio – è ormai
8
G. DECOLLANZ, Educazione interculturale e processi di integrazione sociale, in
L’educazione interculturale…, op. cit., p. 234.
19