II
malattia agli occhi, stando a quanto racconta nel Nigrino: quest'opera è un
dialogo tra Luciano e un amico anonimo, a cui l'autore racconta l'incontro con
il filosofo che dà il nome all'opera (forse un certo Albino, camuffato con un
gioco di parole), dedicata allo stesso Nigrino. Per quest'ultimo Luciano pare
nutrire una grande stima, diversamente da molti altri personaggi, soprattutto
contemporanei, dei quali parla nei suoi lavori: in testa gli odiatissimi
Peregrino/Proteo e Alessandro di Abonutico, dei quali si parlerà fra poco.
Lasciata Roma, Luciano risalì il corso del Po, evento da cui prende spunto
per un suo prologo
2
, e successivamente passò in Gallia: in Apol. 1 ricorda di
avervi soggiornato quando ancora era uno fra i megalo@misqoi tw^n sofistw^n,
ossia fra i sofisti meglio pagati, e dunque intorno al 160 d.C.
Dopo un periodo di permanenza ad Atene, fra il 150 e il 160, si recò ad
Antiochia, forse al seguito di Lucio Vero (di cui mostra di avere conosciuto
personalmente l'amante Pantea
3
) durante la guerra che il fratello
dell'imperatore Marco Aurelio condusse contro i Parti, fra il 161 e il 167
(Lucio Vero, cagionevole di salute, morì nel 169 per un colpo apoplettico). Fu
proprio in quel periodo che Luciano fece brevemente ritorno a Samosata e
incontrò ad Abonutico il "grande profeta" Alessandro. Nell' Alessandro o il
falso profeta - opera imperniata sulla figura di questo veneratissimo impostore,
dedicata all'amico Celso, epicureo - Luciano racconta le nefandezze di
Alessandro e illustra chiaramente, e con tanto di esperimenti in prima persona,
i trucchi di cui il falso profeta si serviva per truffare i creduloni che si
rivolgevano a lui pagando fior di quattrini. Questo incontro turbolento venne
messo per iscritto da Luciano molti anni dopo, giacché al par. 48 egli usa la
dicitura "divo Marco" riferendosi a Marco Aurelio, morto nel 180 d.C.
L'unica data certa che ci dà Luciano, indirettamente, è il 165 d.C., anno in
cui assistette ai giochi olimpici e allo spettacolare suicidio del filosofo cinico
Peregrino, detto Proteo (il leggendario dio del mare capace di mutare forma a
piacimento) per la disinvoltura con cui passava da una filosofia all'altra,
2 Il prologo in questione è L'ambra o i cigni: al par. 2 Luciano afferma di aver risalito il fiume
Eridano (antico nome del Po).
3 A questa bellissima donna Luciano dedicò due dialoghi, le Immagini e la Difesa per le immagini:
il primo è un elogio della donna, mentre il secondo una giustificazione per il tono adulatorio del
primo.
III
cristianesimo incluso. Alla descrizione della figura di questo "filosofo" e di
come abbia spettacolarizzato la sua dipartita gettandosi su una pira costruita
poco distante dal luogo delle gare, Luciano dedicò La morte di Peregrino, che
compose, come l'Alessandro, qualche anno dopo l'evento, tra il 169 e il 170, a
mente fredda.
Secondo Schwartz
4
, nel 171 d.C. Luciano si recò ad Alessandria su richiesta
di C. Calvisio Staziano, prefetto dell'Egitto, e là ricoprì la carica di Archistator
praefecti Aegypti; di questa scelta sentì il bisogno di giustificarsi con
l'Apologia, giacché proprio lui che aveva criticato aspramente gli uomini di
cultura greci che accettavano di lavorare presso i ricchi romani
5
- formalmente
come precettori ma, in realtà, come clienti -, aveva accettato di lavorare al
servizio di quella stessa Roma. Questa breve esperienza terminò nel 175 con il
fallimento della rivolta di Avidio Cassio e la conseguente caduta di Staziano.
Luciano tornò così al suo antico mestiere di conferenziere, per morire poco
dopo il 180, forse ad Atene, dove era tornato dopo la parentesi alessandrina.
Si è visto che, nella prima parte della sua vita, Luciano esercitò la
professione di sofista: fu, insomma, un oratore alla moda. A un certo punto,
però, intorno ai quarant'anni, si infatuò della filosofia. Non aderì mai a una
scuola, ma probabilmente studiò le più importanti dottrine, il che gli permise
di farsi un'idea abbastanza chiara delle diverse correnti di pensiero: fra queste
mostra di simpatizzare per l'epicureismo e per il cinismo. Luciano provava,
tuttavia, un grande astio nei confronti dei falsi filosofi che infestavano la sua
epoca, e che con il loro comportamento spregevole infangavano il nome dei
loro illustri capostipiti; questo disprezzo è molto evidente soprattutto in due
opere, la Vendita di vite, dove Luciano immagina un'asta tutta particolare, in
cui a essere vendute sono nientemeno che le varie vite filosofiche (la cinica,
la stoica e via discorrendo) e Il pescatore o i redivivi, il seguito/palinodia della
Vendita, in cui Parresiade (ossia Luciano stesso, nascosto dietro uno
pseudonimo quanto mai adatto, dato che la parrhsi@a era la libertà di parola,
4 Schwartz 1965, pp. 11-15.
5 Nell'opuscolo Intorno ai dotti che convivono per mercede.
IV
orgoglio dell'uomo greco) viene trascinato in giudizio dalle anime dei filosofi,
riemerse dall'Ade per l'occasione, perché venga condannato per averle
diffamate e vendute nell'opera precedente, alcune anche per una somma
irrisoria. Naturalmente Luciano riesce a dimostrare di essere del tutto
innocente, avendo scritto non contro i fondatori delle diverse scuole, che ora lo
stanno fronteggiando in tribunale, quanto piuttosto contro quegli intemperanti
che si fregiano del nome di stoici, platonici e così via, solo per amore del
denaro e della bella vita, ostentando lunghe barbe e sguardi severi.
La simpatia di Luciano per la filosofia cinica dovette però subire un duro
colpo per via della vicenda di Peregrino, che al tempo del suicidio aveva
abbracciato la filosofia cinica in via definitiva, e Schwartz
6
ipotizza che sia
questa la ragione per cui il nome di Cinisco scompare dalle sue opere a partire
dal 165 d.C. L'opinione che Luciano aveva dell'epicureismo, invece, pare non
cambiare nel corso della sua vita, e ne sono chiari esempi Gli amanti della
menzogna e l'Alessandro: secondo Luciano l'epicureismo era la filosofia che
più di tutte permetteva di non cadere nella superstizione, o almeno questo è
quanto si evince dall'Alessandro. Però, è bene ricordare che Luciano dedicò
quest'opera all'amico Celso, un fervente sostenitore di Epicuro, sicché non si
può giurare sulla piena sincerità di Luciano: questo trattatello in forma
epistolare potrebbe celare, infatti, una sorta di captatio benevolentiae.
L'opera presa in esame in questo lavoro, il Tiranno, è un esempio di dialogo
menippeo: Luciano scrisse infatti diverse opere di questo particolare genere.
Menippo di Gadara era un filosofo cinico vissuto nel III sec. a.C., ed è
considerato l'ideatore dello spoudoge@loion, letteralmente "seriocomico", la
commistione all'interno di un'opera di argomenti seri e faceti; in tali scritti
Menippo attaccava, da buon cinico, atteggiamenti e costumi della sua epoca,
mettendo in ridicolo i personaggi presi di mira e ideando ambientazioni
fantastiche, come vedremo fra poco.
Luciano imitò Menippo nell'impiego dello spoudoge@loion e - nel caso del
Menippo o la negromanzia, dei Dialoghi dei morti e dello stesso Tiranno -
6 Scwhartz 1965, p. 74
V
riprende da Menippo l'ambientazione infernale, avendo preso spunto - così
pare - dalla Nekyia di Menippo; purtroppo, però, di quest'opera ci è rimasto
solamente il titolo, e dunque è impossibile stabilire con certezza quanto sia da
ascrivere a Luciano e quanto a Menippo, non solo nel Tiranno, ma in generale
nei dialoghi menippei. Probabilmente Luciano ebbe la possibilità di leggere
qualche scritto del filosofo cinico, che all'epoca doveva essere ancora
conosciuto e di cui forse erano disponibili, se non tutte le opere, perlomeno le
più importanti (o le più celebri).
Luciano combinò questo modello con il dialogo platonico, il genere
letterario che si era rivelato il più adatto alla trattazione di argomenti morali e
filosofici, e aggiunse al tutto anche un bel po' di commedia. Ci parla lui stesso
di questa sua creatura ne La doppia accusa
7
, dialogo in cui deve difendersi
dalle accuse della Retorica e del Dialogo, che lo hanno portato in tribunale per
le offese da lui ricevute, e in A chi gli disse "Tu sei un Prometeo della parola"
8
: qui Luciano fa sfoggio della sua cultura, illustrando diverse interpretazioni di
questo paragone, e nel contempo difende la sua creatura, che chiama in
entrambi i casi un ippocentauro, una creatura nuova, composita e forse (ma
"spera" di no) mostruosa. Il nuovo genere era riuscito nell'intento di svecchiare
e rendere più piacevole il vetusto e ostico dialogo, e attraverso di esso Luciano
poté esprimere le sue idee morali e attaccare svariati personaggi del suo
tempo. A questo punto però occorrono alcune precisazioni.
Prima di tutto bisogna ricordare che Luciano ha certamente mutuato da
Menippo lo spoudoge@loion, ma nel corso della sua vita non ha scritto
unicamente dialoghi menippei: questi, anzi, sono una parte relativamente
piccola del corpus del Samosatense. Secondariamente ricordiamo come in
diverse occasioni Menippo stesso sia protagonista del dialogo, nonché
portavoce, come sembra, delle idee di Luciano o, per meglio dire, maschera
dietro alla quale si cela l'autore. Ne sono chiari esempi l'Icaromenippo, che
vede il filosofo cinico librarsi in cielo fino alla luna, prima, e fino alla
residenza degli dèi, dopo, grazie all'uso di due ali che ha provveduto ad
7 Par. 22 ss.
8 Par. 5
VI
applicarsi alla schiena: Menippo intraprende questo viaggio per trovare di
persona una risposta ai dubbi che lo affliggevano, riguardanti la natura
dell'universo e degli dèi, siccome le risposte dei filosofi e delle varie sette
erano sciocche e contraddittorie fra di loro. Nella Negromanzia, invece,
Menippo scende da vivo nell'Ade per domandare a Tiresia quale sia il migliore
modo di vivere (e si sentirà rispondere che è quello dell'uomo comune).
Menippo, inoltre, è protagonista di alcuni fra i Dialoghi dei morti, mentre altri
vedono, come suo alter ego, il cinico Diogene. Hanno per protagonista un
filosofo cinico, infine, anche lo Zeus confutato e il nostro Tiranno, che
condividono la presenza di un tal Cinisco
9
. Potremmo dire che Cinisco sia il
cinico "ideale", specialmente se, seguendo Schwartz
10
, si ritiene che il Tiranno
sia stato scritto prima delle altre opere citate poco sopra, ossia intorno al 159.
Altri studiosi
11
collocano invece il Tiranno intorno al 165 d.C., basandosi
principalmente su due elementi: nel Tiranno, fra i personaggi morti il giorno in
cui è ambientata la vicenda, Luciano cita un tal Teagene, filosofo, omonimo di
quel Teagene cinico che troviamo a pubblicizzare l'imminente suicidio di
Peregrino nella Morte di Peregrino
12
; perciò, posto ovviamente che si tratti
dello stesso individuo, siccome Peregrino si suicidò nel 165, i casi sono due: o
Luciano dice Teagene morto quando in realtà era ancora in vita, oppure costui
era già morto, e si ricorda di lui solo per metterlo in ridicolo, giacché questo
sedicente filosofo giunge nel regno dei morti dopo essersi suicidato per amore
di un'etera. O forse, ancora, si tratta di un semplice caso di omonimia, del tutto
slegato dalla realtà contemporanea: stabilirlo con certezza, però, è impossibile.
Il secondo elemento, invece, riguarda un'affermazione di Cloto
13
e una di
Megapente, il tiranno che dà il titolo all'opera
14
. Al par. 6 Cloto domanda se,
tra le anime scese quel giorno, siano presenti quelli che sono morti
combattendo in Media
15
; il tiranno, invece, al par. 9 chiede di poter tornare in
9 Per maggiori informazioni su questo personaggio cfr. n. 44 del commento.
10 Schwartz 1965, pp. 55-56.
11 Jones 1986, p. 131, n. 71 e p. 168; Longo 1976, vol.I, p. 586.
12 Cfr. n. 38 del commento.
13 A Cloto è dedicata la n. 3 del commento.
14 Per ulteriori informazioni su Megapente cfr. n. 49 del commento.
15 Cfr. n. 36 del commento.
VII
vita fino a quando avrà sottomesso i Pisidi e Lidi
16
. Alcuni studiosi, tra cui
anche Bompaire
17
, leggono in questi due passi dei riferimenti alla guerra
partica di Lucio Vero, combattuta, si è visto prima, fra il 161 e il 167. Tuttavia
non è detto che Luciano fosse interessato a inserire riferimenti - più o meno
impliciti - a ciò che avveniva nel mondo in cui viveva, e perciò non paiono
elementi determinanti ai fini della datazione dell'opera.
Che sia stato scritto prima degli altri oppure no, il Tiranno è un dialogo
menippeo sui generis rispetto al resto della produzione di Luciano. Vi
troviamo infatti due personaggi a rappresentare la visione dello scrittore,
anziché uno soltanto, come accade in tutti gli altri dialoghi: costoro sono il
filosofo Cinisco, a cui si è già accennato, e l'umile e poverissimo calzolaio
Micillo
18
, l'unico - insieme a Cinisco, ovviamente - fra i morti che stanno
scendendo nell'Ade, a non piangere e a non disperarsi; questo suo
atteggiamento dipende dalla sua condizione: non avendo lasciato nulla nel
mondo dei vivi, non ha alcun rimpianto. Costui è omonimo del protagonista
del Gallo, un dialogo in cui il calzolaio, invidioso della ricchezza dei suoi
vicini, riesce a entrare nelle case di costoro col favore delle tenebre, reso
invisibile dalla magica piuma del suo gallo parlante, che scopriamo essere una
delle molte reincarnazioni del filosofo Pitagora.
Il Tiranno si divide grosso modo in due parti. La prima narra l'arrivo delle
anime dei defunti al molo dove Caronte
19
è in attesa di Ermes
20
, al quale è
affidato il compito di condurre i "morti di giornata" fino al traghetto, ma è in
forte ritardo; segue l'imbarco delle anime sul battello di Caronte dopo un
rapido esame individuale da parte di Cloto, per vedere se siano tutte presenti
(non senza difficoltà, per via delle suppliche del tiranno Megapente, che era
pure la causa del ritardo di Ermes: aveva tentato, infatti, un'impossibile fuga,
costringendo lo psicopompo a inseguirlo); chiude la prima parte la traversata
dell'Acheronte, con i lamenti dei defunti come "colonna sonora". All'approdo
16 Cfr. n. 62 del commento.
17 Bompaire 1993, vol. II, n. 20.
18 Cfr. n. 97 del commento.
19 Cfr. n. 2 del commento.
20 Cfr. n. 6 del commento.
VIII
inizia la seconda parte, incentrata sul giudizio delle anime da parte di
Radamanto
21
, il quale si avvale di un espediente infallibile, mutuato - con
qualche modifica - dal Gorgia di Platone: la lettura di certi marchi sul corpo di
coloro i quali si stanno sottoponendo all'esame (nel dialogo platonico si
trattava di vere e proprie cicatrici e segni di altro genere, ma qui sembrano
piuttosto dei lividi). Come è prevedibile, il filosofo cinico e il povero calzolaio
risultano senza macchia, mentre il tiranno è completamente ricoperto dai
marchi: per questa ragione sarà condannato a un supplizio escogitato per
l'occasione da Cinisco: verrà incatenato vicino a Tantalo, ma sarà l'unico a non
bere l'acqua del Lete. In questo modo Megapente sarà costretto a ricordare - e
desiderare - per l'eternità tutti i suoi beni, che ha dovuto lasciare nel mondo
terreno, e che non potrà mai più riottenere.
Il giudizio del ricco è un topos cinico, e qui Luciano lo reimpiega
personalizzandolo: oltre al discorso con cui Cinisco spiega a Radamanto che
individuo spregevole sia il tiranno Megapente - e ricordiamo che Luciano,
essendo stato un sofista, era un oratore molto abile - con uno scatto di fantasia
fa comparire, testimoni davvero inusuali, il Letto e la Lucerna di Megapente,
"personaggi" che più di ogni altro sono stati testimoni delle nefandezze del
loro proprietario. Con le disposizioni di Radamanto relative alla tremenda
pena che attende Megapente, il dialogo si chiude.
Si è detto poco sopra che l'ambientazione infernale è comune a buona parte
dei dialoghi menippei: i Dialoghi dei Morti, la Negromanzia, il Tiranno, il
Caronte (benché non sia propriamente ambientato all'inferno, ma abbia come
protagonista il traghettatore dei morti, "in trasferta" per l'occasione nel mondo
dei vivi insieme ad Ermes, per soddisfare la curiosità - che lo stuzzica da
sempre - di vedere l'Aldiqua). Tuttavia, nonostante la comune ambientazione,
Luciano non si è preoccupato di mantenersi fedele a un'unica
rappresentazione dell'Aldilà, ma introduce ripetute variazioni. In genere
Luciano mutua dalle fonti di cui dispone gli elementi fondamentali, ma
talvolta accade che inventi di sana pianta: il tutto per creare un suo inferno
personale, fatto di alcuni punti fermi e di molti elementi variabili. Ad esempio,
21 Cfr. n. 87 del commento.
IX
uno degli elementi ricorrenti della sua visione dell'Aldilà (di cui Luciano è
debitore alla filosofia cinica) è che nella "vita dopo la morte" i ruoli del ricco e
del povero si invertono: nell'Ade i ricchi piangono e soffrono, ricordando il
lusso e i piaceri di cui erano circondati in vita, mentre i poveri non soffrono
più, e anzi, grazie al livellamento verso il basso determinato dalla morte,
possono anche ridere del dolore dei ricchi. Un'altra caratteristica tipica,
correlata al capovolgimento dei ruoli, è la principale fonte di svago dei vari
filosofi cinici che Luciano ci presenta di volta in volta: proprio come fanno i
poveri, anche i cinici amano la compagnia dei potenti nell'Ade, poiché
traggono grande divertimento dai lamenti di questi disgraziati; ne sono esempi
Diogene in D. Mor. I e Menippo in D. Mor. XVIII e XX.
Come post mortem soffrono i ricchi, così soffrono i belli: i morti infatti non
sono ormai tutti indistinti solo per potenza e ricchezza, ma anche (e prima di
tutto) per bellezza. Gli abitanti dell'Ade sono tutti scheletri indistinguibili, sia
che appartengano a eroi omerici, come Achille, avvilito in D.Mor. XV perché
achei e troiani sono ormai tutti uguali, oppure i celebri Tersite e Nireo (sotto le
mura di Troia il più bello fra gli achei dopo Achille), che in D.Mor. XXV
chiedono a Menippo di giudicare chi dei due sia il più bello - ma il cinico
ammette di non riuscire a distinguere i due scheletri, se non forse perché
quello di Nireo è più fragile -, sia che si tratti di uomini e donne realmente
esistiti e non mitici, celebrati in vita per la loro bellezza. A tal proposito,
proprio nel Tiranno, al par. 22, Micillo si domanda come sia possibile stabilire,
nell'oscurità che li avvolge, se sia più bella Simmica di Frine (forse due etere).
L'uguaglianza tra i morti conosce, in Luciano, anche delle eccezioni. In
D.Mor. XX, 1, ad esempio, il filosofo Empedocle ci viene presentato tutto
bruciacchiato e coperto di vesciche, giacché si tolse la vita gettandosi
nell'Etna; nella Negromanzia, invece, tutti i morti hanno un mestiere, benché
non venga chiarito se siano scheletri, ombre, fantasmi o altro. Perciò Menippo
(che - ricordiamo - è sceso agli Inferi ancora vivo) può vedere re e satrapi
vendere pesce salato o insegnare l'alfabeto, il grande Filippo di Macedonia
riparare scarpe, e altri potenti non meglio identificati mendicare ai crocicchi.
Per quanto riguarda gli altri filosofi, in D. Mor. XXI Cerbero racconta che
X
Socrate, quando giunse la sua ora, nello scendere all'Ade pianse e si disperò
esattamente come tutti gli altri, e aggiunge che in tutta la sua carriera di
guardiano ha visto ridere solamente i cinici Diogene e Menippo. Pitagora, per
parte sua, in D. Mor. XX dimostra di aver cambiato idea sul suo divieto di
mangiare fave, mentre Socrate non ha perso il piacere per le chiacchiere, come
possiamo vedere in Nek. 18, dove si intrattiene con Nestore, Odisseo e
Palamede.
A proposito della geografia dell'Ade, Luciano rispetta perlopiù la
rappresentazione tradizionale, con la pianura coperta di asfodeli, teatro della
maggior parte dei Dialoghi dei morti, il luogo del giudizio (nel Tiranno
giudice è Radamanto, in D. Mor. XXX, ad esempio, è Minosse, nella
Negromanzia ad accusare i defunti sono le loro stesse ombre, e ai poveri viene
dimezzata la pena) e l'isola dei Beati. Di quest'ultima Luciano parla
diffusamente nella Storia Vera, descrivendola come una città d'oro, circondata
da un muro di smeraldo, con sette porte di cinnamomo, il suolo di avorio, i
templi di berillo e gli altari di ametista. Là i beati sono ombre intangibili che
mantengono l'aspetto che avevano il giorno del loro arrivo e non invecchiano;
è sempre giorno - anche se non molto luminoso - e la stagione è un'infinita
primavera.
Dopo questa parentesi sulle varie rappresentazioni dell'Ade in Luciano,
traiamo qualche conclusione sull'opera presa in esame. Il Tiranno è un dialogo
menippeo particolarmente riuscito, equilibrato e vivace, e l'ipotesi che possa
essere stato il primo esperimento di Luciano in questo genere di scritti, come
abbiamo visto sopra, lo rende ancora più affascinante, benché sia -
ingiustamente? - considerato un'opera minore. Diciamo ingiustamente perché
il Tiranno possiede alcune caratteristiche che lo assimilano a una sorta di
prototipo: è l'unica opera in cui compaiono due diverse "maschere" di
Luciano, come abbiamo visto, e questo induce a ritenerlo un esperimento da
parte di Luciano, alle prese con un nuovo genere, piuttosto che un cambio di
direzione "in corsa" nell'ambito di un genere ormai codificato in via definitiva.
Altrettanto interessante è il fatto che non compaiano né Menippo né Diogene,
XI
ma che il ruolo principale sia affidato a Cinisco, un filosofo cinico di fantasia e
presumibilmente "ideale", che sarà sostituito in seguito da personaggi storici,
sicuramente noti alla maggior parte dei lettori del tempo. Questo successivo
cambiamento suona (potremmo azzardare) come una dichiarazione di intenti
da parte di Luciano: non più un vago e generico richiamo alla scuola cinica,
effettuato per mezzo di un personaggio dal nome parlante (Cinisco, appunto),
ma un riferimento preciso e inequivocabile, ottenuto introducendo, quali
portavoce di Luciano, due fra i più celebri filosofi cinici in assoluto. I due
protagonisti del Tiranno, invece, Cinisco e Micillo, saranno reimpiegati
ciascuno in un'altra opera soltanto, e poi verranno accantonati per lasciare il
posto a personaggi storici (non solo Menippo e Diogene, ma anche altri), o
mitici (principalmente gli dèi olimpici).
Il Tiranno si può dunque definire un'opera dallo stile già maturo, ma dal
contenuto "sperimentale": attribuendo ad esso una datazione alta, infatti,
veniamo ad ascriverlo al periodo immediatamente successivo all'infatuazione
di Luciano per la filosofia. Questo cambio di rotta lo influenzò in maniera
definitiva, portandolo a comporre opere di ben altro spessore, etico e morale,
rispetto a quelle che la Sofistica (di cui, ricordiamo, lui era un abilissimo
esponente) proponeva nel II secolo.
I personaggi del Tiranno sono quasi dei cliché: c'è il cinico mordace e
sprezzante, il povero onesto e dotato di grande buon senso, il ricco sciocco e
crudele. Quello che conta, però, è il messaggio che Luciano vuole inviare,
ossia una sorta di memento mori: ricordati che devi morire, e ricorda anche che
tutto ciò che possiedi, e ritieni importante, non ti seguirà una volta che sarai
morto.
Di sicuro il Tiranno non raggiunge il livello di una Negromanzia e nemmeno
quello di un Icaromenippo, né per estensione né per inventiva: ma è comunque
un piccolo gioiello nel corpus lucianeo, degno di una considerazione maggiore
di quella che finora ha ottenuto.