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In questo tipo di approccio lo studente è parte integrante della
comunicazione di classe, è lui che può determinare il corso degli
eventi, cioè lo svolgimento della lezione e la sua creatività è
esplicitamente sollecitata. Lo stesso insegnante è un coautore, una
sorta di facilitatore della comunicazione linguistica che usa
materiali di impostazione comunicativa.
Se la svolta comunicativa degli anni ’70 ha segnato un punto di
non ritorno per la glottodidattica, il grande contributo degli anni ’80
è stato quello di trasformare l’insegnamento/apprendimento in un
più ampio concetto di educazione linguistica dal momento che la
comunicazione umana non è un atto strumentale, bensì una parte
dell’agire dell’individuo. Ciò comporta una serie di regole e di
aspetti che non sono né solo linguistici, né solo culturali, ma molto
più complessi e riguardano i rapporti tra le persone, l’ambiente
sociale, gli scopi del discorso, i messaggi impliciti, le convenzioni
socio-culturali, il carattere della comunicazione ecc. Inoltre testo e
contesto non possono essere separati: la lingua è sempre
espressione di una cultura e non solo di una situazione. Con
l’educazione linguistica entrano a far parte della competenza
linguistica non solo gli aspetti formali e quelli comunicativi, ma
anche i saperi sociolinguistici, pragmatici, extralinguistici e
socioculturali. La lingua non è un insieme di norme, ma un insieme
di variabili, di codici verbali e non verbali che fanno parte e
stabiliscono il carattere dell’evento comunicativo che, pertanto, non
è più considerato nel suo aspetto formale, né solo in quello
strumentale, ma assume una serie di valenze di natura strategica
che includono la capacità del parlante di organizzare il proprio testo
in modo da raggiungere gli scopi prefissati, rispettando le regole
imposte dal contesto e adottando il registro adeguato.
7
Il concetto di educazione linguistica entra prepotentemente nella
glottodidattica e si aggiunge a quello di competenza
comunicativa, o meglio lo arricchisce integrandolo; potremmo
affermare che la competenza comunicativa si raggiunge attraverso
l’educazione linguistica. L’azione dell’insegnare e, per contro,
dell’apprendere trova i suoi limiti proprio in una visione della lingua
ristretta alla lingua stessa, se isolata da un contesto culturale e da
competenze non solo tecniche. Il discente non deve imparare a
conoscere la lingua, bensì a comportarsi linguisticamente. Questo
cambiamento coincide, significativamente, con l’introduzione, nella
scuola, della differenza tra conoscenze e abilità: con le prime si
intendono i contenuti, mentre le seconde, caratterizzate dal
descrittore “saper fare” stanno ad indicare un comportamento
assunto dal discente, ossia la sua abilità di inserirsi in un contesto
linguistico e culturale con le proprie conoscenze e i propri
contenuti. Questa terminologia, sebbene si diffonda in tutte le aree
disciplinari, per l’insegnamento/apprendimento della lingua
straniera assume un significato che inevitabilmente si profonde
oltre l’ambito linguistico puramente inteso, significato che si deve
soprattutto agli studi sulla comunicazione umana. Gli studi
semiotici e pragmatici, le ricerche sul campo, gli studi e le ricerche
sociolinguistiche di cui in Italia sono stati maestri Gaetano Berruto
e Monica Beretta, portano ad una glottodidattica sempre più ricca
di contributi umanistici. Anche Balboni percepisce che
l’insegnamento inizia a privilegiare il potenziamento delle capacità
espressive e comunicative dell’apprendente secondo una finalità di
formazione e sviluppo della sua personalità. Ma fu sicuramente
l’etnolinguista Hymes che definì meglio di chiunque altro il concetto
e le caratteristiche della competenza comunicativa.
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§.2 – LE TRE “COMPETENZE”: COMUNICATIVA, LINGUISTICA
E D’AZIONE.
Hymes afferma che la linguistica considera la “competenza” nei
termini dell’acquisizione, da parte del bambino, della capacità di
comprendere, produrre, e valutare una qualsiasi e tutte le frasi
grammaticali di una lingua. Nella matrice sociale in cui egli
acquisisce un sistema grammaticale, un bambino acquisisce anche
un sistema per il suo uso relativamente a persone, luoghi, finalità,
altre maniere di comunicare ecc., tutti i componenti, insomma degli
eventi comunicativi, unitamente ad atteggiamenti e credenze ad
essi associati. Trovano parimenti sviluppo gli schemi dell’uso
sequenziale del linguaggio nella conversazione, nei modi di
rivolgersi, nelle formule di routine, e così via. In questo genere di
acquisizione sta la competenza sociolinguistica del bambino, in
altre parole la sua competenza comunicativa, cioè la sua
capacità di partecipare alla vita della società come suo membro
non solo in grado di parlare, ma anche di comunicare. Punto
cruciale dell’analisi etnografico-linguistica di Hymes è il concetto di
evento comunicativo: “bisogna determinare che cosa può contare
come evento comunicativo (…) e non considerare come
comunicativo alcun comportamento che non sia definito da un
qualche contesto e da una domanda implicita. In tal modo l’evento
comunicativo risulta centrale”
1
. L’analisi di un evento comunicativo
si basa, secondo Hymes, sull’acronimo della parola SPEAKING.
Tale modello, così rappresentato, (S come setting o situation, P
come participants, E come ends, A come acts, K come key, I come
instrument, N come norms, G come genres), interpreta la
comunicazione come un atto complesso e contestualizzato. Ciò
1
Fondamenti di sociolinguistica, Hymes, D., Casa ed. Zanichelli, Bologna, 1980, pag. 8
9
vuol dire che la comunicazione è un’azione intenzionale per
comprendere la quale non è sufficiente considerare l’aspetto
strumentale, ma devono essere considerati tutti gli elementi che
formano l’acronimo. In particolare il setting, o contesto, in cui
avviene l’atto comunicativo, i partecipanti e le loro relazioni, le
finalità dell’evento, le norme e le chiavi di interpretazione che
riguardano le circostanze in cui avviene l’atto e le condizioni dei
parlanti. Comunicare deriva dal latino “cum” + “munus”, cioè
portare a termine un incarico, un compito.
Lo studioso, riprendendo le teorie di Jakobson, definisce anche le
componenti degli eventi comunicativi:
ξ i partecipanti all’evento (emittenti e riceventi, mittenti e
destinatari, ecc.);
ξ i canali disponibili e i modi di usarli (il parlare, la scrittura, la
stampa, il canto, i movimenti del viso e del corpo ecc.);
ξ i contesti in cui la comunicazione è permessa, proibita,
incoraggiata, limitata;
ξ le forme dei messaggi ed i loro generi ( frasi composte da un
solo morfema, schemi dei sonetti, sermoni, richiami dei
venditori, ecc.);
ξ gli atteggiamenti e i contenuti che un messaggio può
trasmettere o riguardare;
ξ gli eventi stessi, i loro tipi e le loro caratteristiche come totalità.
In breve, l’evento comunicativo è “la metafora, o prospettiva,
basilare, per rendere intellegibile l’esperienza. Esso è destinato ad
essere impiegato in ogni occasione, seppure varino i modi di
sussumere la realtà (creduta, supposta, postulata per scherzo,
ecc.). È questo fatto che sta alla base del ruolo visibilmente
10
centrale del linguaggio nella vita culturale”
2
. Quanto poi al ruolo
della grammatica, Hymes sostiene che per molti linguisti una
descrizione dovrebbe prefiggersi di dar conto di tutte, e sole, le
frasi grammaticali di una lingua. “Una simile trattazione”, sostiene il
nostro, ”fa astrazione da esitazioni, interruzioni, incompletezza,
errori. Il punto, però, ovviamente, sta non tanto nell’escludere frasi
di questo genere, ma nel fornire una spiegazione delle ragioni per
cui sono escluse. Il limitarsi semplicemente a non rendere conto di
tali frasi costituisce un successo soltanto in un senso debole.
Sarebbe un successo in senso forte quello di mostrare perché la
grammatica dà conto di altri tipi di frasi, e dei tipi esclusi. (…) La
grammatica non è in grado di chiarire la natura di esitazioni,
interruzioni, frasi incomplete, e di determinati generi di errori, se
non limitandosi a dire che essi non sono affar suo. È imbarazzante
fin dall’inizio che una grammatica, concepita come qualcosa che
spieghi le capacità di un parlante, sia in grado di spiegare
perfettamente errori che i parlanti non commettono quasi mai (…) e
non abbia niente da dire sugli errori che i parlanti compiono di
continuo.(…) La struttura superficiale delle frasi, in altre parole, non
va presa nel suo valore apparente non solamente in ragione dei
rapporti sintattici soggiacenti, come i grammatici oggi riconoscono
pienamente, grazie all’opera di Chomsky, ma anche perché la
stessa struttura superficiale non è semplicemente una questione di
formativi grammaticali. È questione di formativi di due tipi, entrambi
grammaticali, ma uno “referenziale”, l’altro “stilistico”. (…) La
corretta analisi di siffatti fenomeni rende inevitabile il riferimento a
fattori sociali nell’indagine grammaticale”
3
.
Hymes cita spesso Chomsky nei suoi saggi, e a giusta ragione,
dal momento che gli studi del geniale teorico della comunicazione
2
Ibidem, pag. 13
3
Ibidem, pagg. 125-126
11
hanno posto l’accento su quei meccanismi di apprendimento che
hanno un’importanza straordinaria per la glottodidattica, senza
contare che i suoi studi hanno dato un enorme impulso alla nuova
tendenza glottodidattica degli anni ’90 che va a collocarsi in un
ampio panorama di studi (umanistici, neurobiologici e di
psicolinguistica) il cui punto comune risiede nell’inevitabilità della
competenza linguistica. Chomsky individua un sistema innato di
principi linguistici, biologicamente determinato nonché specifico
dell’essere umano, che rende possibile l’acquisizione linguistica. Lo
studioso distingue il principio della competenza da quello
dell’esecuzione, cioè l’uso concreto della lingua e lo stato mentale
che ne determinano i presupposti. Compare il termine
“pragmatica”, che indica la competenza di individuare le modalità
d’uso della lingua in relazione alle intenzioni del parlante. Le
rappresentazioni mentali che consentono il riconoscimento dei
messaggi sono inconsce; dunque l’apprendimento avviene
semplicemente quando si creano le condizioni esterne ad attivare
questi meccanismi interni. Ognuno di noi, quindi, ha una
potenzialità innata che ci consente l’acquisizione del linguaggio: la
lingua viene appresa sì tramite questo sistema generativo innato,
ma, secondo Chomsky, essa è essenzialmente creazione e
creatività. Se spostiamo il discorso al piano dell’apprendimento, ne
deriva che la capacità linguistica innata presente nell’uomo ha
bisogno, per attivarsi, dell’interazione con l’ambiente: dopo la
nascita ci dev’essere una quantità sufficiente di stimoli atti a
promuovere ciò che è solo una potenzialità. È dello scienziato
americano il concetto di LAD, Language Acquisition Device,
secondo cui, per l’appunto, le condizioni dell’acquisizione
linguistica abitano in ogni sistema cerebrale (umano) e perciò non
possono essere indotte dal comportamento. La teoria chomskiana
12
del LAD è comprensibile se si pensa alla propria esperienza di
acquisizione della L1. La prima lingua si acquisisce vivendo in un
contesto in cui quella lingua è presente. Il primo canale sensoriale
attraverso cui arriva la lingua è l’orecchio, cioè il canale uditivo. Ciò
non significa, però, che la sola percezione sia responsabile di
attivare il meccanismo linguistico: se la percezione non venisse in
qualche modo elaborata, essa non rimarrebbe altro che
percezione. Il LAD è il canale di elaborazione di questo primo
contatto con la lingua che permette di cominciare ad emettere
qualche parola verso il primo anno d’età, anche se, una sorta di
competenza dialogica appare solo verso i 3 anni. Cosa succede,
allora, in questi 3 anni, che sono quelli fondamentali? Per
comprenderlo dobbiamo richiamare alcuni esempi in negativo,
quelli dei bambini che, o perché abbandonati da piccoli, o perché
cresciuti in contesto di degrado, o perché cresciuti spostandosi
continuamente da una famiglia all’altra, mostrano da subito seri
deficit verbali che purtroppo, nella maggioranza dei casi, non
riusciranno a recuperare completamente. La spiegazione che se ne
trae è che questi bambini, non sentendo parlare, non parlano.
L’afasia che si presenta in questa fase, da 0 a 3 anni, è molto
difficile da recuperare, così come i deficit patologici che si
sviluppano proprio nell’area della parola in questa fascia d’età.
Quindi è importantissimo che il bambino “senta” molta lingua. Ciò
non vuol dire che sia necessario un “bombardamento” di parole
senza interruzione, ma sottolinea l’importanza dell’esposizione ad
un continuo fraseggio significativo. Dal punto di vista cognitivo, il
fatto che la prima lingua non sia la lingua ufficiale o standard non
cambia assolutamente niente. Il LAD, sostiene Chomsky, è
universale e vale per tutte le lingue, compresi i dialetti; inoltre lo
studioso non fa differenza tra le lingue: la L1 non si apprende in un
13
modo diverso dalla L2. Le conseguenze glottodidattiche di ciò sono
che è del tutto inadeguato proporre una lingua solo attraverso serie
di vocaboli isolati, o di singole unità lessicali. La singola parola è
certamente tutto ciò che il bambino riesce a dire, però è lo
specchio di un contesto. Il passaggio successivo, quindi, è la
necessità glottodidattica di offrire al discente di qualunque età una
lingua compiuta e non frammentata.
L’elaborazione successiva della teoria chomskiana dice anche che
il LAD non si attiva inevitabilmente, bensì solo a certe condizioni. In
questo campo la scoperta più importante è stata quella di Bruner
che “ipotizza e convalida sperimentalmente il ricorso ad un
Language Acquisition Support System ( LASS ), destinato ad
attivare l’ormai mitico LAD di Chomsky attraverso un input
linguistico che risponda almeno a tre caratteristiche: dev’essere
vario e ricco, significativo e comprensibile”
4
. Vario e ricco significa
offrire al discente un linguaggio quanto più vivo, più ampio, più
vario possibile. Niente frammentazioni linguistiche, quindi, ma
lingua autentica, non strutturata, la lingua così com’è, quindi non
astratta dal suo contesto. La comprensibilità dell’input, peraltro,
non si riferisce tanto a fattori tecnici, ma piuttosto ad uno stato di
accettabilità ( Krashen parlerà di sostenibilità ) da parte del
parlante e dei suoi meccanismi innati. L’adulto che si avvicina
linguisticamente al bambino lo fa con gradualità e su argomenti
possibili, accettabili dal contesto e dal discente, in una parola:
sostenibili. Sia le teorie di Krashen, che saranno diffusamente
esposte nel secondo capitolo, sia esperimenti condotti nel corso di
molti anni hanno dimostrato che un racconto in una lingua
sconosciuta su un argomento padroneggiato o che abbia senso,
dal punto di vista esperienziale, per tutti gli ascoltatori in quel
4
Freddi, G., Glottodidattica, principi e tecniche, Casa ed. Biblioteca Quaderni d’italianistica, 1993, pag. 35
14
contesto, può rivelarsi comprensibile anche per una platea che
normalmente non comprenderebbe un dialogo in quella lingua
grazie all’uso del gesto, dell’approccio visivo, di alcune parole che
gli uditori conoscono già o parole che assomigliano alla loro prima
lingua, come pure del tono della voce, delle caratteristiche
morfologiche della lingua, della sequenza delle battute: tutti questi
elementi non verbali e soprasegmentali contribuiscono
notevolmente alla comprensione globale. Il linguaggio dunque, così
come ogni altra competenza, non si acquisisce per imitazione né si
costruisce per “aggiunta”, cioè mettendo una serie di mattoni uno
sopra l’altro: è invece creazione di una serie di combinazioni su ciò
che già esiste.
Negli ultimi anni sono emerse alcune nuove tendenze, tra cui una
particolarmente feconda nei paesi del nord Europa, è il cosiddetto
insegnamento orientato all’azione. In questo senso la
competenza d’azione è un concetto più ampio ma allo stesso
tempo più concreto di competenza di comunicazione. L’agire
linguistico è definito come quell’azione che avviene tra partner in
un comune contesto situazionale e che riguarda esperienze ed
interessi concreti. È il concetto di “azione” piuttosto che quello di
“comunicazione” a rimandare alle caratteristiche dell’interazione
verbale, in quanto l’interazione verbale persegue determinati scopi
ed ottiene dei risultati. La competenza di azione consiste
dunque nella capacità di interagire linguisticamente con altri
individui in modo partecipativo ed orientato al messaggio per
raggiungere determinati scopi. Un insegnamento volto allo
sviluppo della competenza di azione richiede un nuovo
atteggiamento nei riguardi dell’insegnamento e dei suoi elementi
sostitutivi.
15
Gli scopi e i contenuti dell’insegnamento, i tipi di attività didattiche,
il ruolo degli errori e della valutazione vanno riconsiderati in questa
nuova luce. Cambia anche l’atteggiamento verso il ruolo dei
partecipanti al processo di insegnamento/apprendimento: allievi ed
insegnante non sono soltanto membri di una determinata classe
sociale e di un gruppo di lavoro, essi sono dei partner che
comunicano in un contesto personale e sociale, e che si prefiggono
degli scopi concreti comuni. Modellandosi sulla vita al di fuori della
classe, la didattica è orientata all’azione e prende in
considerazione l’allievo come individuo completo, proponendogli
dunque dei contenuti per lui rilevanti; una didattica flessibile, che
tiene conto del fatto che l’interazione che ha luogo in classe ha
conseguenze che trascendono l’hic et nunc della situazione di
classe.
§.3 - LINGUA STRANIERA: ACQUISIZIONE O
APPRENDIMENTO?
“The solution to our problems in language teaching lies not in
expensive equipment, exotic methods, sophisticated linguistic
analyses, or new laboratories, but in full utilization of what we
already have: speakers of the languages using them for real
communication (…). Language acquisition occurs when language
is used for what it was designed for, communication”
5
Quando lo psicologo americano Stephen D. Krashen distinse i due
concetti di apprendimento e acquisizione linguistica, negli ambienti
della glottodidattica ci fu chi lo osannò e chi criticò le aspramente le
sue teorie. La distinzione krasheniana consiste nel separare
5
Principles and Practice in Second Language Acquisition, Krashen, S. D., Pergamon Press, 1982, pag. 1