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Come si riflette quest’incertezza dilagante sulla costruzione del sé
professionale? Se l’identità personale dei singoli contemporanei appare
frammentata e difficile da ricomporre, cosa accade all’identità lavorativa?
Il presente elaborato di tesi intende comprendere come le persone
considerano il lavoro nel processo di costruzione di sé. Tramite un contributo
di ricerca, si intende prendere in esame la costruzione identitaria degli operatori
di due call center operanti nel territorio barese.
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Parte Prima
QUADRO TEORICO
DI RIFERIMENTO
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Capitolo 1
LO SGUARDO DELLA PSICOLOGIA CULTURALE
L’angoscia rivela il niente.
Martin Heidegger
1. Conoscere la realtà: la mediazione culturale
Il concetto di realtà è da sempre oggetto di interesse da parte dell’uomo.
Molteplici sono le discipline che si sono occupate di studiare e spiegare cosa
sia la realtà e altrettanto varie le definizioni che ne sono scaturite.
Tra i diversi ambiti disciplinari, nello spazio delle “scienze umane”,
particolare rilievo assumono la psicologia, la sociologia e la filosofia.
L’approccio filosofico, che appare il più lontano nel tempo, testimonia che
l’interesse degli uomini allo studio della realtà nasce quando sorge in essi la
necessità di interrogarsi su ciò che li circonda. L’etimologia della parola
‘realtà’, che deriva dal latino ‘res’, ovvero “oggetto materiale” pone le basi per
la riflessione filosofica. Il concetto di “res’”si contrappone a quello di
“abstracta” che coincide invece con ciò che l’intelletto crede sulla verità delle
cose. Nello specifico, all’interno della matrice filosofica si rintraccia il
contributo dell’ontologia, che cerca di comprendere quali siano le condizioni
per affermare l’esistenza di qualcosa (Varzi, 2005).
Al concetto di realtà la filosofia collega strettamente quello di “essere”, e
attraverso la riflessione gnoseologica pone in rilievo la questione della “verità”
della conoscenza di un oggetto. L’essere assume diversi significati; ‘essere’
può indicare che una cosa esiste, può rappresentare un’appropriazione di
identità (come ad esempio se si afferma “io sono una donna”), può ancora
attribuire ad un oggetto una certa qualità. La filosofia diventa metafisica
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allorquando prende in considerazione l’esistenza di una non-res, di qualcosa
che non sia caratterizzato da una dimensione fisica.
La definizione della realtà è in questo ambito disciplinare imperniata sulla
relazione tra le due dimensioni della realtà, fisica e astratta. Attraverso i secoli,
tale relazione ha assunto forme diverse a seconda dei pensatori che se ne sono
occupati.
Un approccio senza dubbio più vicino ai giorni nostri è quello della
sociologia, ed in particolare di quella che viene definita “sociologia della
conoscenza”. La sociologia della conoscenza, che trova uno dei suoi principali
esponenti in Max Scheler (1960), si occupa della relazione tra il pensiero
umano e il contesto sociale da cui scaturisce. Tale disciplina considera la realtà
come l’insieme dei fenomeni indipendenti dalla nostra volontà, cosicché risulta
come socialmente costruita (Berger, Luckmann, 1966). In particolar modo, si
può parlare di una “realtà della vita quotidiana”, che risiede nelle cose che si
presentano alla nostra coscienza come preesistenti, presenti qui ed ora,
intersoggettive ed autoevidenti. La vita quotidiana è una realtà interpretata
dagli uomini e soggettivamente significativa per loro come un mondo coerente.
La sfera della realtà della vita quotidiana si differenzia da quella della
dimensione onirica, o della fantasia, identificate come vere e proprie
peregrinazioni oltre la vita quotidiana. Tuttavia, la dimensione della vita
quotidiana non si esaurisce nell’immediato hic et nunc, ma comprende dei
fenomeni che sono più lontani dal contingente.
Proprio in quanto autoevidente, la presenza dell’altro è più immediata e
saliente al soggetto di quella di se stesso che necessita di un impegno e di una
riflessione. Un soggetto non può esistere senza l’interazione con l’altro, con
cui condivide la consapevolezza dell’esistenza di un mondo comune.
L’interrogarsi sul senso delle cose che ci circondano, su cosa sia ciò che
definiamo “reale”, fa parte anche di quanto concerne la disciplina psicologica.
Come spesso accade, all’interno di una matrice teorica hanno vita diverse
prospettive, che esprimono diversi approcci allo studio di uno stesso oggetto.
Resta comune il dominio di appartenenza, come in una famiglia il cognome
portato da diversi fratelli. Se ‘Psicologia’ è il cognome in questione, il
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presupposto comune alle diverse prospettive che vogliamo adottare, possiamo
comprendere come, posizionando lo sguardo da differenti angolazioni,
riusciamo a comprendere tutte le forme che l’oggetto assume, adottando di
volta in volta un nome diverso. Nel caleidoscopio della psicologia, ruotando
mentalmente la lente, ai nostri occhi si presentano diverse figure, ovvero
interpretazioni dell’oggetto.
La psicologia culturale può essere metaforicamente considerata come uno dei
nomi che fa parte di quella famiglia, o una delle particolari combinazioni di
quel caleidoscopio.
La matrice europea della prospettiva culturale assume l’aggettivo ‘culturale’
dal rimando alla psicologia di derivazione vygotskijana. Lev Vygotskij (1934),
che teorizzava lo sviluppo sociale e interattivo delle facoltà cognitive, anticipò
le istanze della matrice culturale dando rilievo per primo al ruolo degli
strumenti, definiti “artefatti”, nel mediare il processo di conoscenza della
realtà.
Tali artefatti appaiono caratterizzati da una dimensione fisica, che ne
consente l’uso, ed una dimensione “ideale” (Cole, 1995). Invero, uno stesso
oggetto può essere visto come strumento fisico e come artefatto ideale,
immateriale: l’insieme inscindibile di queste due caratterizzazioni dell’oggetto
dà vita alla mediazione (Mantovani, 2004).
“Immaginiamo che io sia cieco e usi un bastone. Per camminare devo toccare
le cose. In quale punto del bastone incomincio io? Il mio sistema mentale
finisce all’impugnatura del bastone? O finisce dove finisce la mia pelle?
Incomincia a metà del bastone? Oppure sulla punta?” (Bateson, 1972, p. 459).
L’ormai noto esempio di Gregory Bateson serve ad illustrare il concetto di
mediazione, prefigurando una situazione ipotetica, per farlo più vicino a noi. In
tal senso “mediare” significa “permettere”, dato che il cieco può spostarsi nel
mondo reale solo evitando gli ostacoli che il bastone incontra, conosce
mediante il bastone. Ma significa al contempo “limitare”, perché il cieco
conosce il mondo nella misura in cui il bastone lo consente, e definito dai limiti
del bastone.
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Nel mondo reale, e non in una situazione ipotetica, siamo tutti alla stregua di
quel cieco che utilizza il bastone per muoversi nello spazio circostante.
Nessuna delle esperienze che possiamo vivere risulta non “filtrata” dal
processo di mediazione di uno strumento. Il primo mediatore, che elimina
certamente l’ipotesi, tuttavia sostenuta da alcuni (Cole, 1995), che non sia
indispensabile un filtro nelle azioni di ogni giorno è la nostra mente. La stessa
capacità di pensiero di cui disponiamo, il modo in cui ciò che siamo stati fino a
questo momento influenza tale capacità, è artefatto e strumento che media la
conoscenza del mondo.
Parallelamente, il concetto di “mediazione culturale”, centrale nella
prospettiva che abbiamo in esame, implica l’esistenza di una mediazione della
cultura in tutti i processi psicologici, e quindi l’inesistenza di qualcosa che non
sia “contaminato” dalla cultura: non esistono processi psicologici non mediati
culturalmente (Zucchermaglio, Alby, 2006).
Concependo la cultura come qualcosa di così pervasivo nel mondo reale, la
psicologia culturale prende le distanze da un’idea di cultura intesa come
semplice caratteristica distintiva dei gruppi sociali, avente dei confini ben
delineati. Tale aspetto emerge invece nella definizione di cultura organizzativa
apportata da Schein (1965) che prospetta una tripartizione in artefatti, valori e
assunti di base, rimarcando il carattere inconscio della cultura.
Ciò significa che l’esistenza e gli effetti della cultura prescindono dalla
consapevolezza dei soggetti, principio che sembra del tutto coerente con
quanto dichiarato dalla prospettiva culturale. L’essenza della cultura è per
Schein da rintracciare nel livello più profondo e implicito della sua
tripartizione, ovvero negli assunti di base condivisi. A questo livello
corrispondono tutte le assunzioni impossibili da osservare direttamente e ignote
alla coscienza delle persone, ma che ne guidano e condizionano il
comportamento. Tale nucleo interno di assunti si manifesta tramite i restanti
due stadi della definizione di Schein: valori e artefatti. Essendo, secondo questa
teorizzazione, fonte indubbia di definizione identitaria per i soggetti
appartenenti ad un gruppo, la cultura viene appresa dalle persone.
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La prospettiva culturale ribadisce al contrario la continua costruzione della
cultura tramite un’attività di negoziazione di significati che avviene nelle
pratiche quotidiane degli uomini. L’impossibilità di stabilire dei confini netti
trova fondamento proprio in questa caratteristica distintiva che la prospettiva in
esame attribuisce alla cultura. In quest’ottica non è pensabile trovarsi dinanzi
ad un oggetto rigidamente definito da apprendere, ma è l’azione concreta dei
soggetti a strutturare l’oggetto.
La conoscenza del mondo reale avviene, nell’ottica culturale, tramite la
partecipazione, centrale o periferica, a gruppi in cui si verifica
l’apprendimento sociale.
Il concetto di “gruppo” è molto pregno di significato nella tradizione
psicologica, ed in particolar modo in quella della psicologia sociale. La
straordinaria frequenza con la quale viene utilizzato il termine ‘gruppo’ nei
discorsi di senso comune, mostra come esso sia un’idea fortemente vicina alla
quotidianità dell’uomo. Non è tuttavia scontato definire cosa sia un gruppo;
per farlo si può partire da una considerazione: ogni gruppo è un’aggregazione
di individui, ma ogni aggregazione di individui non è necessariamente un
gruppo (McGrath, 1984). Per poter parlare di ‘gruppo’ è necessario considerare
la combinazione di due specifiche dimensioni: la base su cui si fondano le
relazioni tra i membri, ovvero il grado di strutturazione e di intenzionalità delle
relazioni, e il numero di individui coinvolti. In tal senso, i gruppi appaiono
come aggregazioni relativamente organizzate in cui pochi membri sono
reciprocamente consapevoli della potenziale situazione interattiva in cui sono
inseriti (McGrath, 1984). La dimensione sociale è costante nelle molteplici
definizioni rilevate, in quanto si tratta sempre, al di là delle diverse
classificazioni di gruppi riportati in letteratura (McGrath 1984, De Grada 1969,
Sherif 1967), di insiemi di persone. Questa “totalità dinamica” (Lewin, 1972) si
rappresenta come qualcosa in più della semplice somma delle sue parti,
inglobando anche l’interdipendenza tra le stesse.
I gruppi nei quali avviene la conoscenza all’interno dell’ottica culturale sono
del tutto peculiari. Tali contesti vengono definiti comunità di pratiche (CdP) e
si contraddistinguono per alcuni elementi: un repertorio di risorse condivise,
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l’impegno a garantire la mutualità delle interazioni e l’esistenza di un’impresa
comune (Wenger, 2006).
Il concetto di “apprendimento sociale” fa riferimento allo stabilirsi di una
situazione “formativa” ogni qualvolta si verifica l’incontro tra l’esperienza
personale del soggetto e qualcosa a lui prima sconosciuta. Nel momento in cui
un newcomer fa il suo ingresso in una comunità di pratiche deve apprendere il
necessario per condividere un repertorio di risorse con gli altri membri, con i
quali, dato il presupposto del mutuo impegno, arriverà alla meta comune.
La traiettoria percorsa dal newcomer dal momento in cui entra nella comunità
fino alla completa interiorizzazione della cultura del suo gruppo, viene definita
“Partecipazione Periferica Legittimata” (Wenger, 1998). Pur non conoscendo
bene le regole della comunità, i nuovi membri sono autorizzati a parteciparvi,
in modo periferico e prettamente osservativo. Tramite la progressiva
comprensione delle implicite norme vigenti nel gruppo la partecipazione del
neofita alla comunità, in termini di assunzione di comportamenti e non solo di
interiorizzazione di valori e regole, si farà via via più centrale.
Ma l’attività di apprendimento non termina a questo punto: dalla
partecipazione del soggetto ad altre pratiche, dall’osservazione di altre forme di
conoscenza, da tutto quanto il soggetto esperisce di diverso dal suo contesto di
riferimento, egli trae delle nuove informazioni che porterà alla sua “casa base”,
ovvero alla sua comunità.
L’apprendimento si verifica quindi sempre ai confini della comunità, in una
situazione di contrasto tra mondi, sguardi e modi di vedere diversi. Possiamo
immaginare le CdP come degli spazi i cui confini sono costituiti da tutte le
conoscenze condivise e negoziate dai membri del gruppo; confini che, sulla
base delle dinamiche appena illustrate, non possiamo che considerare
permeabili e flessibili.
Molto peso viene assegnato dalla psicologia culturale all’agentività dei
soggetti, protagonisti attivi della definizione e ridefinizione della realtà.
Molteplici sono gli strumenti che consentono alle persone di plasmare insieme
la vita, essenziale e primo tra tutti il linguaggio. Applicata alla pratica, la teoria
della cultural psychology intraprende percorsi di ricerca che hanno come
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oggetto anche il lavoro, inteso come insieme di pratiche condivise, piuttosto
che come prestazione volta al raggiungimento di obiettivi.
All’interno delle CdP, infatti, le persone costruiscono continuamente la
realtà, producendo e negoziando significati attraverso pratiche di lavoro.
Wenger (1998) definisce le pratiche come la parte non direttamente osservabile
della CdP; ciò che risulta agli occhi dell’osservatore sono tutte le interazioni e i
comportamenti che hanno alla base un significato comune. Le pratiche sono
l’essenza di quel significato comune, di quel senso che collega le azioni e che
spinge le persone a riprodurre schemi comportamentali all’interno del gruppo.
Da ciò si evince la necessità di accedere al repertorio di risorse condivise,
quando l’obiettivo che ci si prefigge è quello di comprendere le pratiche di una
comunità.
Nel momento in cui prende vita una comunità di pratiche, i soggetti che ne
prendono parte riconoscono se stessi e gli altri come membri legittimi della
comunità. Nel mettere in atto tutti i comportamenti che si verificano nella
comunità e nell’apprendere continuamente dalla e per la comunità, i soggetti
non restano mai fermi ma negoziano continuamente la propria identità.
Possiamo pertanto individuare un duplice impegno dei membri delle
comunità nel manifestare la capacità agentiva cui prima si è fatto cenno: la
costruzione della realtà e simultaneamente quella di se stessi.
2. La realtà al confine tra me e il mondo
Se, nell’intento di comprendere la realtà, adottassimo la prospettiva del
sociocostruzionismo, potremmo affermare che quella realtà è l’esito del
confronto tra diverse prospettive. Per cogliere il senso della realtà bisognerebbe
lasciare emergere tutti i punti di vista ed ascoltare tutte le narrazioni delle
persone coinvolte nella storia (Mininni, 2003). “Esercizi di stile” (Queneau,
1947) è un testo nel quale vengono esposte al lettore novantanove modi di
“leggere” una stessa storia.
Di seguito vengono riportate alcune di queste interpretazioni.
1) Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio
con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo
avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un
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vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono
lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si
butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare
Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: « Dovresti far mettere un bottone
in più al soprabito ». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.
2) Com’eravamo schiacciati su quella piattaforma! E come non era ridicolo e
vanesio quel ragazzo! E che ti fa? Non si mette a discutere con un poveretto
che – sai la pretesa, il giovinastro! – lo avrebbe spinto? E non ti escogita
niente po po’ di meno che andar svelto a occupare un posto libero? Invece di
lasciarlo a una signora! Due ore dopo, indovinate chi ti incontro davanti alla
Gare Saint-Lazare? Ve la do a mille da indovinare! Ma proprio lui, il
bellimbusto! Che si faceva dar consigli di moda! Da un amico! Stento ancora
a crederci!
3) Non ero proprio scontento del mio abbigliamento, oggi. Stavo inaugurando
un cappello nuovo, proprio grazioso, e un soprabito di cui pensavo tutto il
bene possibile. Incontro X davanti alla Gare Saint-Lazare che tenta di
guastarmi la giornata provando a convincermi che il soprabito è troppo
sciancrato e che dovrei aggiungervi un bottone in più. Cara grazia che non ha
avuto il coraggio di prendersela con il mio copricapo. Non ne avevo proprio
bisogno, perché poco prima ero stato strigliato da un villano rifatto che ce la
metteva tutta per brutalizzarmi ogni qualvolta i passeggeri scendevano o
salivano. E questo in una di quelle immonde bagnarole che si riempiono di
plebaglia proprio all’ora in cui devo umiliarmi a servirmene.
Se anche impegnassimo un’ingente quantità di tempo ed energie ad
“ascoltare” i narratori di ciascuna storia, non arriveremmo a individuare quella
“vera”. Non esiste, all’interno di quell’incontro-scontro di voci, una voce che
sia più autorevole e reale delle altre.
Mettendo da parte la possibilità dell’esistenza di realtà diverse si adotta il
punto di vista dell’oggettivismo. Secondo quest’ottica la realtà è una sola ed è
esterna all’osservatore. La prospettiva oggettivista si riflette, nell’ampio
panorama delle scienze psicologiche, nella psicologia comportamentista che
trova i suoi più importanti esponenti in Watson e Skinner.
Se la realtà è in ogni caso un dato esterno alla nostra volontà, alla nostra
azione e ai nostri pensieri, noi siamo predisposti per osservare e vivere questa
realtà tramite delle mappe interne che ci fanno da guida. È assolutamente
essenziale che queste mappe siano il più possibile oggettive; tutto quello che fa
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parte della sfera soggettiva altro non è che un rischio, un pericolo, un fattore
che intacca la giusta comprensione di quanto accade.
Quel processo conoscitivo che anima i contesti di comunità, che respira
nell’indeterminato incontro tra diversità, appare in questa ottica molto diverso.
Le proprietà dell’oggetto da conoscere sono sufficientemente stabili a garantire
un processo di conoscenza inteso come somma di “pezzi di sapere” (Kelly,
1955). Tale oggetto è un dato di cui la scienza si propone di comprendere il
funzionamento; prescinde pertanto dalla soggettiva interpretazione di qualche
uomo, e va colto il più possibile nella sua assolutezza. Chi effettua l’indagine
non deve essere presente nel risultato dell’indagine stessa, il suo contributo
personale non rientra nella definizione certa dell’oggetto né può inserirsi nella
procedura scientifica prevista in questa prospettiva teorica. La competenza
distintiva del soggetto conoscente, “scienziato” in questo caso, è quella di
essere assente, e il processo di conoscenza altro non è che avvicinamento
progressivo ad una verità esterna a loro.
L’oggettivismo rimanda ad una serie di proprie specificazioni e prefigura
pertanto concetti come quello di materialismo, determinismo, meccanicismo,
tecnicismo e quantificazionismo. Oltre le sue diverse possibili
concettualizzazioni, la matrice realista-oggettivista presenta indubbiamente dei
vantaggi, con particolare riferimento alla possibilità di generalizzare i risultati
emersi dalla ricerca. L’oggettivismo, inoltre, spesso incontra “l’adesione
immediata del senso comune, che è naturalmente realista e che è portato a
credere che solo questo approccio conoscitivo offra garanzie di verità e di
concretezza” (Armezzani, 2003, p. 12).
I presupposti dell’oggettivismo avvicinano la psicologia alla scienza naturale,
facendo luce su una tradizionale relazione controversa tra due approcci basati
su logiche nettamente differenti. Se l’obiettivo delle scienze naturali è quello di
spiegare i fenomeni, sul versante culturale questo intento si trasforma in quello
di comprendere. Il tentativo di spiegare viene effettuato tramite
l’individuazione di leggi generali per studiare le relazioni tra fenomeni,
secondo un approccio nomotetico; la ricerca culturale persegue invece la meta
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della comprensione di un evento particolare, catturato in tutta la sua unicità,
sui binari di un approccio idiografico (Mininni, 2003).
All’esatto opposto dell’oggettivismo, la posizione soggettivista afferma con
forza la centralità del soggetto nel processo di conoscenza e l’esistenza della
realtà grazie alla percezione che i soggetti ne hanno. Il focus dell’indagine
risulta radicalmente mutato, addirittura invertito. Esso non combacia più con lo
spazio esterno alla coscienza, ma al contrario si identifica con la coscienza
stessa. Ben altre infatti le caratteristiche dell’oggetto da conoscere, che ora
risulta come una rappresentazione del soggetto, le cui proprietà sono stabilite
sulla base delle qualità sensoriali del percipiente e non coincidono con le
caratteristiche fisiche che l’oggetto possiede di natura, prescindendo da chi lo
osserva (Armezzani, 2003).
Di conseguenza cambia il ruolo del soggetto che si accinge a conoscere, il
quale non ha il delicato compito di non lasciare traccia della sua esistenza sulla
sua indagine, ma diventa protagonista dell’indagine.
Considerata l’ampia differenza tra i concetti cardine dei due approcci
presentati, è possibile intuire una mutua esclusione:
“L’antinomia soggettivismo-oggettivismo, in psicologia, si pone in questi
termini di reciproca esclusione. Una volta accettato il dualismo tra realtà
conosciuta e soggetto conoscente, l’oggettivista deve rinunciare a indagare
proprio ciò che comunemente si intende per psicologico, e il soggettivista non
può che produrre una conoscenza condannata a un irrimediabile relativismo.”
(Armezzani, 2003, pag. 17).
In quest’antica disputa tra modi di intendere la psicologia, si inserisce la
visione sociocostruzionista proponendosi come alternativa. Nel definire le
dinamiche caratterizzanti le comunità di pratiche si è visto come la psicologia
culturale sia incardinata sul concetto di mediazione, e come questa mediazione
sia, nella realtà quotidiana, tutta culturale.
Accettando l’ipotesi che ogni nostra esperienza sia culturalmente mediata, si
abbracciano a tuttotondo i presupposti della prospettiva del costruzionismo
sociale.