Egli definisce la “globalità” come l’insieme di legami di molteplice
natura (culturale, politica, economica) che legano tra loro individui,
famiglie e gruppi di diverse parti del mondo fino a costituire un
network su vasta scala.
Descrive il “globalismo” come l’assolutizzazione mistica del libero
mercato, circoscrivendo i suoi effetti alla sola sfera economica.
Intende infine la “globalizzazione” come un processo di sintesi finale
che porta alla formazione di una società globale.
A questo punto essa può assumere i connotati di una rete di
individualità indipendenti e valorizzate che comunicano tra loro in
armonia e rispetto reciproco, oppure può diventare uno strumento di
coercitiva omologazione indifferenziata, finalizzata all’annullamento
delle differenze e all’affermazione di un ordine rigido, basato sullo
strapotere di pochi rilevanti attori internazionali.
Questo secondo scenario sembra coincidere maggiormente con la
realtà dei fatti.
Il nuovo sistema globale produce un diverso criterio di analisi del
modus operandi della politica, che non rimane più monopolio
esclusivo dei partiti o degli organismi governativi ma diventa
appannaggio di organizzazioni non statali come le multinazionali, in
grado con il loro operato di condizionare e mobilitare ingenti risorse
sia economiche che sociali all’interno di questa nuova dimensione
planetaria.
In altre parole la politica sarebbe degradata al ruolo di
amministrazione che crea e mantiene le condizioni ottimali per la
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“grande partita” economica alla quale sono costretti a partecipare tutti,
secondo le regole fissate da pochi.
La dottrina che si è posta sin dall’inizio alla guida dei processi di
globalizzazione è quella del neoliberismo: un paradigma economico
che teorizza la necessità di attuare politiche che permettano a gruppi
ristretti di èlite finanziaria di massimizzare i propri profitti su larga
scala senza dover sottostare a particolari limitazioni.
L’obiettivo dichiarato di questa dottrina è quello di promuovere
politiche di libero mercato utili ad incoraggiare l’imprenditorialità
privata, premiare la responsabilità individuale e spazzare via i vincoli
posti dagli apparati statali.
Alla base di questa scuola di pensiero vi è la convinzione che il livello
di benessere delle classi sociali più povere e deboli sia direttamente
proporzionale al tasso di arricchimento raggiunto dalla classe
imprenditoriale e finanziaria.
Ogni attività che rischi di interferire con il dominio delle grandi
imprese appare automaticamente sospetta in quanto minaccia di
intralciare il libero mercato, considerato il solo fornitore razionale,
giusto e democratico di beni e servizi.
In quest’ottica la globalizzazione rappresenta una condizione
essenziale per poter realizzare tutto ciò, rompere equilibri consolidati,
strutture mentali e modi di vivere che sembravano immutabili,
permettendo la creazione di un mercato mondiale privo di vincoli
strutturali e finalizzato al solo scopo di creare profitto che, secondo i
neoliberisti, è l’essenza della democrazia.
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Si può legittimamente affermare che sono in molti ad opporsi a questa
logica sostenendo che la democrazia, per essere efficace, richieda un
legame che unisca i cittadini e si manifesti in una varietà di
organizzazioni e di istituzioni del tutto indipendenti dal mercato, che
promuovano il confronto, l’interazione culturale e la comunicazione.
Secondo questa prospettiva, il neoliberismo non produce cittadini ma
semplicemente consumatori, non costruisce comunità ma centri
commerciali e il risultato finale della sua azione è l’affermazione di
una società formata da individui disimpegnati e socialmente impotenti
che assumono le sembianze di burattini.
La realtà dei fatti, secondo i critici del sistema vigente, è che
l’economia è in buona parte dominata da grandi imprese e da grandi
soggetti finanziari che detengono un ferreo potere di controllo sui
propri mercati e che spesso operano senza tenere conto dei basilari
principi democratici.
L’economia reale ruota intorno a queste istituzioni e, per molti, ciò
compromette gravemente la possibilità di dare vita ad una società
veramente libera.
Il messaggio più forte del neoliberismo è che lo status quo non ha
alternative e che l’umanità ha raggiunto, nell’età presente, l’apice del
proprio progresso, la luce dell’alba.
Gli studiosi che ragionano in questi termini, sostenendo l’uniforme
occidentalizzazione del mondo, ritengono che sia vicina la “fine della
storia” e la vittoria definitiva del capitalismo sull’ideologia marxista-
leninista.
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Secondo lo scrittore e giornalista Thomas Friedman, fuori dalla
globalizzazione si trova solo miseria, ipocrisia, arretratezza ideologica
e superstizione; egli ritiene perfino che essa rappresenti “la camicia di
forza dorata” sinonimo di pace e democrazia
2
.
In definitiva, il mercato globale è visto da molti come l’unica religione
per un’umanità senza altre prospettive.
Sono tanti i dissensi che si levano contro tale convinzione e si contano
a fatica i movimenti di protesta che si oppongo a questa scuola di
pensiero dominante; ognuno di loro è parte dell’ “arcipelago
noglobal”, eterogeneo e plurale.
Esso presenta al suo interno una molteplicità di voci e punti di vista ed
è molto lontano dal rappresentare un soggetto compatto, uniforme e
monolitico.
Questi movimenti denunciano un progressivo aumento della povertà
mondiale e un accrescimento di disuguaglianze nella distribuzione
delle risorse; l’obiettivo condiviso è la contestazione ma gli strumenti
utilizzati, le analisi, le soluzioni proposte e le previsioni sono le più
disparate.
2
Hassner, P - Vaïsse, J. (2004), Washington e il mondo. I dilemmi di una superpotenza, Il Mulino,
Bologna.
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Capitolo primo
La scuola di Chicago, l’idolatria del libero mercato e il
fascino dell’ordine mondiale
Negli anni Cinquanta, il dipartimento di economia dell’Università di
Chicago rappresenta il luogo di nascita di una scuola di pensiero
pronta a mettere in discussione con ferma intransigenza le basi e le
strategie della politica economica di matrice keynesiana.
Il modello elaborato dall’economista inglese John Maynard Keynes
(1883-1946), si contrappone a quello classico che domina fino agli
inizi del Novecento e rappresenta, secondo una lettura più semplificata
della storia economica, una parentesi tra il liberalismo, così come
teorizzato da grandi maestri del calibro di Adam Smith (1723-1790), e
il neoliberalismo, accostato alle figure di Milton Friedman e Friedrich
August von Hayek.
Queste due teorie, sviluppate in contesti storici molto diversi tra loro,
presentano connotati differenti ma poggiano sulle stesse fondamenta
dottrinali: promuovono entrambe la necessità di un’assoluta
indipendenza del sistema economico dallo Stato e una fiducia
incondizionata nei confronti di un mercato libero da vincoli e
regolamentazioni.
Il crollo finanziario del 1929 e la successiva recessione degli anni
Trenta, convincono gli economisti dell’epoca dell’impossibilità da
parte del mercato di raggiungere, da solo, l’equilibrio tra risparmi ed
investimenti oltre che la piena occupazione e l’efficienza produttiva.
I tragici eventi di quegli anni bocciano senza appello la strategia
liberista del laissez faire. La profonda crisi dei consumi porta alla
fame una grandissima parte della popolazione ed è proprio in questo
contesto che si fa strada il modello alternativo teorizzato da Keynes.
Egli parte dall’analisi dei fatti e constata che la crisi era stata generata
da un’insufficienza di domanda dei beni di consumo da parte della
popolazione e da una parallela mancanza di beni di investimento da
parte delle imprese. La conseguenza principale di questo crollo è
l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione; ne risulta
evidente la necessità di un immediato intervento statale, in termini di
politica monetaria e fiscale, per alimentare di nuovo le domande di
consumo. Secondo il suo pensiero, la manovra più efficiente sarebbe
stata quella di favorire un aumento di spesa da parte dello Stato in
termini di investimento in servizi pubblici, e l’obiettivo sarebbe stato
raggiunto nell’ incentivare la domanda di beni e la conseguente
ripresa dei consumi per portare il sistema verso il pieno impiego,
lontano dalla crisi.
Alla base di questa teoria vi è la convinzione dell’utilità
dell’intervento statale nel regolare il sistema economico, nel garantire
dei vincoli e dei limiti all’azione finanziaria privata e nel ridistribuire
verso il basso la ricchezza. Il presidente americano Franklin Delano
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Roosvelt (1882-1945) durante il suo primo mandato fa proprie queste
considerazioni e realizza un Welfare State in grado di riavviare il
processo di produzione e, nel contempo, abbassare il tasso di
disoccupazione.
La Tennessee Valley Authority e il National Industrial Recovery Act
promuovono la creazione di grandi opere pubbliche, linfa per il settore
privato e per la forza lavoro. L'Agricultural Adjustement Act, la Civil
Work Administration, nonché il Wagner Act rappresentano alcune
delle misure stabilite per trovare accordi con i lavoratori e restituire
vitalità ad un settore vessato dalla stagnazione. Le critiche di
un’eccessiva statalizzazione del paese più liberale del mondo sono
messe a tacere dai risultati del New Deal statunitense.
Questo modello di azione serve da esempio per molti altri Stati;
infatti, a seguito della presa di coscienza delle reali dimensioni del
disastro economico, la richiesta da parte delle popolazioni, di una
forma di governo decisamente interventista si fa insistente.
Sono avviate opere pubbliche ed inaugurati nuovi programmi sociali
che promuovono molti posti di lavoro; la Seconda guerra mondiale
poi, non fa altro che rendere ancora più urgente questa lotta alla
miseria. La necessità di garantire alla popolazione un tenore di vita
dignitoso avrebbe ragionevolmente precluso il ritorno delle masse
verso ideologie totalitarie; è questo uno degli obiettivi della teoria
dello sviluppo, di matrice socialdemocratica, nata sulla scia della
rivoluzione keynesiana.
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Essa ottiene diversi successi, in particolar modo in America latina
dove vengono riversati soldi pubblici in infrastrutture e sussidi alle
aziende locali affinché costruiscano nuove fabbriche; parallelamente
sono portati avanti processi di nazionalizzazione e scoraggiate le
importazioni.
Tutto ciò produce una rapida espansione che porta il Sud America ad
assomigliare sempre di più all’Europa e agli Stati Uniti, dimostrando
che politiche interventiste intelligenti, hanno la possibilità di alzare il
livello di benessere e ridurre le differenze tra Primo e Terzo mondo.
L’unico vero grande ostacolo che si pone dinanzi a questa lotta contro
il laissez-faire è rappresentato dagli interessi del capitalismo
industriale e finanziario, frustrato dalle limitazioni imposte e
desideroso di attuare una controrivoluzione in senso neoliberista.
Ed è qui che entra in gioco la scuola di Chicago che, grazie a fiumi di
donazioni, genera una rete globale di think tanks conservatori da
esportare in tutto il mondo per convincere gli ambienti politici della
necessità di tornare indietro e rimuovere tutte le regole e le norme
d’intralcio all’accumulazione privata del profitto.
Tagli alla spesa sociale, privatizzazioni di risorse, scuole, pensioni,
sanità e telecomunicazioni, deregolamentazioni, abbassamento
drastico delle tasse e massima apertura nei confronti del libero
mercato che avrebbe definito in piena autonomia il costo del lavoro.
Sono queste le prime istruzioni impartite dalle aule di quel
dipartimento di economia. In altre parole: il definitivo abbandono
della logica del New Deal e la promozione di un modello globale che
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favorisca gli interessi di grandi soggetti multinazionali. Tutto ciò
risulta impossibile da realizzare se prima non vengono annientati i
sostenitori della teoria dello sviluppo che si è radicata in particolar
modo nei paesi a sud degli Stati Uniti.
E’ proprio da questa esigenza che, sotto la pressione degli interessi
industriali e finanziari, prende piede un movimento politico che
denuncia a gran voce la minaccia mondiale di un’avanzata del
comunismo totalitario favorito dagli interventismi statali e dai
nazionalismi terzomondisti. L’obiettivo dichiarato diventa quello di
stroncare sul nascere il “pericolo”. La realizzazione di questo progetto
dipende quasi esclusivamente dall’appoggio dell’intelligence
statunitense.
Nel 1953, Allen Welsh Dulles (1893-1969) diventa il primo direttore
civile della neonata CIA, che dirigerà sino al 1961. Fino ad allora
svolge numerose interessanti attività. Per diversi anni pratica il
mestiere di avvocato, è membro della massoneria di rito scozzese e del
partito repubblicano e veste i panni di difensore legale di personaggi
del calibro di Lucky Luciano. Nello stesso periodo diventa l'uomo di
punta del Dipartimento di Stato americano sui prestiti stranieri e sulla
negoziazione di forniture di armi.
Successivamente entra nella finanza, assume il ruolo di direttore della
Consolidated Silesian Steel Company e avvia una serie di
contrattazione con il Ministro dell’Economia nazista; sarà lo stesso
presidente Roosvelt a confiscare le sue azioni societarie nel 1942.
All’inizio degli anni Trenta è membro del consiglio di
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