consente a numerose aziende l'accesso ad una serie di agevolazioni finan-
ziarie sia nazionali, sia comunitarie.
L'individuazione dei criteri a cui fare riferimento non è semplice. I
parametri più utilizzati sono comunque il numero di dipendenti, il fatturato
realizzato e l'entità del capitale investito.
Differenziazioni si rendono ulteriormente necessarie anche avendo
riguardo al tipo di attività svolta, potendo così distinguere tra Pmi indu-
striali, commerciali o di servizi.
Per l'Unione Europea è definita piccola media impresa industriale
quella che non impiega più di 250 dipendenti, con un fatturato annuo non
superiore a 20 milioni di Ecu o, in alternativa al fatturato, un totale attivo
dello Stato Patrimoniale pari ad un massimo di 10 milioni di Ecu
2
.
La definizione data dalla Banca Centrale Europea risulta meno re-
strittiva che quella adottata dall'Unione Europea, e stabilisce che limiti
dimensionali massimi di una Pmi siano 500 dipendenti e 75 milioni di Ecu
di immobilizzi netti a bilancio
3
. Per lo Stato Italiano la caratterizzazione di
tale categoria di imprese ruota intorno all'articolo 2 della legge numero
317 del 1991
4
dove :«…si considera:
2
Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea, C 213 del 19 agosto 1992.
3
Cfr. IPSOA (1995), Guida pratica per le Pmi, IPSOA.
4
Si consulti la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 237 del 9 Ottobre 1991, legge n. 317
del 5 ottobre 1991.
a) piccola impresa industriale quella avente non più di 200 di-
pendenti e 20 miliardi di lire di capitale investito, al netto di ammortamenti
e rivalutazioni monetarie;
b) piccola impresa commerciale e piccola impresa di servizi,
anche del terziario avanzato, quella avente non più di 75 dipendenti e 7,5
miliardi di lire di capitale investito, al netto di ammortamenti e rivaluta-
zioni monetarie»
5
.
Come si può notare, la definizione ricercata non è univoca e diventa
ancora più complessa qualora si volesse ulteriormente distinguere tra me-
dia e piccola impresa, che pur presentano differenze organizzative e ge-
stionali
6
., Per quanto riguarda l'abitudine della letteratura italiana
7
,
comunque, vengono considerate medie imprese quelle che hanno un nu-
mero di dipendenti inferiore a 500 e piccole le imprese che impiegano
meno di 100 addetti
5
Così anche L. Berra - L. Piatti - G. Vitali (1992), "Strategie di internazionalizzazione delle
piccole e medie imprese", in Economia Marche, n. 3, Dicembre.
6
Cfr. C. Pepe (1984), Lo sviluppo internazionale delle piccole e medie imprese, Franco Angeli,
Milano; K. Roth (1992) "International configuration and coordination archetypes for medium-sized
firms in global industries", in Journal of international business studies, Vol. 23, n. 3, third quarter;
N. E. Philp (1998), "The export propensity of the very small enterprise (VSE) ", in International
Small Business Journal, Vol. 16, n. 4, issue n. 64, July-September. .
7
Si veda D. Depperu (1993), op. cit.; G. Corbetta - P. Dubini (1997), "Le politiche di facilitazione
allo sviluppo delle Pmi: i risultati di una indagine quantitativa", in B. Brunetti - G. Mussati - G.
Corbetta (a cura di), Piccole e medie imprese e politiche di facilitazione, Egea, Milano; C. Pepe
(1984), op. cit..
1.2. PMI E CARATTERI DISTINTIVI
Le Piccole e Medie Imprese costituiscono un complesso fortemente
variegato ed articolato. Si riscontra tale eterogeneità se si fa riferimento ad
imprese che operano in aree geografiche diverse (basti pensare alle diffe-
renze "ambientali" tra Nord e Sud d'Italia). Anche il settore produttivo di
appartenenza
8
condiziona le caratteristiche competitive delle aziende pre-
sentando imprese artigianali o labour intensive accanto a realtà che utiliz-
zano tecnologie avanzate ed altamente innovative. Diversità emergono
anche se si guarda ai mercati di sbocco ed alle modalità strategiche ed
operative che distinguono organizzazioni che vendono per il consumo
finale, da altre che producono semilavorati da destinare ad aziende com-
mittenti sviluppando con esse dei rapporti di dipendenza più o meno vin-
colanti. Non si dimentichino poi le peculiarità delle imprese
internazionalizzate, rispetto a quelle che operano entro i confini domestici.
8
Si veda L. Rava (1996), op. cit.
All'interno di questo sistema così poco uniforme, è possibile, però,
cogliere
9
dei fattori ricorrenti e tipizzanti che hanno consentito di delinea-
re un quadro di riferimento che verrà qui di seguito illustrato. Focalizze-
remo prima le caratteristiche organizzativo/strutturali delle Pmi e poi
quelle strategiche.
9
Tra gli altri: D. Depperu (1993) op. cit.; D. Depperu (1997), “L’internazionalizzazione delle
piccole e medie imprese attraverso aggregazioni. I consorzi export”, in Brunetti B. - Mussati G. -
Corbetta G. (a cura di), Piccole e medie imprese e politiche di facilitazione, Egea, Milano;
G. Corbetta (1997), op. cit.; A. Arcari (1997),"Le attività amministrative nell'ambito delle Pmi: un
supporto alla costruzione dei requisiti di ammissibilità alle facilitazioni e un possibile oggetto di
intervento di politica economica", in B. Brunetti - G. Mussati - G. Corbetta (a cura di), Piccole e
medie imprese e politiche di facilitazione, Egea, Milano;
1.3. L'ORGANIZZAZIONE DELLE PMI.
1.3.1. LO STILE DIREZIONALE
Uno dei tratti distintivi delle Pmi è senz'altro costituito dal ruolo
rivestito dall'imprenditore/proprietario.
Le imprese di minori dimensioni sono, molto spesso, a carattere
familiare
10
, sia se considerate dal punto di vista del grado di coinvolgimen-
to diretto della famiglia nella gestione, sia valutando l'entità del controllo
economico inteso come numero di quote di capitale possedute dal gruppo
parentale
11
.
L'assenza di managers con compiti direzionali influenza sensibil-
mente la gestione aziendale e l'orientamento strategico
12
, al punto tale che
alcuni Autori
13
hanno sostenuto che «The enterpreneur is the firm», evi-
denziando come le personali caratteristiche dell'imprenditore siano deter-
10
Cfr. D. Depperu (1993), op. cit.; A. Arcari (1997), op. cit.; N. E. Philp (1998), op. cit.; A. P.
Julien - A. Joyal - L. Deshaies - C. Ramangalahy (1997), "A typology of strategic behaviour among
small and medium - sized exporting business. A case study", in International small business
journal, Vol. 15, n. 2, issue n. 58, January - March.
11
Per ulteriori approfondimenti M. Ciambotti (1997), "La domanda di servizi reali nelle piccole
imprese manifatturiere: un'indagine empirica in un comune marchigiano", in Piccola Impresa/Small
Business, n.3.
12
Cfr. P. A. Julien - A. Joyal - L. Deshaies - C. Ramangalahy (1997), op. cit.
13
In L. Hurmerinta-Peltomaki - N. Nummela (1998), "Market orientation for the public sector
providing expert services for SMEs", in International small business journal, Vol. 16, n. 2, issue n.
62, January - March.
minanti nella vita di una piccola impresa. Non si tratta necessariamente di
un punto di debolezza. Intorno alla figura dell'imprenditore, infatti, si
possono "costruire"
una cultura ed una uniformità di vedute che rafforzano l'azienda e le confe-
riscono stabilità, contribuendo potenzialmente alla riduzione di contrasti e
divergenze di opinione
14
all'interno dell'organizzazione.
Questo aspetto diventa però uno svantaggio, se il bene dell'azienda
viene subordinato agli obiettivi esclusivi della famiglia e se dovesse risul-
tare penalizzata l'apertura nei confronti dell'ambiente, traino insostituibile
per gli stimoli all'innovazione e a nuove opportunità strategiche
15
.
Anche la scelta dell'internazionalizzazione rischia di essere scartata
dall'imprenditore che ne teme le implicazioni, soprattutto in termini di
perdita del controllo economico, nel caso in cui fosse necessario accettare
nuovi conferimenti di capitale da persone esterne all'organizzazione. L'a-
pertura all'estero, inoltre, comporta un aumento della complessità gestiona-
le
16
che può trovare impreparata la piccola impresa. D'altra parte in tali
aziende il rischio viene percepito in modo amplificato rispetto ai gruppi di
14
Cfr. D. Depperu (1993), ivi.
15
E' pure vero
che se l'impresa è troppo "centrata" sull'imprenditore, ha difficoltà ad essere
competitiva ed a rimanere profittevolmente sul mercato. Si veda M. Raffa (1996), "Piccole imprese,
innovazione e mezzogiorno", in Piccola Impresa/Small business, n.1.
16
Si pensi solo alla necessità di dover comunicare in una lingua straniera, di gestire un portafoglio-
prodotti diversificato, di rinnovare la struttura organizzativa aziendale predisponendo adeguate
risorse umane alla gestione dei rapporti con l'estero.
maggiori dimensioni
17
, poiché dall'andamento dell'impresa dipende il
sostentamento della famiglia. A causa di quella che è stata definita «A
fear of international market activities »
18
, le difficoltà informative, la
scarsità di risorse finanziarie e di competenze, la non conoscenza dei nuovi
mercati, finiscono per offuscare le opportunità che l'operare in un contesto
internazionale presenta
19
.
Da più parti si richiama l'importanza di una maggiore "manageria-
lizzazione" delle Pmi
20
, argomentata dal bisogno di recuperare la profes-
sionalità necessaria a sopperire alle inadeguatezze che non permettono loro
di cogliere e sfruttare le sfide della competizione.
Passare da una logica imprenditoriale ad una imprenditoria-
le/manageriale significa ampliare il proprio organismo personale, per ac-
quisire nuove competenze e conoscenze che nella gran parte dei casi non
riescono a generarsi nell'ambito familiare
21
; ciò comporta ovviamente il
ricorso alla delega
22
a collaboratori fidati, di compiti che prima erano di
pertinenza esclusiva dell'imprenditore, portando le Pmi a perdere un po'
del carattere di gestione familiare tipico.
17
Cfr. L. Rava (1996), op. cit.
18
In M. Kotabe - M. R. Czinkota (1992), "State government promotion of manifacturing exports: a
gap analysis", in Journal of international business studies, Vol. 23, n. 4, fourth quarter.
19
Si veda M. Kotabe - M. R. Czinkota (1992), op. cit.; L. Rava (1996), op. cit.
20
Per maggiori dettagli si vedano: L. Rava (1996), op. cit.; D. Depperu (1993), op. cit.; A. Arcari
(1997), op. cit.; G. Corbetta (1997), op. cit.; V. Gandolfi (1997), “Comportamenti imprenditoriali
nell’internazionalizzazione delle Pmi”, in Piccola Impresa/Small Business, n. 2.
21
Cfr. D. Depperu (1993), op. cit.; M. Raffa (1996), op. cit.; A. Arcari (1997), op. cit.
1.3.2 LA STRUTTURA ED I MECCANISMI OPERATIVI
La struttura è uno dei modi in cui l'impresa risponde alle complessi-
tà gestionali. All'aumentare di queste a causa di sollecitazioni ambientali
esterne ed interne all'azienda, la struttura evolve verso forme via, via più
elaborate, capaci di far fronte nella maniera più adeguata alle nuove esi-
genze.
Una delle determinanti principali del modo in cui viene strutturata
una impresa è sicuramente la dimensione aziendale. All'aumentare di que-
sta, infatti, aumenta anche il grado di formalizzazione nei rapporti interni
all'azienda, si accentuano le rigidità del sistema organizzativo con riduzio-
ne della elasticità nei processi di cambiamento; si accresce però il volume
delle risorse da gestire in termini di organico, mezzi di produzione, finan-
ziamenti, ecc.
23
Alla luce di queste considerazioni, non sorprende che la struttura
delle Pmi si presenti con un grado di articolazione piuttosto basso, da
alcuni definito addirittura «elementare»
24
.
Gli svantaggi più spesso ricordati dalla letteratura sviluppatasi in-
torno alla dimensione delle imprese minori, sono da collegarsi a diversi
23
Si veda F. Fontana (1992), Il sistema organizzativo aziendale, Franco Angeli, Milano.
24
Così D. Depperu (1993), op. cit.; A. Arcari (1997), op. cit.
aspetti. Si è già parlato delle debolezze di una gestione eccessivamente
accentrata nelle mani dell'imprenditore. Considerando anche l'irrilevanza
del ricorso alla delega
25
, risulta ridotta l'efficacia dei meccanismi operativi
fondamentali quali ad esempio quelli di pianificazione, programmazione e
controllo
26
.
Sono spesso posti sotto il controllo dell'imprenditore, anche i
meccanismi di ricerca, selezione ed inserimento del personale dipendente.
Alcune ricerche
27
hanno riscontrato la limitatezza e la scarsa apertu-
ra verso sistemi informativi avanzati, che consentono di raccogliere ed
elaborare informazioni rilevanti per l'attività aziendale. Si fa notare che se
fossero gestiti in modo più consapevole, comporterebbero benefici imme-
diati con un conseguente aumento della competitività dell'intero sistema
aziendale.
Le Pmi si caratterizzano inoltre per il fatto di essere poco integrate
verticalmente. Ciò denota una certa difficoltà a muoversi nell'arena
competitiva che le spinge focalizzarsi su alcune soltanto delle fasi del
processo produttivo e ad instaurare dei rapporti di subfornitura con aziende
25
Si vedano D. Depperu (1993), op. cit.; A. Arcari (1997), op. cit.
26
Per meccanismi operativi intendiamo l'insieme di strumenti organizzativi che si propongono di
rendere operativa la struttura aziendale, permettendole di realizzare le funzioni necessarie al
raggiungimento degli obiettivi prefissati. I principali meccanismi operativi sono: il sistema di
pianificazione e controllo di gestione, il sistema di gestione del personale ed il sistema informativo.
Per ulteriori approfondimenti si consigliano: F. Fontana (1992), op. cit.; L. Brusa (1986), Strutture
organizzative d'impresa, Giuffrè, Milano.
27
Sull'importanza del sistema informativo aziendale si sono espressi diversi Autori, tra i quali
ricordiamo: D. Depperu (1993), op. cit.; A. Arcari (1997), op. cit.; L. Brusa (1986), op. cit.; F.
Fontana (1992), op. cit.; C. Pepe (1984), op. cit.; M. Ciambotti (1997), op. cit.
produttivo e ad instaurare dei rapporti di subfornitura con aziende di più
grandi dimensioni che svolgono il processo terminale
28
. Anche laddove
l'impresa provveda autonomamente all'intera realizzazione del prodotto, è
difficile che si presenti sul mercato con delle proprie reti distributive,
costringendosi alla dipendenza da operatori commerciali come ad esempio
grossisti, trading companies, importatori, allontanandosi così dal
consumatore finale
29
.
Un altro aspetto comune tra le imprese minori, riguarda la non ele-
vata estensione delle funzioni aziendali, visto che in genere l'imprendito-
re/proprietario preferisce esternalizzare attività come l'amministrazione ed
il marketing, affidandole a professionisti esterni perché troppo costose se
gestite in proprio.
Ulteriore conseguenza della piccola dimensione, consiste nell'im-
possibilità, da parte delle Pmi, dello sfruttamento dei notevoli vantaggi di
costo garantiti dalle economie di scala
30
, con ovvie conseguenze sull'intera
redditività aziendale
31
.
28
Silvestrelli, in proposito, specifica che « …il fenomeno dei decentramenti produttivi si sviluppa e
rimane per larga parte all'interno del settore delle imprese minori e costituisce una specifica
connotazione strutturale di interi settori e di molte aree», e che « …tale politica mediante una
disintegrazione verticale dei processi di produzione, la specializzazione degli impianti e la
divisione del lavoro tra imprese, abbia dato vita ad un vero e proprio "modello di sviluppo
industriale" in molti settori manifatturieri dell'industria italiana» in M. Rispoli (a cura di) (1990),
L'impresa industriale, Il Mulino, Bologna.
29
Cfr. D. Depperu (1993), op. cit.
30
Le economie di scala consentono riduzioni di costo dovute o al conseguimento di una maggiore
efficienza nell'esercizio dell'attività produttiva su scala più ampia (con il conseguimento di
economie di scala tecnologiche, che consentono l'abbassamento del costo medio unitario di
Questa critica deve essere però ripensata quando la piccola impresa
fa uso di impianti a tecnologia avanzata che, riducendo la scala ottima
minima di produzione, "smorzano" il ruolo delle economie di scala
32
. In
più, i moderni sistemi di produzione automatizzata, rendendo flessibili i
macchinari utilizzati, consentono rapide e relativamente poco costose
modifiche del mix di prodotti offerti
33
. Tutto ciò ha favorito fortemente
l'entrata nei mercati internazionali di nuovi attori, rappresentati da imprese
di piccola e media taglia
34
.
prodotto), o alla capacità di suddividere i costi di fattori intangibili (costi amministrativi,
pubblicità, ricerca…) su volumi di vendita maggiori (si parla allora di economie di scala di
gestione, che influiscono invece sul costo medio di produzione complessivo). In proposito si
vedano M. Rispoli (a cura di) (1990), op. cit.; M. E. Porter (1996), Il vantaggio competitivo,
Edizioni di Comunità, Milano.
31
Sul mancato sfruttamento delle economie di scala da parte di Pmi, cfr. E. Rullani, "Dimensioni
da mercato globale", in Il sole - 24 ore, 19 maggio 1999; D. Depperu (1993), op. cit.; A. Arcari
(1997), op. cit.; W. G. Scott (1983), L'internazionalizzazione dell'impresa minore, Mediocredito
Lombardo, Milano; S. Alessandrini (1989), op. cit.; T. J. Dean - Brown R. L. – C. E. Bamford
(1998), “Differences in large and small firm responses to environmental context: strategic
implications from a comparative analysis of business formations”, in Strategic Management
Journal, Vol. 19, n. 8.
32
Cfr. L. Piscitello (1995), "Un'azione di sostegno per le 'mini' multinazionali" in L'impresa, n. 8.
Sull'argomento, Alessandrini (1989) non esprime un giudizio troppo positivo sostenendo che in
questo modo le dimensioni dell'impresa «cristallizzano», di fatto rendendo ancora più improbabile
la possibilità di crescita delle Pmi. Si veda S. Alessandrini (1989), op. cit.
33
Si veda ancora M. Rispoli (a cura di) (1990), op. cit.
34
Così S. Mariotti (1995), "Una presenza a rete sul mercato globale", in L'impresa, n. 8.
1.3.3 ALCUNE OSSERVAZIONI CRITICHE
In riferimento alla semplicità dell'organizzazione delle aziende qui
considerate, è opportuno sviluppare ulteriori considerazioni intorno a
quella che a volte, con troppa disinvoltura, è stata definita una «struttura
elementare»
35
.
La piccola impresa italiana, infatti, invece che crescere internamen-
te aumentando la propria dimensione, sfrutta accordi di cooperazione con
altre aziende, per lo svolgimento congiunto di attività di ricerca, di produ-
zione, di vendita; oppure, evolve per costellazione, aggregandosi intorno
ad imprese - guida
36
. Anche i rapporti di sub - fornitura sono da riconside-
rare
37
, poiché tra terzisti e committenti si instaurano reciproche e forti
interdipendenze, specialmente nel caso in cui il prodotto intermedio si
presenti con caratteristiche di complessità e specialità che lo rendono inso-
stituibile per l'ottenimento del prodotto finito.
In questa sede non si può dimenticare l'importanza delle forme di
aggregazione distrettuali
38
, caratterizzate dalla elevata concentrazione in
35
Cfr. nota n. 27.
36
Cfr. G. Lorenzoni (1990), L’architettura di sviluppo delle imprese minori, Il Mulino, Bologna.
37
Cfr. G. Nardin (1994), “Percorsi di internazionalizzazione in un sistema di piccole e medie
imprese”, in Piccola Impresa/Small Business, n. 1.
38
Un elogio alle forme di organizzazione distrettuali è venuto anche dal Governatore della Banca
D'Italia Antonio Fazio, in occasione della 105
a
Relazione all'assemblea generale della Banca
D'Italia svoltasi il 31 maggio 1999. Si vedano in proposito Banca D'Italia, Relazione annuale 1999,
un territorio geograficamente limitato di piccole imprese a forte specializ-
zazione produttiva
39
. All'interno del distretto, le imprese creano sapere
comune, tramite i rapporti di interazione continua che si sviluppano (lear-
ning by cooperating
40
). Infatti, le relazioni tra le unità produttive poste in
concorrenza o collaborazione tra loro e le loro affinità culturali e sociali,
stimolano continue innovazioni e processi imitativi, che consentono la
realizzazione di un sistema di conoscenze ed esperienze destinate sponta-
neamente alla condivisione. Accanto ad una forma di conoscenza "esplici-
ta" che è facilmente trasferibile, ogni aggregazione crea anche della
conoscenza "tacita", meglio definita "contestuale"
41
, che è intrinsecamente
collegata al sistema da cui promana e che si rende disponibile a livello
dell'intero distretto. E' da quest'ultima che nasce il vantaggio competitivo
dei sistemi locali, da cui le imprese traggono le cosiddette economie di
localizzazione
42
, che permettono un incremento della produzione per quel-
lo specifico tipo di industria componente il sistema distrettuale.
Anche nel caso in cui alcune delle imprese facenti parte del distret-
to si internazionalizzano, il vantaggio competitivo sviluppato all'interno
e l'articolo di A. Orioli "Un'Italia più flessibile, ma non basta" pubblicato su Il sole - 24 ore del 1
giugno 1999. Cfr. inoltre M. Tamberi (1996), "Competitività internazionale e trasformazioni
strutturali in Italia: alcune riflessioni", in Economia Marche, n. 3, Dicembre 1996.
39
Si consulti la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 9 Ottobre 1991 n. 237, legge 5
ottobre 1991 n. 317.
40
Si veda L. Berra - L. Piatti - G. Vitali (1992), op. cit. Cfr. inoltre L. Paolazzi "«Piccola» è bella
se ha molte amiche", in Il sole - 24 ore, del 31 maggio 1999.
41
Cfr. G. Conti - S. Menghinello (1998), op. cit.
42
Cfr. P. E. Lloyd - P. Dicken (1996), Spazio e localizzazione, Franco Angeli, Milano.
continua a far sentire i suoi effetti. Il motivo risiede nel fatto che si tratta di
un vantaggio "distintivo", meno difendibile sul mercato interno, per via
della maggiore appropriabilità da parte degli operatori domestici, ma che
riesce a dispiegare appieno le sue potenzialità proprio all'estero, dove è più
difficile individuarlo ed imitarne i percorsi
43
. E' però il caso di fare delle
distinzioni. Se si parla di internazionalizzazione produttiva, l'esternalizza-
zione di attività core
44
, caratterizzate da un elevato contenuto di conoscen-
ze derivanti proprio dalle competenze sviluppate localmente, a lungo
andare, può provocare una riduzione significativa della qualità della pro-
duzione. Infatti, i legami tra l'azienda ed il sistema distrettuale, nel tempo,
tendono a ridimensionarsi e, con essi, anche la partecipazione dell'impresa
a quel circuito di relazioni autofertilizzanti che sono la fonte primaria dei
vantaggi di localizzazione. Il processo di "allontanamento" descritto, com-
porta non soltanto la perdita di competitività dell'azienda internazionaliz-
zata, ma anche conseguenze di rilievo sull'intero sistema distrettuale, che
rischia di ritrovarsi "svuotato" nel caso in cui tutte le imprese o alcune
aziende - leaders al suo interno subissero questa sorte.
43
Sull'argomento, si veda G. Nardin (1994), op. cit.; B. Cominelli (1997), op. cit.
44
L'insieme di conoscenze ed esperienze produttive che distinguono il sistema locale dagli altri,
sono definite core activities, da considerare in una accezione diversa da quella usuale, che invece
indica le attività strategiche alla base del vantaggio competitivo di una particolare azienda. Sul
punto si veda G. Conti - S. Menghinello (1998), op. cit.