Necessitas probandi
uno degli aspetti essenziali della funzione giurisdizionale, quindi
bisogna indirizzare gli studi non solo al processo, bensì anche alla
teoria generale del diritto, su quella regula iuris che permette al
giudice di pronunciare in ogni caso, evitandogli così di permanere in
un dubbio insolubile
4
, che poco o nulla ha a che vedere con la certezza
del diritto. Per il Chiovenda provare significa formare la convinzione
del giudice sulla sussistenza o non di fatti rilevanti per il processo
5
.
Quanto esposto finora chiarisce come in un sistema processuale
una pretesa, che voglia essere accolta in giudizio, deve essere
adeguatamente provata.
Il nostro codice civile enuncia la regola dell’onere della prova
all’art. 2697, secondo cui ‹‹chi vuol far valere un diritto in giudizio
deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento››.
L’articolo nella prima parte fa riferimento alla posizione
dell’attore mentre al convenuto (art. 2697, co. 2) tocca la prova
dell’eccezione, ossia dei fatti modificativi, impeditivi, estintivi,
rispetto a quelli addotti dall’attore. Destinatari di questa regola di
giudizio sono, dunque, attore e convenuto. I fatti che rientrano nel
thema probandum sono i fatti controversi, i fatti la cui esistenza non è
pacifica in giudizio
6
.
La valutazione del giudice di tali fatti avviene nella fase
istruttoria o di istruzione della causa. Tale momento costituisce una
fase insopprimibile ed essenziale di ogni processo, e, anche nel
4
MICHELI G., L’onere della prova, (Milano 1942), 4 ss
5
CHIOVENDA G., Principi di diritto processuale civile
4
, (Napoli 1966), 809
6
BALENA G., Elementi di diritto processuale civile, vol. II, (Bari 2007), 94
4
Necessitas probandi
procedimento civile detto privato per i Romani, nel quale l’impulso è
dato dal privato e dove il privato si assume normalmente l’iniziativa
dei vari atti processuali
7
, non manca.
Lo stesso concetto dell’onere della prova non era ignoto ai
Romani, l’individuazione della necessitas probandi (la locuzione si
trova in un passo del giurista Marciano, D. 22,3,1:…quia semper
necessitas probandi incumbit illi qui agit) in capo a ciascuno dei
litiganti doveva essere, anzi, un problema complesso, se non altro in
relazione alla molteplicità di forme che la tutela giurisdizionale ha
assunto nell’evolversi della storia delle istituzioni romane.
Cercheremo di tracciarne l’evoluzione partendo dalle origini, da
come questo onere era disciplinato nel processo arcaico, fino a
giungere agli interventi di Giustiniano, soffermandoci sui modelli
processuali che Roma ha conosciuto, domandandoci se sia esistito un
principio di onus probandi naturale e valido in ogni tempo o la
soluzione del problema era collegata a un dato ordinamento, e dunque
si era trattato di un fenomeno mutevole e legato al contesto normativo
di un preciso momento storico.
Per rispondere a tale interrogativo, esamineremo le fonti a
disposizione (che hanno diviso la dottrina) concernenti l’onus
probandi indicando le interpretazioni più autorevoli, ma non ci
limiteremo a questo, non ci fermeremo alla fase istruttoria del
processo, analizzeremo anche l’esito del giudizio, i caratteri principali
del non liquet e l’eventuale responsabilità del giudice per litem suam
facere, e ancora, indicheremo le principali differenze intercorse tra i
7
BRASIELLO U., Istruzione del processo (diritto romano), in ED. 23, (Milano 1973), 131.
5
Necessitas probandi
vari tipi di processo e come questi mutamenti (anche di carattere
storico-sociale) hanno influenzato la regolamentazione dell’onere
della prova, infine analizzeremo le conseguenze delle sentenze
pronunciate sulla base di prove false e spenderemo qualche cenno
all’esperienza criminale.
6
Necessitas probandi
1. LE ORIGINI DELL’ONERE DELLA PROVA
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO
AL PROCESSO PER LEGIS ACTIONES
1.1 IL PROBLEMA PROBATORIO NEL PROCESSO ARCAICO. CENNI
Senza dubbio il problema dell’onere della prova nel processo
romano arcaico è strettamente collegato al problema della concezione
generale della procedura romana primitiva, di cui non è ancora chiara
la struttura. Basti pensare che era previsto l’intervento dell’autorità
divina per la risoluzione della controversia.
Le poche fonti relative al regime probatorio ed alcune notizie
pervenuteci per il tramite di fonti letterarie ci lascia pensare a processi
simili a sfide e ci fa avanzare l’ipotesi che prima il rito si svolgesse
dinanzi ad un unico magistrato fino al suo esito
8
.
Il magistrato avrebbe pronunciato la sentenza sulla base, per
alcuni, di criteri non razionali infatti si ritiene che la sentenza sarebbe
stata data in seguito ad un’ordalia (ovvero “giudizio di Dio”,
cosiddetta in età medievale). Non dobbiamo però pensare ad un duello
giudiziario perché la decisione sarebbe stata a favore dell’una o
dell’altra parte ricorrendo ad un espediente “magico-sacrale” come il
risultato dell’interpretazione del volo degli uccelli (di competenza
8
MARRONE M., Istituzioni diDiritto Romano ius-fonti-processo
2
, (Palermo 1994) 83 ss
7
Necessitas probandi
degli auguri) o dell’esame dei visceri di animali (di competenza degli
aruspici)
9
come notiamo la decisione era presa non da un privato ma da
un sacerdote
10
.
La terzietà del giudice è una conquista del processo romano per
legis actiones perché egli non va più alla ricerca di una verità assoluta
(proveniente da prove soprannaturali) ma di una opinione umana
formatasi su prove razionali.
Prima di analizzare l’aspetto probatorio del processo per legis
actiones è opportuno definirne, almeno negli aspetti generali, la sua
struttura, le sue procedure giurisdizionali, all’uopo di inquadrarne in
maniera più esaustiva l’attività probatoria.
1.2 INTRODUZIONE AL PROCESSO PER LEGIS ACTIONES
Le procedure per legis actiones (con ricorso alle azioni di legge)
furono quelle originarie del ius privatorum romano.
Le origini di queste actiones (soprattutto la legis actio
sacramenti e la manus iniecto) sono molto antiche e si riconnettono
alla pratica di autodifesa formatesi nell’originario ius Quiritium.
Tuttavia solo le leggi delle XII tavole, per esaudire una delle più
pressanti istanze della plebe, si preoccuparono di tradurre e in parte di
trasformare le antiche forme di autodifesa e le varie pratiche
procedurali derivatene in organici e ben determinati procedimenti
9
Basti pensare che gli auspicia, insieme agli auguria, erano nella società romana, i segni
attraverso i quali si riteneva che si manifestasse la volontà degli dei; a quest’ultima veniva
adeguata la vita sociale e in base ad essa si assumevano le decisioni più importanti.
10
MARRONE M., Istituzioni diDiritto Romano ius-fonti-processo
2
, (Palermo 1994)
8
Necessitas probandi
giurisdizionali che leggi successive dell’arcaico ius legititum vetus e
del preclassico ius legititum novum perfezionarono ed arricchirono
11
.
Ciò fa pensare che le legis actiones erano così definite sia
perché furono introdotte dalla legge sia perché erano state create sulla
base delle parole usate dalle leggi, parole che dovevano essere
rispettate alla lettera, pena l’improponibilità dell’azione. Proprio
l’eccessivo formalismo era una peculiarità del processo, si dovevano
pronunciare i certa verba e compiere i gesti stabiliti
12
.
Le notizie, su questo primo processo privato fruibile dai cives
romani per tutta l’età arcaica, erano molto esigue fino al 1816 anno in
cui venne alla luce il manoscritto veronese delle Istituzioni di Gaio.
Nel libro IV di quest’opera è trattato il processo per legis actiones ed il
giurista ne descrive le linee essenziali di svolgimento
13
: si agiva
‹‹lege››, ci dice Gaio, in cinque modi: per sacramentum, iudicis
postulatio, condictio, manus iniectio, pignoris capio
14
.
Questa elencazione non è in ordine cronologico, come lo stesso
giurista chiarirà, ma in base alla natura delle procedure: le prime tre
erano di accertamento, le ultime due di esecuzione
15
.
Il processo delle legis actiones, come processo di cognizione,
era diviso in due fasi, una fase in iure davanti al magistrato, ed una
fase apud iudicem davanti al giudice privato. Riassumendo brevemente
queste due fasi, cercando di evidenziarne i tratti essenziali e
11
GUARINO A., Diritto privato romano
12
, (Napoli 2001), 168ss
12
Come esempio dell’eccessivo formalismo delle legis actiones
Gaio (Gai. 4,11) ricorda il caso del tale che, avendo agito per il taglio delle viti (de vitibus succisis)
perse il giudizio in quanto per la legge delle XII tavole chi aveva agito, parlava di alberi (de
arboribus succisis) e quindi egli avrebbe dovuto adoperare la parola albero.
13
MARRONE M. Istituzioni di diritto romano ius-fonti-processo
2
, (Palermo 1994)
14
(Gai. 4,12) ‹‹lege autem agebatur odus quinque:sacramento,iudicis postulationem…››
15
GIUFFRE’ V., Diritto dei privati nell’esperienza dei romani, (Napoli 2002)
9
Necessitas probandi
concentrarci così sul problema probatorio, dobbiamo dire che la prima
fase aveva lo scopo di fissare con certezza e precisione i termini della
controversia e richiedeva la presenza di entrambe le parti: era onere
dell’attore condurre dinanzi al magistrato la controparte (usando
anche la forza); davanti al magistrato l’attore affermava solennemente
il suo diritto, tale fase è denominata in ius vocatio. L’elemento
essenziale della fase in iure era lo scambio tra le parti di solenni
dichiarazioni, ovviamente, tra loro incompatibili che prendeva il nome
di litis contestatio. Tali dichiarazioni erano pronunciate davanti a
testimoni , esplicitamente richiesti della loro presenza.
Questa litis contestatio aveva un duplice fine: determinava
l’oggetto del processo e impegnava le parti alla soluzione della lite
mediante sentenza
16
. Se mancava la contestazione del convenuto si
attuava la confessio in iure, il processo si arrestava e l’affermazione
dell’attore (cd addictio) era confermata dal magistrato. Dopo che la lite
fosse “solennemente instaurata” il magistrato rinviava le parti ad un
iudex o arbiter, il quale avrebbe esaminato, nella fase apud iudicem, i
termini concreti della controversia prestando particolare attenzione alle
prove addotte o contestate dalle parti
17
.
16
Nel processo per formulas, la fase in iure consisteva nella lettura da parte dell’attore del testo
della formula. Nella cognitio extraordinem la litis contestatio aveva luogo con la costituzione in
giudizio.
17
GUARINO A., Diritto privato romano
12
, ( Napoli 2001), 169 ss
10
Necessitas probandi
1.3 LA “PROVA” NELLA PROCEDURA PER LEGIS ACTIONES
Esaminando il problema dell’onere della prova nel procedimento
per legis actiones occorre citare Bethmann – Hollweg
18
. Lo studioso
tedesco sostiene che era massima generale ed antica dei giudici di
assolvere il convenuto quando mancava qualunque prova,
argomentando la loro tesi su un’orazione di Catone riferita da Gellio
nelle Noctes Atticae:
Gell. XIV, 14. 2. 26.
Verba ex oratione M. Catonis pro L. Turio contra Cn.
Gellium haec sunt: Atque ego a maioribus sic accepi. si quis quid
alter ab altero peterent, si ambo pares essent, sive boni sive mali
essent, quod duo res gessissent uti testes non interessent illi unde
petitur, ei potius credendum esse. nunc si sponsionem fecisset
Gellius cum Turio: “ni vir melior esset Gellius quam Turius”,
nemo opinor tam insanus esset, qui iudicaret meliorem esse
Gellium quam Turium. si non melior Gellius est Turio, potius
oportet credi unde petitur.
La massima actore non probante, reus absolvitur richiamata da
Catone si presume fosse seguita nella procedura per legis actiones:
difatti Catone morì nel 605 a.C. e quindi probabilmente le sue orazioni
sono anteriori alla procedura formulare.
18
M.A.BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess d. Gemein. Rechts (Bonn 1865), 45 ss
11
Necessitas probandi
Per il De Sarlo
19
, verosimilmente, la legis actio in occasione della
quale Catone richiama la massima sottoposta alla nostra analisi è una
“legis actio sacramenti in personam” e ciò si deduce dalla frase si
quis quid alter ab altero peterent.
Catone invoca il principio tramandato dei maiores per il risolvere
il problema della distribuzione dell’onere della prova. Difatti occorre
domandarsi, di fronte ad una determinata fattispecie processuale, su
quale delle parti incomba l’onere della prova in relazione ad un certo
fatto, ciò equivale a domandarsi su quale parte graverà il rischio della
mancata dimostrazione di quanto sostiene.
Analizzando, però, il nostro caso, occorre precisare che Catone
richiama il principio applicato quando nessuna delle parti potesse
provare la propria tesi (duo res gessissent uti testes non interessent), in
questo caso il giudice a chi doveva credere? Nel testo citato si fa
riferimento all’apprezzamento da parte dei giudici della personalità
morale e della credibilità dei due litiganti (si ambo pares essent, sive
boni sive mali essent).
Questo apprezzamento è un esempio caratteristico del sistema di
libero convincimento del giudice infatti diviene decisivo in mancanza
di prove.
Nel caso in cui alla mancanza di prove si aggiunge l’impossibilità
di tale apprezzamento di illuminare il giudice perché nessuno dei due
contendenti ha una fisionomia morale migliore dell’altro, subentra il
principio:
Gell. 14. 2. 26: illi unde petitur, ei potius credendum esse.
19
DE SARLO F., ‹‹Ei incumbit probatio qui dicit, no qui negat››, in AG 114, (1935), 188 ss.
12
Necessitas probandi
Quindi nel caso riportato, si applicherà questo principio
deducendo che sarà ille qui petit che subisce le conseguenze
svantaggiose della mancata dimostrazione di quanto sostiene. Poiché
nella legis actio sacramento in personam abbiamo l’attore che afferma
un certo credito e il convenuto che nega il debito corrispondente il
principio richiamato da Catone addossa l’onus probandi alla parte che
afferma. Questa circostanza a detta del De Sarlo
20
, non costituirebbe
un principio generale, ma una regola empirica di buon senso ed
opportunità. Anche l’Arangio Ruiz, nel suo testo di Istituzioni di
diritto romano
21
ponendo l’accento sulla natura di arbitro, propria del
giudice privato, e sull’agilità del procedimento apud iudicem,
conclude che è impossibile ipotizzare che il principio enunciato da
Catone abbia avuto i caratteri di una prescrizione legale.
In realtà, dall’esame della testimonianza di Gellio, pare potersi
dedurre un peculiare contrasto tra la libertà del giudice nell’esaminare
le prove in fase decisoria (dato che è in riferimento a tale momento del
processo che si pone il problema della valutazione della prova assunta
in iure) e il formalismo esasperato della fase introduttiva. Quindi si
deve pensare che al giudice privato veniva riconosciuta un’ampia
discrezionalità sia nelle valutazioni delle prove addotte dalle parti, sia
della loro qualità sociali e morali.
Una domanda sorge spontanea: si può parlare di una vera e
propria “prova morale” (che “convinceva” il giudice e lo indirizzava
verso una decisione seppur in via non esclusiva ma almeno
sussidiaria)? Per valutare più soddisfacentemente questa ipotesi
20
DE SARLO F., ‹‹Ei incumbit probatio qui dicit, no qui negat ››, in AG 114, (1935), 188 ss
21
ARANGIO-RUIZ V., Istituzioni di diritto romano
13
, ( Napoli 1957), 72
13
Necessitas probandi
occorre citare un’orazione di Cicerone pro Fonteio
22
la quale
conferma che la condotta di vita dei litiganti ha un suo rilievo nel
processo. In particolare in questa orazione si mette in evidenza il ruolo
dei testimoni, la cui attendibilità dipende dalla loro moralità. Ciò è
confermato in Cic. pro Fonteio 14. 32:
An dignitas testium? potestis igitur ignotos notis,
iniquos aequis, alienigenas domesticis, cupidos moderatis,
mercenarios gratuitis, pios religiosis, inimicissimos huic
imperio ac nomini bonis ac fidelibus et sociis et civibus
anteferre?
Cicerone ci dà un'immagine del tutto negativa dei Galli.
Sicuramente ne accentuò i toni per il ruolo di difensore di Fonteio che
aveva assunto al processo. Durante questa orazione Cicerone mira alla
distruzione di Induziomaro, il principale accusatore, che ha deposto in
tribunale con faziosità (...tam cupide tam temere dixisse...) e di tutti i
Galli in generale, massa brutale di barbari (...isti immani atque
intolerandae barbariae...), privi del senso del diritto e della lealtà alla
parola data (periuria), privi perfino di un linguaggio maturo e
22
La Pro Fonteio è un'orazione scritta da Cicerone nel 69 a.C. in difesa di Marco Fonteio,
governatore dal 76 al 74 della Gallia Narbonese, accusato di concussione da una delegazione di
Galli, presenti al processo e guidati da Induziomaro. Fonteio era accusato di avere commesso in
Gallia illegalità di varia natura ai danni della popolazione che avrebbe sfruttato con rara esosità.
Della difesa di Cicerone ci è rimasta solo una parte dell'actio secunda. Cicerone nega la fondatezza
delle accuse, respingendo la credibilità dei testi a carico, definiti falsi e infidi. Cicerone difende
Fonteio; le città di Narbone e Marsiglia, oltre a numerosi cittadini romani, avevano deposto in suo
favore. Quindi Fonteio, noto per l'integrità personale, poteva essere ritenuto un governatore esoso,
ma entro i limiti dello sfruttamento legale che caratterizzava il rapporto tra Roma e le province.
14