Pochi sono gli studi critici sull’opera dei cartellonisti cinematografici: eppure erano
capaci di fondere arte e industria, di asservire i committenti mantenendo ciononostante
un proprio stile riconoscibile. E’ anche poco considerato il potenziale sociologico delle
illustrazioni pubblicitarie cinematografiche: esse sono, infatti, in grado di dire molto sul
sistema ideologico e mitologico del cinema e del contesto sociale nel quale vengono
distribuite. Se per loro natura sono nate per attirare il pubblico nelle sale, è ovvio che
esse vengano costruite intorno ai desideri e alla mentalità degli spettatori.
Il ricordo di Antonio Pietrangeli ha subito lo stesso destino. Apprezzato in vita come
critico prima e come regista poi, autore di una filmografia internamente coerente
(incentrata com’è sull’analisi psicologica al femminile), originale proprio per la sua
scelta di concentrarsi sulle donne in un’epoca, quella della commedia all’italiana, che
poco spazio lasciava al gentil sesso, regista dalle idee formali innovative, dopo la sua
precoce morte, avvenuta nel 1968 all’età di quarantanove anni, Antonio Pietrangeli è
stato completamente rimosso, soppiantato nel novero dei “registi della commedia
all’italiana” da autori di più lunga vita e filmografia. Solo alcune sue opere sono
ricordate, ma la sua personale identità di regista è stata seppellita poco dopo il suo
corpo. Pietrangeli non è stato neanche toccato dalla sorte spesso destinata alle carriere
bruscamente interrotte, la mitizzazione.
Questa svalutazione posteriore, come quella occorsa al ricordo dell’arte dei cartellonisti,
è totalmente immeritata: Pietrangeli ha saputo ritrarre, con una prontezza che era quasi
premonizione, il difficile cammino di evoluzione e di emancipazione delle donne, dalla
Ricostruzione al Miracolo Economico. La sua opera assume anche valore nell’analisi
del cammino tra neorealismo (propugnato per anni come critico e avvicinato con la sua
prima opera, Il sole negli occhi) e commedia all’Italiana (cui Pietrangeli ha dovuto
adeguarsi per non perdere il contatto con il grande pubblico, mostrando comunque come
anche la commedia di costume potesse continuare a essere specchio della società, quel
neo-neorealismo di cui spesso si parla).
Queste due “dimenticanze” si intrecciano nell’arco temporale coperto dall’attività
registica di Antonio Pietrangeli: è un periodo di enormi trasformazioni per l’universo
femminile, impetuose nell’intenzione, molto più lente nel riconoscimento sociale e
6
legislativo. Ma qualcosa, nelle donne, è cambiato per sempre. Pietrangeli lo riconosce
con estrema precisione e lo riproduce sulla celluloide. L’opera dei cartellonisti, invece,
deve adeguarsi ad una società maschilista che questa trasformazione ancora non l’ha
riconosciuta, o preferisce non farlo. Analizzare le discrepanze e le similitudini tra queste
due opere, filmografica e pubblicitaria, alla luce di un contesto storico in impetuosa
evoluzione sarà l’obiettivo di questa tesi.
Ovviamente, trattandosi di “dimenticanze”, rintracciare materiali di base e studi critici
non è stato semplice.
L’unico modo per reperire materiali pubblicitari attendibili è, infatti, affidarsi alle
raccolte dei collezionisti. A questo proposito, è per me un piacere ringraziare
sentitamente Maurizio Baroni, collezionista di materiali pubblicitari cinematografici. La
pubblicazione della sua collezione è stata veramente indispensabile alla realizzazione di
questa tesi e il suo aiuto in prima persona è stato gentile e preciso, quanto insostituibile.
Anche le pellicole di Antonio Pietrangeli sono di difficile reperibilità: fortunatamente,
alcune biblioteche conservano registrazioni televisive dei film del regista, anche in
considerazione del fatto che raramente questi materiali sono stati digitalizzati e
commercializzati.
La tesi sarà strutturata nel modo seguente.
Il primo capitolo fornirà un contesto storico-sociologico dell’Italia nel periodo che
intercorre tra il 1945 e il 1970, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al termine di
quella impetuosa ripresa dell’economia italiana che proprio per la sua eccezionalità
viene denominata Miracolo Economico. L’analisi verterà soprattutto sulle
trasformazioni che ha subito il ruolo e la concezione dell’universo femminile in questa
società in profonda evoluzione. Verrà inoltre fornito un quadro d’analisi volto ad
identificare i cambiamenti nella rappresentazione della corporeità femminile nella
cartellonistica di questo periodo e, considerata la scarsità di informazioni reperibili su
questo argomento, un breve excursus sulle relazioni che intercorrono tra questa arte e il
pubblico.
Il secondo capitolo presenterà la figura di Antonio Pietrangeli, con una bio-filmografia
approfondita e un profilo delle caratteristiche salienti della sua opera.
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A seguito di queste premesse fondamentali, nel terzo capitolo verranno presentate le
opere di Antonio Pietrangeli. Dopo la sinossi, verrà proposta un’analisi dei contenuti
della pellicola, concentrando maggiormente l’attenzione sul ruolo delle figure femminili
in esse. Seguirà un’indagine dei materiali reperiti per ogni film, in modo da osservarne
la relazione col contenuto della pellicola, il tipo di rappresentazione della corporeità
femminile e, più in generale, l’evoluzione delle strategie pubblicitarie cinematografiche.
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CAPITOLO 1 - Le donne nella
società italiana e nell’illustrazione
pubblicitaria per il cinema, dalla
Ricostruzione al Miracolo
Economico
1.1 Le donne, sociologicamente parlando
1.1.1 L’ideologia tradizionale e fascista: la donna “regina della casa e della
maternità”
Pier Paolo Pasolini, negli anni Sessanta, commenta con rammarico l’impetuoso
cambiamento che le donne hanno voluto e affrontato a partire dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale: «E’ vero che per secoli la donna è stata tenuta esclusa dalla vita
civile, dalle professioni, dalla politica. Ma al tempo stesso ha goduto tutti i privilegi che
l’amore dell’uomo le dava: ha vissuto l’esperienza straordinaria di essere serva e regina,
schiava e angelo. La schiavitù non è una situazione peggiore della libertà: può anzi
essere meravigliosa»
1
.
Il fascismo infatti, specialmente agli inizi, mutua quella concezione della donna che era
stata propria della società italiana per secoli: la donna è una creatura indifesa e inferiore,
destinata a passare da un tutore all’altro, prima sotto la protezione paterna e poi sotto
quella maritale. Padri e mariti sono tenuti a indirizzare, più o meno gentilmente, le loro
figlie e mogli verso le scelte giuste, cosa che le donne non sono in grado di fare da sole.
Loro unica capacità (e quindi anche unica possibilità) è quella di perpetuare la
generazione, mettendo al mondo i figli che Dio avrebbe mandato loro (contraccezione e
M. BONESCHI, Santa pazienza. La storia delle donne italiane dal dopoguerra a oggi, Mondadori,
Milano 1998, p. 3.
9
1
aborto, almeno alla luce del sole, non sono assolutamente contemplati
2
) e allevarli. Il
fascismo insiste molto sull’importanza dell’italica maternità: compito sociale primo di
ogni donna è donare alla Patria piccoli italiani e piccole italiane. Nel giorno di Natale
del 1933 Benito Mussolini proclama, infatti, il «Giorno della madre e del bambino»;
inoltre, alle madri che hanno messo al mondo più di quattordici figli è concesso un
incontro col Duce in persona e le famiglie numerose godono di ampi vantaggi e
sovvenzioni economiche. Anche la Chiesa concorda: nel 1930 Pio XI, nella sua
enciclica Casti Connubii, giudica riprovevole la contraccezione, l’aborto, il sesso senza
fini procreativi, e il lavoro femminile.
Il posto di una donna è, quindi, in casa e il suo valore è misurato in relazione alla sua
capacità materna: una buona moglie deve essere in grado di mettere al mondo quanti più
figli possibili, meglio se maschi. La differenza di concezione tra sessi è già evidente al
momento della nascita. L’auspicio «auguri e figli maschi» è in uso, come tradizione,
ancora oggi ma, fino a prima del secondo conflitto mondiale, più che un augurio era uno
speranzoso imperativo: un maschio avrebbe perpetuato il cognome paterno e avrebbe
ereditato il patrimonio o, nel caso di una famiglia contadina, sarebbe stato in grado di
aiutare fisicamente ed economicamente la famiglia, mentre una femmina sarebbe stata
solo una bocca in più da sfamare, fino al giorno del suo auspicabile matrimonio. Sin
dalla primissima infanzia nelle bambine viene inculcata l’idea che le femmine siano
deboli, indifese, incomplete e per questo bisognose di un uomo che le protegga, mentre i
maschi sono forti, un’ancora di sicurezza. Il concetto è chiaro: l’esistenza di una donna
dipende dalla vicinanza di un uomo.
Anche in età prescolare, il maschio viene educato soprattutto a comandare e la femmina
a obbedire. I giochi abitualmente regalati ai bambini sono divertimenti di concetto che li
abituino al loro ruolo predominante (i soldatini, le costruzioni, il trenino...), alle
bambine tutt’al più si regala una bambola coi suoi vestitini e la sua casetta. Il messaggio
è di immediata comprensione: il maschio aspirerà a diventare comandante, architetto o
quant’altro, la bambina può desiderare solo di essere una brava padrona di casa e una
brava mammina. Questa differenza si rispecchia anche nell’abbigliamento: se le
2
Il Codice Penale del 1932, negli articoli dal 546 al 551 che riguardano la difesa della stirpe, classifica
l’aborto come «reato contro la sanità della stirpe» stabilendo che «la donna che si procura l’aborto è
punita con la reclusione da uno a quattro anni» (se però l’interruzione di gravidanza è praticata per salvare
l’onore, è prevista una riduzione che va da un terzo a metà della pena).
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femmine sono già poco gradite, l’unica soddisfazione che danno alla madre è quella di
poterle abbigliare come bambole. I vestitini da bambola e le raccomandazioni materne
limitano i movimenti delle bambine, che sono sempre invitate a “comportarsi bene”. In
questo modo le femmine imparano fin dalla culla le qualità che la società pretende da
loro: essere quiete ed essere belle, per accalappiare così a tempo debito un buon marito.
Per questa ragione per anni l’istruzione è stata prerogativa quasi esclusivamente
maschile: che senso ha istruire una bambina, il cui unico scopo nella vita sarà trovare un
marito rispettabile? A cosa le servirebbe una cultura? Al massimo può imparare a
svolgere compiti che ne aumenteranno il potenziale matrimoniale: il cucito, l’economia
domestica, la cucina. Ma l’istruzione di ogni altro genere è caldamente sconsigliata:
quale marito vorrebbe a fianco una donna troppo sapiente? A ragione di ciò, fino al
1962 (con l’istituzione della scuola media unica, anno in cui l’istruzione diventa
obbligatoria fino a quattordici anni) maschi e femmine a scuola sono rigidamente
separati: questa segregazione permette di mettere in pratica due tipi di formazione
completamente differenti. In realtà, la disapprovazione rivolta all’istruzione femminile
ha radici ben più profonde: meno le donne conoscono, meno pericolose sono, e perciò
fin dall’infanzia viene scoraggiato ogni tipo di esperienza.
Gli unici compiti della donna consistono, quindi, nel trovare un marito prima e nel
mettere al mondo dei figli poi: gli unici ruoli approvati dalla società sono quelli di
moglie e madre. Le donne sono socialmente accettate solo se al fianco di un uomo, il
padre, il marito, il figlio: devono essere sempre accompagnate dalla figura maschile di
riferimento in ogni ambito sociale, se non vogliono che la loro reputazione ne esca
danneggiata. La donna è infatti debole e fatica a difendersi, mentre l’uomo ha
fisiologicamente degli impulsi sessuali irrinunciabili: quelli del marito vanno
prontamente soddisfatti, ma la femmina deve assolutamente evitare di provocare negli
estranei il risveglio di questi istinti.
Conseguentemente a ciò, per le donne il lavoro è sconsigliato, anzi disapprovato: il loro
ruolo è nella casa coniugale dove, secondo Pasolini, esse regnano. La realtà è molto
diversa: il loro ruolo è perlopiù quello di schiave, a servizio dei genitori prima, del
marito, dei figli e degli anziani di famiglia poi. Assoggettata a tutti, su chi regna la
“regina della casa”? Su nessuno o al limite, quando la famiglia se lo può permettere,
sulla servetta o cameriera che dir si voglia, una donna gerarchicamente ancora più in
11
basso di lei (la figura della servetta, estremamente diffusa fino agli anni Sessanta, e dei
suoi rapporti con i padroni è stata puntualmente ritratta da Antonio Pietrangeli nel suo
primo film, Il sole negli occhi).
1.1.2 Le donne in guerra
Quando la guerra sta per scoppiare, le cose iniziano però a cambiare: già nel 1936 Maria
Castellani, animatrice dell’Associazione nazionale fascista artiste e letterate, caldeggia
l’ingresso femminile nelle professioni, nelle fabbriche e negli uffici, allo scopo di
lasciare gli uomini liberi e pronti alla chiamata alle armi. Era già accaduto durante il
primo conflitto mondiale e Benito Mussolini non esita a cambiare velocemente rotta,
invitando le donne alla mobilitazione: infatti, cinque giorni prima della dichiarazione di
guerra, molto opportunamente, il governo fascista emana un decreto che permette
l’assunzione di personale femminile nella pubblica amministrazione.
Con l’Italia virile, il 10 giugno 1940 anche le donne entrano in guerra. Alcune vanno al
fronte come gli uomini, ricoprendo l’essenziale ruolo di crocerossine o di ausiliarie.
Altre si trovano a dover tamponare l’emorragia di forza lavoro nelle fabbriche e negli
uffici pubblici: le donne della guerra svolgono ogni tipo di mansione. Ma lo stesso
destino belligerante tocca anche a quelle che sono rimaste a casa con i figli, come vuole
la tradizione: la Seconda Guerra Mondiale, a differenza della guerra del ‘15-‘18
combattuta in trincea, entra in tutte le case con i raid aerei e i militari per le strade. Le
donne sono rimaste sole e si trovano a dover nutrire i figli con ogni escamotage, ad
educarli, a farli sopravvivere ai bombardamenti.
Durante gli anni del conflitto, insomma, le donne godono di una libertà mai
sperimentata prima: escono da sole, sono le uniche responsabili dei figli, lavorano,
mettendo sempre e comunque alla prova la loro furbizia, la loro capacità di arrangiarsi
per sopravvivere. La realtà è che, come sostiene Marta Boneschi, «nel momento del
bisogno, la patria maschia e combattente non ha bisogno di angeli né di regine. Caso
mai di bestie da soma, certamente di persone forti e responsabili»
3
.
Il governo fascista ha semplicemente osservato che, nell’emergenza, torna utile anche il
sesso debole. Quando la potenza fascista ormai vacilla, infatti, la Repubblica di Salò
M. BONESCHI, Santa pazienza. La storia delle donne italiane dal dopoguerra a oggi, Mondadori,
Milano 1998, p. 5.
12
3
apre gli arruolamenti anche alle donne (il Servizio ausiliario femminile conterà ben
6000 arruolate).
Anche sull’altro fronte, le donne non restano certo con le mani in mano: nascondono
nelle loro case i partigiani, li nutrono, addirittura a volte combattono in prima linea. Le
donne della Resistenza organizzano perfino un loro particolare esercito: nell’ottobre del
1943 nascono, infatti, i Gruppi di difesa della donna e di assistenza ai combattenti nella
guerra di liberazione.
1.1.3 La Ricostruzione: la donna, la sua «essenziale funzione» e il lavoro
Seppur spesso non schierate in prima linea, la tragedia della guerra ha toccato
direttamente la vita di ogni donna italiana. Le donne hanno risposto attivamente, non
tirandosi indietro: il loro isolamento nel mondo “dorato” della casa e della maternità si è
rotto, e hanno preso fiducia in loro stesse e nelle proprie capacità. Come è possibile
pensare che, allo scoppiare della pace, dimentichino tutto ciò e tornino al ruolo che era
stato loro per secoli? Non è possibile, ma la società non lo capisce. Le condizioni della
guerra erano state straordinarie, l’attiva partecipazione femminile al mondo del lavoro e
la loro indipendenza un’eccezione, una semplice necessità dettata dagli orrori del
conflitto.
I politici più lungimiranti, però, captano questo nuova consapevolezza femminile e la
volgono a loro favore: l’elettorato femminile è ampio e può essere di grande aiuto.
Nonostante i piccoli progressi compiuti dall’inizio del Novecento, infatti, nel 1945 le
donne non sono ancora diventate cittadini a tutti gli effetti, non possono partecipare alla
vita politica del Paese. Così viene loro riconosciuto, in enorme ritardo rispetto agli altri
paesi europei evoluti, il diritto di voto: il suffragio femminile viene concesso per
decreto del Consiglio dei Ministri l’1 febbraio 1945, quando la guerra non è ancora
ufficialmente conclusa. La prima occasione di voto si ha con le consultazioni
amministrative del marzo-aprile 1946, ma è con il referendum del 2 giugno 1946 che si
dispiega tutta la propaganda indirizzata alle elettrici: i due grandi partiti, DC e PCI,
cercano di aggiudicarsi il consenso della grande e nuova fetta elettorale.
L'Italia diventa una repubblica e nel 1948 entra in vigore la Carta Costituente. Gli
articoli 29 e 30 riconoscono l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi: passare dalla
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teoria alla pratica, però, non sarà così semplice, anche perché giuridicamente questi
principi egalitari convivono con codici e leggi preesistenti, di stampo ottocentesco e
fascista.
L’articolo 37 della Costituzione sancisce per la donna il diritto al lavoro e alla
retribuzione alla pari con l’uomo, sempre considerando, però, che «le condizioni di
lavoro devono consentire all’adempimento della sua essenziale funzione familiare». La
donna resta quindi, prima di tutto, moglie e madre, unica responsabile della famiglia e
della casa: il diritto al lavoro prende così le forme di una cauta concessione al “doppio
lavoro”.
Le donne, però, sono fiduciose: dopo questo primo passo, ne verranno altri. Ma non è
così: Il 18 aprile 1948 si assiste alla vittoria elettorale della Democrazia Cristiana, e la
questione della parità comincia a scendere nella lista delle priorità sociali e civili della
nuova Italia, per lasciare il posto a problemi giudicati più urgenti e importanti.
Le donne sono quindi costrette a ritornare nel ruolo che per anni le aveva imprigionate,
quello di moglie e madre, di schiava e regina. Alcune combattono e si gettano
nell’impegno politico, ma sono solo una minoranza. Anni e anni di educazione non si
cancellano in un batter d’occhio, e molte donne sono ancora pregne di quella mentalità
maschilista che per secoli le ha spinte ai margini della società.
Nonostante ciò, il numero delle donne lavoratrici cresce, ma più che altro per necessità:
gli anni della Ricostruzione sono duri, il Paese è in sfacelo, le vedove e gli orfani
centinaia di migliaia. Le condizioni delle donne sul lavoro sono assolutamente inique: i
diritti sanciti dalla Costituzione stentano a prendere piede nella pratica e la manodopera
femminile è quasi sempre sottopagata, le donne vessate dai colleghi e in difficoltà a
svolgere il loro “doppio lavoro” senza servizi statali che vengano loro in aiuto. Solo nel
1950 la legge 860, infatti, sancisce l’obbligo di concedere alle dipendenti un congedo di
maternità e impedisce il licenziamento in caso di gravidanza.
Nonostante tutto, l’idea diffusa è sempre la stessa: una donna lavora perché, purtroppo,
le disastrose condizioni dell’economia italiana non permettono all’uomo che le sta a
fianco (padre o marito) di mantenerla come dovrebbe.
Malgrado tutto quello che è successo nel decennio precedente, nonostante il ruolo che le
donne hanno avuto nella guerra, la mentalità imperante è sempre la stessa: la donna
deve stare a casa, a svolgere la sua «essenziale funzione», deve essere moglie e madre
14
esemplare. Secondo la società, le donne non solo devono, ma vogliono: la figura di
“regina della casa” è l’unica in grado di appagare la donna fino in fondo, tutto il resto è
solo frutto della necessità a cui le donne, docili e obbedienti, si devono anche questa
volta piegare.
Proprio per questo, il pregiudizio sull’inutilità dell’istruzione femminile fatica a perdere
campo: tuttavia il numero delle scolare, soprattutto dopo gli anni immediatamente
successivi alla fine del conflitto, inizia a crescere. Non cambia però l’idea di fondo: che
una bambina venga istruita, posto che la sua unica aspettativa, il suo unico desiderio, il
punto cardine della sua vita deve rimanere il matrimonio. I contratti di lavoro, infatti,
fino al 9 gennaio 1963 prevedono il diritto di licenziamento immediato delle donne al
momento del matrimonio. Per una ragazza l’unico obiettivo verso cui tendere i propri
sforzi è uno: trovare il marito adatto. L’iter di preparazione del matrimonio (la dote, i
regali, le visite ai parenti, la scelta del vestito, la cerimonia, ecc.), lungo e rigidamente
rituale, serve proprio per rafforzare nelle giovani l’idea che il giorno dello sposalizio sia
il punto culmine della loro vita.
Negli anni della Ricostruzione il valore di una donna è misurato su due metri di misura:
essere una buona moglie e una fattrice eccellente ed essere bella. Proprio in questi anni,
infatti, i concorsi di bellezza hanno un incredibile successo e un enorme seguito di
pubblico: le doti fisiche, nell’Italia del dopoguerra, sembrano costituire un elemento di
democrazia in più e possono spalancare le porte del successo a ragazze di ogni classe
sociale. Resta chiaro, però, che le idee e la personalità di una ragazza non interessano a
nessuno: basta che sia bella e docile, in modo che il marito possa “guidarla” tra le
asperità della vita.
Le donne della Ricostruzione si trovano a vivere pressate da imperativi estremamente
discordanti: non devono conoscere assolutamente il loro corpo e la loro fertilità, ma al
momento buono devono eccellere nell’ambito della procreazione. Essere gravide è un
loro preciso dovere sociale (e legislativo), ma il galateo prescrive che quando lo stato di
gravidanza diventa troppo evidente sia meglio nasconderlo, perché chiaramente legato
alla sessualità. Devono lavorare per sostentare se stesse e la famiglia, ma la società non
le giudica positivamente. Devono responsabilmente far quadrare il bilancio familiare in
un periodo di difficoltà e educare i figli, ma una volta che il marito varca la porta di casa
il capo è lui. Devono far fronte ad una vera e propria crisi economica, ma devono
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accettare e portare a termine ogni gravidanza. Aborto e contraccezione sono ancora
esplicitamente proibiti sia dalla Chiesa che dallo Stato, perché la maternità è un dovere
di ogni donna verso la società.
Ma soprattutto le donne si trovano di fronte ad un conflitto enorme: durante la guerra
hanno messo alla prova le loro capacità e non le hanno trovate così deboli come la
società ha sempre fatto loro credere; hanno sperato veramente in un cambiamento
radicale, ma questo non è avvenuto e loro sono state respinte senza troppi complimenti
alla loro «essenziale funzione». Il ruolo è rimasto invariato, ma è cambiato lo spirito: le
donne hanno assaporato una prima forma di emancipazione e, sebbene siano tornate al
“loro” posto, lo hanno fatto controvoglia e iniziando a domandarsi se non è ora che
cambi qualcosa.
1.1.4 Il Miracolo Economico: la donna “regina dei consumi”
In questa situazione contraddittoria, tra nuova consapevolezza femminile e
conservatorismo maschile, le condizioni economiche iniziano a migliorare: sono gli
anni del Miracolo Economico.
Se durante la Ricostruzione le donne avevano avuto l’esplicito compito di adeguarsi,
mandare avanti la famiglia e, ove necessario, lavorare, ora devono affrontare una nuova
contraddittorietà. Hanno dovuto lavorare per necessità, ma molte hanno iniziato a
gradire, nonostante la fatica e le iniquità, la libertà che dava loro il lavoro: non certo una
libertà economica, ma finalmente le donne sono uscite dalla dorata prigione della casa
che per anni le ha recluse.
Ora l’economia ha bisogno di loro: industrie e fabbriche lavorano a pieno ritmo e sono
ben contente di assumere donne, più economiche dei maschi. Ma la società le critica:
che bisogno c’è per una donna, ora, di lavorare rubando così posti di lavoro ai capi
famiglia? Quelle che scelgono di mantenere la propria mansione vengono tacitamente,
ma anche dichiaratamente, accusate di abdicare alla propria «essenziale funzione» di
mogli e madri. E anche quelle stesse aziende che volentieri le assumono, rinfacciano
loro la necessità di congedi maternità e permessi in caso di malattia dei figli e dei
parenti.
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