esperimento di economia etica; il secondo capitolo descrive nel dettaglio le abilità e
le capacità che i lavoratori (volontari o retribuiti) devono avere o raggiungere in
questo settore ed i fattori che vi determinano la partecipazione; vengono inoltre
messi in luce i criteri che fondano la possibilità di creare un modello analitico di
accumulazione delle competenze.
Il terzo capitolo, che rappresenta la seconda parte della presente tesi di
laurea, è costituito da una ricerca sul campo effettuata su un campione di quattro
realtà differenti del settore del commercio equo solidale italiano. L’indagine è
articolata in interviste (face to face e telefoniche) rivolte direttamente ai responsabili,
fondatori, volontari ed ex lavoratori delle botteghe del mondo; essa è finalizzata alla
ricostruzione delle competenze possedute e dell’autoconsapevolezza del processo di
acquisizione delle stesse da parte delle persone coinvolte.
Lo scopo che mi sono prefissato è quello di descrivere ed analizzare,
nonostante i limiti riscontrati dalla metodologia adottata, il portfolio delle
competenze dei lavoratori dell’unità di analisi, ed adottare quest’ultimo come mezzo
per rendere possibile un riconoscimento internazionalmente legittimato delle
competenze informali e non formali dei volontari nel fair trade.
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PARTE PRIMA
DEFINZIONE DELL’OGGETTO DELLA RICERCA
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CAPITOLO I: IL COMMERCIO EQUO SOLIDALE
1.1 Definizione del commercio equo solidale
Vi sono numerose definizioni di commercio equo solidale. Nicholls (2002),
ad esempio, sostiene che l’obiettivo ultimo del commercio equo solidale è “di
massimizzare il ritorno dei produttori a danno dei consumatori, dentro un accordo di
sviluppo concordato”. L’Unione Europea (1999) indica che “l’obiettivo del
commercio equo solidale è quello di assicurare che i produttori ricevano un prezzo in
grado di riflettere un adeguato ritorno per i loro input di capacità, lavoro, risorse e
quindi una parte dei profitti totali proporzionata agli input impiegati”. In quanto tale,
la Commissione sottolinea che l’obiettivo del commercio equo solidale è quello di
“contribuire a stabilire le condizioni che possono incoraggiare un livello più elevato
di protezione sociale e ambientale nei paesi in via di sviluppo” e che ciò risulta
“particolarmente utile per i produttori di piccole dimensioni che operano in maniera
isolata nelle aree rurali”.
Traidcraft, la maggiore organizzazione del commercio equo solidale nel
Regno Unito, lo definisce come “un approccio alternativo al tradizionale commercio
internazionale. È una cooperazione commerciale che ha lo scopo di realizzare uno
sviluppo sostenibile coinvolgendo produttori esclusi e svantaggiati. Cerca di fare ciò
fornendo migliori condizioni di scambio, accrescendo la consapevolezza e
l’informazione”. Fine, una rete informale di organizzazioni del commercio equo
solidale lo definisce come una associazione commerciale che si basa “sul dialogo,
sulla trasparenza, sul rispetto, che cerca una equità maggiore nel commercio
internazionale. Esso contribuisce a realizzare uno sviluppo sostenibile offrendo
condizioni di scambio migliori e assicura diritti ai produttori e ai lavoratori
emarginati, soprattutto del Sud del mondo”.
L’Associazione europea del commercio equo solidale sostiene che l’intento
strategico sottolineato dal commercio equo solidale è quello di “deliberatamente
lavorare con i produttori e i lavoratori emarginati per aiutarli a passare da una
posizione di vulnerabilità a una di sicurezza e di autonomia economica” a “rendere i
produttori e i lavoratori parti attive interessate delle proprie organizzazioni e quindi a
giocare un ruolo significativo nell’arena globale al fine di realizzare una maggiore
equità negli scambi internazionali”.
Si definisce generalmente equo solidale la gamma di prodotti che arrivano
sul mercato attraverso una filiera produttiva che incorpora specifici elementi di
responsabilità sociale e ambientale (Becchetti, 2006).
Il commercio equo solidale si basa su alcuni principi e linee guida. Esse
sono:
- cooperazione al posto della competizione;
- acquisti effettuati direttamente dai produttori e o dalle associazioni dei
produttori;
- reale democrazia nelle scelte di produzione e dei relativi processi di
produzione nelle associazioni dei produttori;
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- accettazione di un prezzo (fair price) che copre i bisogni essenziali dei
lavoratori e i costi di produzione più un margine di extra profitto (mark up)
da destinare a investimenti sociali;
- la fornitura di un canale di pre-finanziamento per la produzione in alternativa
a quello del mercato del credito informale;
- l’assistenza tecnica e servizi alle esportazioni;
- trasparenza e accordi commerciali di lungo termine.
Il commercio equo solidale si basa sul fatto di “garantire i produttori del
terzo mondo di un migliore trattamento”. Questo significa assicurare prezzi stabili,
che coprono i costi di produzione, insieme a un mark up che le organizzazioni
possono investire in programmi di economia sociale e ambientale condivisi nelle
diverse comunità locali.
L’European Free Trade Association (2002) fa risalire l’origine del
commercio equo solidale alla fine degli anni ’50 e la Pricewaterhouse Coopers
(2001) indica che tale commercio risale al 1960 nei paesi del Nord Europa. Vidal
(2003) sostiene che il commercio equo solidale iniziò in Olanda nel corso degli anni
’60 per aiutare i produttori del Nicaragua. Si creò una nicchia di mercato con un giro
d’affari di circa 500 milioni di dollari annuo, coinvolgente 400 imprese che
importavano e distribuivano prodotti con il marchio del commercio equo solidale.
Mintel (2001), d’altro canto, fa risalire l’inizio del commercio equo solidale al 1970.
La European Fair Trade Association (EFTA) fu fondata nel 1990 da 11
organizzazioni del commercio equo solidale in 9 paesi europei per creare
cooperazione e obiettivi comuni tra i membri dei paesi sviluppati in modo tale da
favorire il commercio equo solidale. Nel 1996, il Fair Trade Federation (FTF) si
affermò come una associazione di produttori, di grossisti e di dettaglianti. Il loro
impegno nel commercio equo solidale si basava sui valori di ciascun paese e sulle
identità culturali sostenute da iniziative ambientali, riconoscimento pubblico,
responsabilità dei consumatori e salari equi. Il Fair Trade Federation (1999)
specificò che le relazioni commerciali si basavano sui benefici reciproci e sul mutuo
rispetto così che i prezzi pagati ai produttori riflettevano ciò che avevano prodotto, il
diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacati o cooperative, ad avere regole per
salvaguardare la salute e la sicurezza sul lavoro, ad applicare le leggi sui salari e a
impiegare le risorse per realizzare uno sviluppo sostenibile senza provocare danni
ambientali.
Qualunque sia la data di inizio del commercio equo solidale si può in ogni
caso osservare che gli accordi commerciali sono cresciuti rapidamente nel corso
degli ultimi anni e che il commercio equo solidale per alcuni prodotti alimentari
copre ampie quote di mercato.
In Europa, i principali prodotti venduti dal commercio equo solidale sono:
caffè, abiti, tessuti, te, cioccolato, frutta secca, miele, zucchero, banane, succhi di
frutta. I prodotti alimentari costituiscono il 60% del commercio equo solidale al
dettaglio. Il caffè, da solo, rappresenta il 50% di tutti gli scambi del commercio equo
solidale pur non raggiungendo la quota del 2% degli scambi del mercato tradizionale.
Ne deriva che i prodotti del commercio equo solidale costituiscono tuttora una quota
limitata degli scambi internazionali anche se stanno continuamente crescendo nei
paesi europei (Pricewaterhouse Coopers, 2001).
Nicholls (2001) sostiene che la crescita dell’entusiasmo dei consumatori per i
prodotti del commercio equo solidale è dovuto all’interazione di numerosi fattori di
natura politica, intellettuale, formativa, informativa. Essi hanno dato origine a un
cambiamento di opinione positivo nei confronti del valore del commercio equo
solidale per realizzare uno sviluppo economico nei diversi paesi del mondo.
L’informazione, il lavoro delle associazioni politiche, dei gruppi religiosi hanno
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portato a mutare le modalità di intervento per alleviare la povertà nel mondo
passando dalla carità a modalità che favoriscano gli scambi internazionali in maniera
equa. I consumatori includono nella loro scelta anche i valori in cui credono. Essi
non sono interessati solo alle caratteristiche intrinseche dei prodotti ma anche ai
processi di produzione. Pricewaterhouse Coopers (2001) sostiene che un sistema di
distribuzione inadeguato è forse il vincolo maggiore per la crescita e la disponibilità
dei prodotti del commercio equo solidale per i consumatori.
1.2 I consumatori dei prodotti del commercio equo
solidale
I consumatori dovrebbero essere in grado di percepire “la differenza” se
comprano prodotti del commercio equo solidale. È una responsabilità sociale nelle
scelte di consumo e di risparmio dei cittadini. Si tratta, in pratica, di un’estensione e
di un perfezionamento della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, e dunque
della democrazia economica, secondo un principio di azione dal basso (Becchetti,
2006). Nicholls (2002) collegò questo al concetto di “self-actualising consume”.
L’etica entra nelle scelte dei consumatori. Essi sono consapevoli di acquistare beni di
qualità, prodotti seguendo delle regole morali. L’azione dei consumatori dovrebbe
favorire lo sviluppo economico dei paesi in via di sviluppo ed attenuare altresì la
disuguaglianza nel mondo.
La letteratura rileva tuttavia che vi sono taluni aspetti tuttora problematici.
Le buone intenzioni dei consumatori non sono sempre correlate con la disponibilità a
pagare un prezzo più alto anche quando i prodotti sono per “environmentally
friendlier” (Carringan e Attalla, 2001). Il National Council of Voluntary
Organisations (NVCO) rilevò che la maggioranza dei giovani intervistati nelle scuole
e nei colleges gradirono un maggior coinvolgimento nei progetti caritativi e a favore
di date comunità anche se solo poco meno di un terzo di fatto ne prese effettivamente
parte (Wright e Heaton, 2006). Un sondaggio del 2002 rilevò che mentre l’83% dei
consumatori intendeva agire eticamente, soltanto il 18% lo faceva solo
occasionalmente. I consumatori maschi e single acquistavano meno delle donne
prodotti del commercio equo solidale, le quali si interessavano di più di problemi
etici e ambientali (Wright e Heaton, 2006). Shaw e Clark (1999) trovarono una
disponibilità generica dei consumatori pur rilevando poi acquisti limitati e
insufficiente perché non preparati alla ricerca dei prodotti del commercio equo
solidale. Dove prezzo e comportamento etico non si conciliano, i consumatori che
danno valore all’etica dovrebbero acquistare un numero limitato di prodotti etici. La
resistenza al prezzo elevato dei prodotti etici poteva essere un contraccolpo alla fine
degli anni ’80 quando i prodotti costavano molto di più dei prodotti tradizionali. C’è
forse bisogno di una maggiore trasparenza e vi è la necessità di spiegare il prezzo più
elevato ai consumatori per i beni prodotti eticamente, come mark up che va a
beneficio delle comunità del terzo mondo.
I consumatori non sanno come il commercio equo solidale agisca
effettivamente sullo sviluppo di un paese. Si è pensato di evidenziare la “storia dei
produttori” sulle confezioni dei prodotti etici. La marca, il logo, è un modo per
differenziare in maniera chiara e trasparente i prodotti, per creare un valore
economico sia per il consumatore sia per i produttori. Ciò però richiede un
consumatore che sappia riconoscere il valore del commercio equo solidale e che non
lo confonda con gli interventi tradizionali di carità. Il consumatore deve
massimizzare la sua utilità includendo nella sua funzione una soddisfazione
altruistica guadagnata con l’acquisto dei prodotti etici.
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