4
linguistici, attraverso la circoscrizione di un oggetto e la messa a punto di un
metodo, ma non dobbiamo perdere di vista le indicazioni dello stesso Saussure
sulle prospettive di una scienza generale dei segni, o semiologia: bisogna
riconoscere nella linguistica saussuriana i presupposti di una insolita vicinanza fra
discorso e realtà, prossimità in cui ciò di cui si parla e come si parla sono messi
contemporaneamente in questione. Ci troveremo allora di fronte a teorie della
società e a metalinguaggi critici difficilmente distinguibili dalla scrittura
cosiddetta letteraria, in una situazione in cui i tradizionali confini fra i generi del
discorso vengono posti fortemente in discussione.
La confusione è solo apparente: in realtà ci stiamo imbattendo in prese di
posizione nel mondo, piuttosto che sul mondo, in testi la cui esistenza vuole già
definirsi come prassi eventualmente politica. Nel momento in cui la scienza che
studia i modi di produzione del senso ha incontrato la riflessione letteraria sul
linguaggio, è divenuto possibile parlare delle parole e delle cose nella coerenza di
uno stesso discorso.
La letteratura già molto tempo prima di Saussure aveva cominciato ad interrogarsi
riflessivamente sul luogo delle proprie enunciazioni; alcune teorie critiche sono al
contrario rimaste ancorate a un concetto ingenuo di ‘reale’ molto tempo dopo
Saussure: Roland Barthes e Jean Baudrillard (ma forse, prima di loro, Maurice
Blanchot) hanno invece fatto della riflessione sul linguaggio un’arma per la critica
radicale della società. Si potrebbe dire, usando il verbo in forma transitiva, che
essi hanno riflettuto il linguaggio, sul mondo.
5
CAPITOLO I
LA FONDAZIONE SAUSSURIANA
1. Lo spazio del linguaggio
La configurazione epistemologica generale che probabilmente soggiace all’intera
questione è descritta da Michel Foucault in modo soddisfacente ne Le parole e le
cose
1
. In questo testo denso e spesso difficile, vagamente profetico e inquietante,
Foucault individua l’a priori delle scienze umane moderne nella crisi della teoria
classica della rappresentazione.
Il linguaggio divenuto oggetto, all’alba di un’epoca moderna la cui soglia è datata
fra il XVIII e il XIX secolo, segna la fine della possibilità di rappresentare il
mondo in un unico discorso classificatorio coerente, e contemporaneamente la
nascita di forme di sapere il cui nucleo si sottrae all’attività conoscitiva
dell’uomo. Esso (così come la vita e il lavoro) si offre nella sua positività allo
sguardo degli uomini, i quali tuttavia proprio per suo tramite apprenderanno la
loro finitudine essenziale; è questo il paradosso costitutivo delle scienze umane:
l’uomo come “allotropo empirico-trascendentale”, fondamento di ogni
conoscenza positiva che gli rivelerà il suo essere radicalmente finito e preso in una
storicità che già da sempre lo precede. Da ciò l’importanza accordata alla
filologia:
Esprimendo i loro pensieri in parole di cui non sono padroni, situandoli in forme
verbali le cui dimensioni storiche sfuggono loro, gli uomini convinti che il loro
discorso si pieghi ai loro intenti, ignorano di sottostare invece alle sue esigenze. Le
disposizioni grammaticali d’una lingua sono l’a priori di ciò che può enunciarvisi…
1
Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, RCS Rizzoli Libri S.p.A., 1978
6
La filologia in quanto analisi di ciò che si dice nel profondo del discorso è divenuta
la forma moderna della critica.
2
Da ciò la nascita di una sensibilità moderna in ambito letterario, col compito di
opporsi alla positività del linguaggio e di recuperare l’essenza della letteratura
attraverso il ricorso all’autoreferenzialità. Foucault ce ne indica il movimento:
Il fatto è che agli inizi del XIX secolo, nel periodo in cui il linguaggio sprofondava
nel suo spessore d’oggetto, e si lasciava, da parte a parte, attraversare da un sapere, il
linguaggio veniva ricostituito altrove, in forma indipendente, di difficile accesso,
ripiegata su se stessa e interamente riferita all’atto puro di scrivere… Sullo sfondo di
tale gioco essenziale, il resto è effetto: la letteratura si distingue sempre più dal
discorso di idee, e si chiude in una intransitività radicale.
3
La condizione di possibilità delle scienze umane, dunque, sta tutta nella
dispersione del linguaggio che segue la caduta del discorso classico, o più
precisamente nel vuoto da questo lasciato: è l’uomo in quanto nozione
epistemologica a costituire una presenza recente tra le figure del nostro sapere.
L’argomentazione di Foucault indica la coscienza epistemologica dell’uomo come
lo spazio in cui ogni nostro pensiero filosofico si volge immediatamente in una
antropologia; e insieme annuncia, in pagine rimaste celebri e molto controverse,
l’imminente scomparsa dell’uomo come evento che renderà possibile un nuovo
pensiero.
Ciò che in questa sede mi interessa di più è però il ruolo attribuito dalla riflessione
foucaultiana alla linguistica, in quanto disciplina capace di contestare lo statuto
privilegiato che le scienze umane si sono attribuite. Queste sono insidiate nei
pressi del loro limite da una teoria pura del linguaggio
perfettamente fondata nell’ordine delle positività esterne all’uomo (suo oggetto
infatti è il linguaggio puro) e che, traversando l’intero spazio delle scienze umane,
perverrebbe al problema della finitudine (infatti solo attraverso il linguaggio e solo
2
Michel Foucault, Le parole e le cose, p.322
3
Michel Foucault, op. cit., p.324
7
in esso il pensiero può pensare: di modo che il linguaggio è in sé una positività che
vale come il fondamentale).
4
Ciò significa considerare le scienze umane un episodio transitorio del nostro
sapere, da situare come tale tra la scomparsa del discorso classico fondato sulla
teoria della rappresentazione e il ritorno al problema dell’essere del linguaggio
quale è stato anticipato da Nietzsche e Mallarmé. Alla luce di ciò, saranno forse
meno enigmatiche le affermazioni di Foucault che situano lo spazio del pensiero
moderno tra la domanda di Nietzsche ‘chi parla?’ e la risposta di Mallarmé ‘il
linguaggio stesso’:
Mentre Nietzsche manteneva fino in fondo l’interrogazione su colui che parla, salvo
in ultima istanza a irrompere in prima persona all’interno di tale domanda per
fondarla su di sé, soggetto parlante e interrogante: Ecce homo, Mallarmé non cessa
di cancellarsi dal proprio linguaggio al punto da non volervi più figurare che a titolo
d’esecutore in una pura cerimonia del Libro in cui il discorso verrebbe a comporsi
da solo.
5
Già fin d’ora possiamo quindi impostare il seguente problema, e tentare una prima
risposta: quale legittimità possono pretendere le analisi della società basate sul
modello linguistico? Concepire la società in termini semiologici è una pura
questione di scelta di metodo, applicazione analogica di un modello?
Probabilmente no, perché se ne potrebbe rintracciare la ragione profonda
nell’episteme che vi soggiace, nel significato particolare che la riflessione sul
linguaggio ha assunto nel pensiero contemporaneo. Tornerò in seguito su questo
punto.
4
Michel Foucault, op. cit., p.407
5
Michel Foucault, op. cit., p.330
8
2. Alcune problematiche strutturaliste
Vorrei adesso gettare un rapido sguardo su un testo, forse meno noto di quello di
Foucault, del critico americano Fredric Jameson: La prigione del linguaggio, la
cui prima pubblicazione (in inglese) risale al 1972
6
. D’impostazione chiaramente
marxista, costituisce un ambizioso tentativo di interpretare globalmente lo
strutturalismo a partire dal suo debito concettuale verso i postulati linguistici
saussuriani.
La prospettiva dell’autore lo induce ad individuare nella separazione preliminare
fra sincronia e diacronia la causa principale della difficoltà strutturalista a rendere
conto dei mutamenti storici, e ad accusare complessivamente gli strutturalisti di
ignorare la realtà storicamente determinata a favore di un modello concettuale
astratto che verrebbe poi proiettato all’esterno fino a ricoprire la realtà stessa. In
altri termini, per Jameson ciò che va perduto nell’ipotesi strutturalista è
essenzialmente il rapporto dialettico fra pensiero e mondo:
Penso che sia assiomatico che una filosofia che non contiene al suo interno una
teoria della sua particolare condizione, che non fa posto a una indispensabile auto-
coscienza insieme all’oggetto di cui si interessa, che non si occupa di una
spiegazione essenziale della sua conoscenza mentre procede nella conoscenza di ciò
che si suppone debba conoscere, sia destinata a finire per disegnare il suo occhio
senza rendersene conto.
7
E poche pagine dopo:
La stessa dispersione ontologica, la stessa frammentarietà distinta ed empirica, si fa
sentire quando tentiamo di stabilire la condizione del referente, del quale la teoria
dei segni afferma l’esistenza, nello stesso momento in cui lo mette fra parentesi. Il
problema è particolarmente cruciale quando solleviamo le questioni di cui si
occupa il marxismo, come il rapporto di sovrastruttura e infrastruttura. [corsivo
mio]
8
6
Fredric Jameson, La prigione del linguaggio, Bologna, Cappelli, 1982
7
Fredric Jameson, La prigione del linguaggio, p.168
8
Fredric Jameson, op. cit., p.171
9
Non si tratta di una posizione particolarmente nuova, visto che affonda le sue
radici in una delle fondamentali lezioni di Marx, tuttavia uno dei meriti di
Jameson consiste nell’aver seguito i vari percorsi dello strutturalismo attraverso i
differenti ambiti di studio dei suoi esponenti più emblematici, e con sempre vigile
attenzione. Ad ogni modo, lo studio di questo testo permette tre cose:
1) Enucleare esattamente quegli aspetti della linguistica saussuriana che
forniranno la possibilità di analizzare la società contemporanea in termini
semiologici.
2) Porre il problema della legittimità e della portata epistemologiche del modello
linguistico.
3) Porre infine lo stesso problema nei termini del classico rapporto fra
infrastruttura e sovrastruttura.
Per quanto riguarda il terzo punto, cercherò di svilupparlo per l’intera lunghezza
del presente lavoro, in quanto praticamente coincide con la questione da cui
questo sorge. Vorrei infatti mostrare come sia Roland Barthes che Jean
Baudrillard abbiano fatto continuamente i conti proprio con la dicotomia
infrastruttura / sovrastruttura, anche per sottrarre le loro teorie a tutta una serie di
critiche scontate.
Per quanto riguarda il secondo punto, ho già cercato di indicare, rifacendomi ad
alcuni passi de Le parole e le cose, che forse riferirsi alla linguistica strutturale in
quanto modello è riduttivo ed eccessivamente semplificante, ragion per cui non
posso concordare con ciò che dice Jameson già nella sua prefazione:
La giustificazione più profonda dell’uso del modello linguistico o della metafora…
consiste nel carattere concreto della vita sociale dei paesi oggi cosiddetti avanzati,
che offre lo spettacolo di un mondo da cui è stata eliminata la natura in quanto tale,
un mondo saturo di messaggi e di informazione, la cui rete intricata di merci si può
10
considerare proprio come il prototipo di un sistema di segni. Perciò c’è una
profonda consonanza fra la linguistica in quanto metodo e quel fantasma
incorporeo e portato a sistema che è oggi la nostra cultura. [corsivo mio]
9
Al contrario di ciò, si potrebbe azzardare l’ipotesi che tale vita sociale e tale
metodo d’analisi siano l’effetto di una profonda appartenenza della questione del
linguaggio alla configurazione epistemologica della nostra cultura. Ciò non
significa elevare la linguistica strutturale (e ancora meno lo strutturalismo tout
court) allo statuto di verità ontologica, quanto piuttosto riproblematizzare il
dualismo che ha visto opporsi, a grandi linee, da un lato la dialettica hegeliano-
marxista e la concezione materialista della storia, dall’altro le avventure della
differenza nietzschiano-heideggeriana fino ad alcuni dei suoi esiti post-
strutturalisti. Per ridurre almeno in parte la vaghezza di quest’ultima
affermazione, passerò subito (brevemente) in rassegna un testo che ha contribuito
non poco a chiarire i termini del problema. Mi riferisco al saggio di Umberto Eco
La struttura assente.
10
Il primo punto dei tre sopra elencati, cioè la ricapitolazione degli elementi della
linguistica saussuriana più utilizzati in chiave socio-semiologica, lo affronterò
invece nel terzo paragrafo di questo stesso capitolo, e la prima parte del libro di
Jameson, intitolata Il modello linguistico, costituirà un diretto punto di
riferimento, ovviamente insieme al Corso di linguistica generale di Ferdinand de
Saussure
11
.
Seguiamo dunque per sommi capi l’argomentazione di Eco. Il titolo del libro
coincide con quello dato ad una delle sue parti, precisamente alla sezione D, che
comprende una riflessione sulle implicazioni filosofiche dello strutturalismo. Per
9
Fredric Jameson, op. cit., pp. 11-12
10
Umberto Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1994
11
Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Editori Laterza, 1992
11
chiarezza, devo premettere che l’autore stesso ha presentato, nell’introduzione alla
prima ristampa in edizione economica, un’autocritica proprio di quella parte del
testo, che sollevò a suo tempo molte discussioni. Leggiamo la sua conclusione:
In particolare, proprio la sezione D, quella che contiene la discussione filosofica sui
fondamenti dello stutturalismo, è quella che, più delle altre, non riscriverei oggi così
come appare, ma è anche quella in cui – credo – intravedevo degli sviluppi futuri
che poi hanno avuto effettivamente luogo…
12
Il filo conduttore dell’argomentazione consiste nel portare alle estreme
conseguenze gli assunti di un certo strutturalismo, in particolare quello di Lévi-
Strauss e di Jacques Lacan, al fine di dimostrare che le concezioni che vedono
nella struttura non un modello operativo, bensì una realtà ontologica,
sfociano necessariamente nell’impossibilità della struttura stessa. Il Codice
dei Codici, la struttura che permetterebbe di rendere definitivamente conto delle
forme invarianti del pensiero, è soltanto un miraggio. Infatti il processo di
reperimento di strutture sempre più generali si trova a dover regredire all’infinito,
a divenire un movimento di risalita senza alcuna possibilità di concludersi:
Se il Codice dei Codici è un termine ultimo che sempre regredisce man mano che
l’indagine pone come trovati i suoi messaggi particolari, le sue apparizioni in cui
esso non si esaurisce, la struttura si proporrà eminentemente come Assenza.
E’ struttura quella che non c’è ancora. Se c’è, se l’ho individuata, ho tra le mani
solo un momento mediano della catena che mi garantisce, al di sotto di questa, una
struttura più elementare e onniesplicativa.
13
Questo significa che ogni strutturalismo che pretenda di vedere nella struttura
qualcosa in più di un modello conoscitivo, di un’ipotesi metodologica, è costretto
a fondarsi su una assenza: precisamente su una Assenza originaria.
Molto giustamente, Eco vi riconosce i tratti dell’ontologia heideggeriana, in cui la
Storia è determinata come storia della Differenza fra Essere ed Ente, ed insieme
come oblio di tale differenza. Di conseguenza, prevede la liquidazione di tale
12
Umberto Eco, La struttura assente, p.II
13
Umberto Eco, op. cit., p.322
12
strutturalismo da parte di riflessioni strettamente coerenti, che egli scorge nei
lavori di Jacques Derrida e di Michel Foucault.
Il nucleo centrale della questione, il problema che pertiene il nostro punto di vista,
è tuttavia costituito dalle conseguenze politiche che Eco ritiene siano implicate
dall’ontologia heideggeriana implicita nello strutturalismo che egli rifiuta. Infatti,
per l’Eco de La struttura assente, una certa concezione della Storia implica la
perdita di senso dell’idea stessa di ricerca, e insieme della prassi
trasformatrice da cui la ricerca è ispirata:
…poiché il discorso psicanalitico in Lacan intende mettere a nudo la struttura
generale della determinazione, si è obbligati a dire cosa le sue conclusioni
comportino per qualsiasi ricerca sull’universo della comunicazione,
dall’antropologia alla linguistica, dall’ascia di un indigeno al cartellone stradale. Ed
ecco cosa comporta: che ogni ricerca, se condotta con rigore, deve darmi sempre e
comunque, al di sotto delle variazioni su cui si esercita, lo stesso risultato… In
conclusione, ogni ricerca si rivelerà fruttuosa nella misura in cui ci dirà quel che
sapevamo già.
14
Non potendo accettare questo esito, Eco si sottrae all’impasse filosofica in cui
avrebbe rischiato di trovarsi uscendo dall’ordine di preoccupazioni proprio
della filosofia stessa. Intento lodevole, se si dimostrasse anche possibile.
La coerenza di queste risposte è tale (e tale era la coerenza del processo che ha
portato lo strutturalismo ontologico a dissolvere ogni possibilità di conoscenza
oggettiva) che non rimarrebbe che accettarle. E tacere.
Ma solo se si decidesse di continuare a muoversi nel giro di deduzioni implicate
dalla domanda di partenza, ponendo la quale si era ancora fuori dal pensiero, e vi ci
si entrava. E la domanda era ‘Chi parla?’…
Poniamo l’ipotesi che possa esistere una domanda più costitutiva, che viene posta
non dall’uomo libero (messo nelle condizioni di poter ‘contemplare’) ma dallo
schiavo, che non può porsela, e che trova più urgente domandarsi, anziché ‘chi
parla?’, ‘chi muore?’ (e di lì muoversi non per far filosofia, ma per costruire una
14
Umberto Eco, op. cit., p.331