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1. La teoria della mente
Introduzione
Quella che noi denominiamo oggi teoria della mente, nata come TOM (Theory Of
Mind), è una teoria semplice e definita non scientifica; con questo termine
intendiamo che si tratta di una teoria che non si basa su assunzioni certe e
matematicamente dimostrabili, come invece possono essere la teorie riguardanti la
fisica, bensì una teoria alla cui base c’è il presupposto che le azioni umane siano
governate da conoscenze, scopi e desideri delle persone.
Questa particolare teoria rappresenta un approccio a quella che è conosciuta come
psicologia intuitiva, nota anche come psicologia del senso comune, proprio perché
tratta della nostra esperienza quotidiana di come le persone pensano e agiscono.
Essa, come vedremo meglio nel terzo capitolo, è una teoria mentalistica, che spiega
i comportamenti umani non come risposte a stimoli o soggetti a condizionamenti
ma semplicemente basandosi sulle strutture psicologiche sottostanti il soggetto,
sulle sue inferenze, conoscendo le credenze, i bisogni e i desideri di ogni singolo
individuo.
Per un bambino acquisire la teoria della mente significa capire che la realtà che lo
circonda è univoca ma che, per svariati motivi, le persone si creano una propria
rappresentazione di essa, diversa per ogni individuo e non sempre veritiera, ma che
influenza comunque continuamente le loro azioni. Il bambino è in grado, quindi, di
sviluppare una visione soggettiva del mondo, distinguendola chiaramente dalla
realtà oggettiva, e di rendersi conto che ognuno di noi possiede una propria
rappresentazione della realtà, che non è una trasposizione fedele di come realmente
essa sia ma è una mediazione basata sulle nostre convinzioni, su come noi pensiamo
che sia.
La nostra esistenza nel mondo presuppone che noi manteniamo una certa condotta
all’interno della società in cui viviamo, condotta che ci viene imposta e scelta in
quanto ritenuta socialmente adeguata alle situazioni che ci troviamo davanti nel
nostro ambiente e che varia da cultura a cultura. Per questo motivo, bisogna tener
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conto non solo delle relazioni che intratteniamo con gli altri ma anche e soprattutto
del modo di pensare delle altre persone con cui abbiamo giornalmente a che fare.
La capacità di comprendere cosa gli altri pensano e desiderano, permettendo a noi
di adeguarci l’uno all’altro, è stata studiata a partire dagli anni ’70 nell’ambito della
cognizione sociale, cioè lo studio di come noi percepiamo ed interferiamo con gli
altri. La maggior parte di queste ricerche ha riguardato da subito il modo in cui la
nostra rappresentazione mentale delle altre persone si sviluppa a partire
dall’infanzia.
Inizialmente furono presi come concetti base della cognizione sociale gli stadi della
teoria piagetiana, che considerano il bambino con una visione completamente
egocentrica dei rapporti interpersonali, almeno fino al settimo anno di vita, senza
essere in grado di figurarsi gli altri come soggetti aventi un proprio punto di vista
diverso dal suo. Grazie all’approfondimento di questi studi, l’idea
dell’egocentrismo di Piaget è stata in un secondo tempo rigettata, in quanto
numerose sperimentazioni su bambini in tenera età hanno dimostrato come già
nell’infanzia il piccolo possegga una certa capacità di comprendere le esigenze
sociali del suo ambiente e riconosca le aspettative e le credenze degli altri come
indipendenti dalle sue.
In seguito, i primi esperimenti che portarono effettivamente gli psicologi a chiedersi
a che età ed in che modo venissero acquisite le conoscenze tali da creare nel
bambino una completa teoria della mente, furono quelli effettuati alla fine degli
anni ’70 da Premack e Woodruff
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sui primati. Alla base dei loro studi vi era
l’ipotesi che, osservando il comportamento degli esseri umani, i primati fossero in
grado di comprendere credenze e desideri sottostanti all’azione, in modo da poterne
capire i meccanismi ed essere in grado di prevedere i comportamenti umani futuri.
Il riscontro positivo della loro tesi fornito dalle osservazioni sugli animali diede vita
ad un forte interesse da parte degli altri psicologi dello sviluppo sull’argomento,
portandoli a chiedersi se anche nelle persone i meccanismi cognitivi di
apprendimento di questi procedimenti fossero gli stessi che valevano per i primati;
le ipotesi formulate su questo tema portarono al formarsi di due scuole di pensiero,
una innatista e una empirista, da cui si svilupparono due tipi di teorie sulla teoria
della mente.
1
Vedi PREMACK D. E WOODRUFF G., Does the chimpanzee have a theory of mind? Behavioral and
Brain Scienses, 1978, 1, pag.515-526.
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Entrambe le teorie considerano lo sviluppo della teoria della mente come prodotto
di agenti innati e interazione con l’ambiente ma quello che cambia è il peso dato ai
due fattori: nel caso delle teorie innatiste viene data maggiore importanza alle
strutture biologiche intrinseche del bambino, nel caso di quelle empiriste quello che
viene considerato essenziale è l’esperienza e gli scambi con l’ambiente circostante.
La maggior parte degli studi condotti riguardo lo sviluppo della teoria delle mente
nei bambini fa comunque parte del filone psicologico riguardante il cognitivismo.
Filiazione del behaviorismo e del comportamentismo, l’approccio cognitivista
ipotizza un’analogia tra il funzionamento della mente umana e quello di un
computer. Questa metafora pone l’uomo come essere in grado di codificare,
elaborare ed immagazzinare informazioni
2
. È stato così possibile mettere in luce il
fatto che il cervello di un bambino non è paragonabile a quello di un adulto per
complessità di informazioni e capacità. Egli però possiede delle strutture innate che
gli permetteranno di svilupparsi e di evolversi fino al giungere della piena maturità,
immagazzinando informazioni e capacità mnemoniche, prima attraverso la semplice
attività sensoriale e, con il successivo ampliarsi degli stimoli e delle capacità, con la
continua elaborazione mentale delle situazioni da parte del bambino.
A fare da guida alle evoluzioni cognitive della teoria della mente, dopo l’errata
ipotesi egocentrica di Piaget e le innovative scoperte sui primati fu, quindi, il
cognitivista Jerome Bruner che, riprendendo ed articolando le idee di Lev
Semёnovic Vygotskj, seppe meglio di altri spiegare come ambiente e fattori innati
contribuiscono, seppur in maniera diversa, allo sviluppo cognitivo dei bambini.
Su questi input venne a crearsi alla fine degli anni ‘80 l’attuale teoria della mente,
che sebbene sia un campo di studi relativamente recente ha saputo stimolare molti
psicologi dello sviluppo a formulare ipotesi a riguardo della sua nascita nel
bambino.
Le meta-rappresentazioni di Leslie
Per cominciare può essere utile indicare che cosa intenda per “teoria della mente”
Leslie. Secondo la sua concezione, è utile riconoscere alcuni punti fondamentali che
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REED S. K.(1988), Psicologia cognitiva. Teoria e applicazioni, Il Mulino, Bologna, 1989.
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rappresentano le chiavi di lettura per il riconoscimento della presenza di una teoria
della mente:
1. la capacità di riconoscere sé stessi e gli altri come entità che pensano;
2. la capacità di riconoscere stati mentali ( intenzioni, desideri, credenze) in se
stessi e negli altri come una capacità diversa dal semplice ‘esperire’ tali stati;
3. la capacità di riferirsi esplicitamente alla mente propria ed altrui e di
utilizzare tali concetti per spiegare e predire ciò che se stessi o gli altri
possono fare o dire.
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Secondo Leslie, tali conquiste avvengono quando il bambino è in grado di creare
delle meta-rappresentazioni delle rappresentazioni che egli già possiede nella sua
mente, riconoscendo e accettando la presenza in esse di enunciati che violano le
implicazioni di referenze, verità ed esistenza delle sue rappresentazioni primarie.
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Queste meta-rappresentazioni vengono anche definite rappresentazioni di secondo
ordine e consistono nella capacità del bambino di rappresentarsi l’altro, di saper
distinguere tra la sua conoscenza e quella dell’altro e di comprendere che le
rispettive credenze portano le persone ad agire in modi diversi.
Inoltre, per Leslie le meta-rappresentazioni presentano una formula quale Agente-
Relazione Informazionale-Espressione: il bambino immagazzina l’informazione che
gli arriva dall’esterno in una rappresentazione primaria, che viene poi resa “opaca”,
cioè spogliata da qualsiasi implicazione di verità, diventando così una
rappresentazione secondaria della realtà. Questo meccanismo, che porta alle meta-
rappresentazioni, viene definito da Leslie meccanismo distaccatore, proprio per le
sua capacità di eliminare le implicazioni di realtà.
Lo sviluppo di questo secondo tipo di rappresentazione è ciò che permette a un
bambino di risolvere il compito della falsa credenza.
3
LESLIE A., Pretense and representation: the origin of “theory of mind”, Psychological Review, 94,
pag.412-426.
4
CAMAIONI L., La conoscenza della mente nell’infanzia: l’emergere della comunicazione
intenzionale, in CAMAIONI L (a cura di), La teoria della mente. Origini, sviluppo e patologia,
Laterza, Bari, 1995.
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La teoria della falsa credenza
Una degli studi che si rivelò fondamentale per individuare l’esistenza di una teoria
della mente è quello denominato paradigma della falsa credenza, utilizzato per la
prima volta nel 1983 dagli psicologi dello sviluppo Perner e Wimmer.
Il presupposto per questo esperimento è che il bambino, acquisita la capacità di
differenziare i propri stati mentali da quelli delle persone che gli sono accanto, sarà
quindi in grado di capire come una persona possa crearsi una credenza errata e quali
effetti questa credenza avrà sul suo comportamento.
L’esperimento di Wimmer e Perner è molto semplice. Al bambino viene mostrata
una scena in cui sono presenti 2 bambole, convenzionalmente chiamate Sally e
Anna. La prima bambola, Sally, nasconde una biglia in una scatola e poi esce.
Mentre Sally non c’è, Anna sposta la biglia di Sally dalla scatola all’interno di un
cesto; quando Sally torna rivuole la sua biglia.
A questo punto al bambino vengono poste domande su dove la bambola Sally andrà
a cercare la sua pallina; se egli ha seguito il corso degli eventi, sarà in grado di
indicare la scatola, cioè dove la bambola ritiene che la biglia sia ancora.
È stato provato che generalmente i bambini di tre anni falliscono questo
esperimento, indicando il cesto; al contrario, i bambini di quattro anni, risultano
capaci di individuare la falsa credenza ed indicare il luogo dove Sally cercherà la
sua biglia, dimostrando quindi di saper attribuire agli altri conoscenze e
rappresentazioni della realtà diverse dalle proprie e, quindi, di aver sviluppato una
teoria della mente. A tre anni, invece, sembra che i bambini ancora non siano in
grado di relazionare causalmente le situazioni del mondo con le credenze e che
questo gli impedisca di riuscire nel compito della falsa credenza.
Il gioco di finzione
Una volta che il bambino ha accettato l’esistenza di meta-rappresentazioni non
veritiere, egli è in grado di creare situazioni totalmente immaginarie o ipotetiche.
Piaget individua, nell’abilità che lui stesso definisce “gioco di finzione”, l’emergere
di questa capacità, che porterà il bambino a distinguere significante e significato di
10
un oggetto
5
.
Leslie riprende questa idea, estendendola anche alla finzione che il bambino è in
grado di riconoscere negli altri. Non solo il bambino intorno ai due anni sarà in
grado di prendere una banana e fingere che sia un telefono senza avere problemi di
riconoscimento tra i due oggetti, ma sarà anche in grado di interpretare lo stesso
gesto eseguito dalla madre come un gioco di finzione e di classificarlo come “ la
mamma finge che quella banana sia un telefono”, attribuendo quindi alla madre uno
stato mentale ben definito e agendo di conseguenza.
In queste occasioni la risposta che è richiesta al bambino è semplice e precisa,
spesso anche letterale. Egli non deve fare altro che guardare il proprio interlocutore
per capire che cosa questi stia fingendo di fare con la banana e, grazie alle
precedenti informazioni immagazzinate attraverso i suoi contatti con gli adulti,
risolvere l’enigma e adattarsi alla situazione. Spesso, inoltre, quando una persona ha
a che fare con un bimbo molto piccolo dedica particolare attenzione a comunicare
chiaramente dove sia la finzione e in che cosa consista, esagerando e ripetendo le
azioni. Il compito del bambino risulta perciò molto facilitato.
Una volta acquisite queste capacità vi è però un importante scarto temporale tra il
passaggio dal gioco di finzione al riconoscimento delle false credenze. Infatti,
l’esperimento di Wimmer e Perner dimostra che i bambini sono in grado di
risolvere una falsa credenza soltanto attorno ai 4 anni, mentre gli studi di Leslie
individuano la capacità di realizzare correttamente giochi di finzione a partire dai
due anni e mezzo circa. Vi è, quindi, una differenza temporale di circa due anni tra
il raggiungimento mentale di queste due attività di riconoscimento. Com’è
possibile?
Leslie parla di differenza di risposta. Nel caso del gioco di finzione, il bambino è
portato a immaginare la situazione e gli risulta facile elaborare delle inferenze. Se la
madre prende una banana e la porta all’orecchio, il bambino non avrà problemi a
riconoscere il gesto del rispondere al telefono che, benché egli non ne conosca il
significato, ha visto fare molte volte alla madre e ha immagazzinato nella sua
mente; inoltre, la madre stessa tenderà a sottolineare con particolare cura qual è la
finzione in atto, diminuendo al minimo le difficoltà di inferenza del bambino.
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Vedi PIAGET J.(1945), La formazione del simbolo nel bambino, La Nuova Italia, Firenze, 1972.