3
modo di pensare ampliato (intersoggettivo): dipanati i fili di questo labirinto, la
rivoluzione dovrebbe essere potere, ma non violenza (dominio).
L’esercizio intorno al tema dell’apolidia affronta la problematizzazione dell’identità
nel suo rapporto con la politica, evidenziando il paradosso dei diritti umani come
condizione del dominio e, allo stesso tempo, potenzialità cosmopolitica.
Il duplice esercizio sul dominio a partire dalla prospettiva del diritto e da quella del
pensiero intende occuparsi delle forme della crisi e della distruzione della polis: la
menzogna programmata e la fabbricazione di cadaveri.
L’esercizio conclusivo sul potere individua la possibilità di un pensiero non
ideologico attraverso il ripensamento dell’opinione (fenomenologia della doxa). Le
problematiche affrontate tentano di porre le basi per poter in futuro sviluppare una
paraskeue (armamentario) sul modo di esercitare inferenze, fare ipotesi, dimostrarle e
confutarle, sulla persuasione nelle sue diverse forme. Questa sarà la via da percorrere
per una genealogia del razzismo e per una sua confutazione (argomentativa).
Queste pagine, pur essendo in parte anche un saggio sul pensiero di Hannah Arendt,
sono piuttosto una problematizzazione a partire dalle tre linee tematiche indicate, e si
prendono numerose licenze, esercitando il pensiero. Che cos’è il pensiero? Socrate lo
scoprì a sue spese: “Gli Ateniesi gli dissero che pensare è sovversivo, che il vento del
pensiero è un uragano capace di spazzare via tutti i segni stabiliti che servono agli
uomini per orientarsi e di portare disordine nelle città, confondendo i cittadini” (H.
Arendt 1977-1978, p. 178 tr. nostra). È nello stesso senso che Arendt (2001
a
, p. 226)
scrive a Scholem: “Ciò che ti confonde è che le mie argomentazioni e il mio metodo
sono diversi da quelli a cui sei abituato; in altre parole, che credo profondamente nel
Selbstdenken [pensare da sé] di Lessing, che né l’ideologia, né l’opinione pubblica, né
le ‘convinzioni’ potranno mai sostituire. Qualunque cosa tu possa obiettare a queste
conclusioni, non le capirai se non ti renderai conto che sono davvero mie e di nessun
altro”. Si tratta di pensare politicamente, e non sembra essere facile.
4
LA LINEA DI ROTTURA (APOLIDIA E CITTADINANZA)
Nessun’altra attività umana richiede il discorso quanto l’azione. [...]
L’azione e il discorso sono così strettamente connessi perché l’atto umano
primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere la
risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei?” (Arendt 1958, p.
179-8, tr. it. p.130-29).
1. Conosci te stessa (il problema dell’identità)
Un paradosso kafkiano può illustrare la questione che vogliamo trattare: “Nessun
altro poteva accedervi, perché questo ingresso era riservato solo a te. Ora vado e lo
chiudo” (Franz Kafka, Vor dem Gesetz, in: id. Erzählungen, p. 131, tr. it. nostra). Ogni
uomo è qualificato per agire e parlare nel campo politico? Ci sembra un’ovvietà. Ma
non è sempre così: tra sionismo, antisemitismo e assimilazione, un confronto con
l’esperienza politica dell’ebraismo può mostrare in quali condizioni azione e parola, in
campo politico, divengono impossibili (previa squalificazione dell’uomo), e quali
conseguenze ne derivino: “Qualcuno è una persona solo se la legge glielo consente”
(Dal Lago 2004, p. 205). Fare esperienza della situazione ebraica significa, per l’ebrea
Hannah Arendt – che è stata internata per un breve periodo nel campo di Gurs, in
Francia; che, dopo l’auto-esilio dalla Germania hitleriana, ha rischiato di perdere la
cittadinanza americana durante la caccia alle streghe (antianarchica e anticomunista,
con tratti totalitari) scatenata dal maccartismo; che è stata attaccata dall’establishment
israeliano per la sua franchezza parresiastica nel valutare l’ideologia fondatrice dello
stato ebraico e le modalità (non la condanna) con le quali si era svolto il processo al
criminale nazista Adolf Eichmann – confrontarsi con l’evento inesplicabile della
distruzione degli ebrei d’Europa, la cui situazione paradossale viene così descritta:
“All’interno di una popolazione omogenea gli ebrei erano senza dubbio un elemento
estraneo, che, se lo si voleva portare alla parità di diritti, occorreva subito assimilare e
se possibile far scomparire” (Arendt 1986, p. 45, tr. it. nostra). Ne va della
comprensione della storia ebraica, e di due modelli: il paria e il parvenu. Il secondo è
l’erede lontano degli ebrei di corte (Hofjuden), il primo è lo spettro del secondo, il suo
rovescio, la sua immagine quasi speculare, poiché ogni parvenu può subito ridiventare
paria (come è avvenuto nell’affaire Dreyfus), risvegliandosi, come Gregor Samsa,
trasformato in un orribile insetto. Ma il paria può, secondo Hannah Arendt, diventare
un paria cosciente, se, “nei tempi bui”, è ancora in grado di fare politica, quella politica
contraddistinta dalla garanzia della pluralità, della diversità e della varietà (la poikilia di
Platone), il cui simbolo resta la polis greca, che “continuerà ad essere presente al
fondamento della nostra esistenza, sul fondo del mare, finché avremo in bocca la parola
‘politica’” (Arendt 1989
a
, p. 235); quella politica, il cui naufragio è determinato dal
5
____________________________________
dominio totale (attraverso la distruzione dell’azione e la sostituzione della capacità di
pensare con la Amtsprache, il linguaggio burocratico)
1
.
Se il fragile mondo comune (la politica) è costituito dalle intersezioni, dalle
relazioni, dai rapporti interumani, il fallimento e la possibilità dei rapporti costitutivi
del mondo rappresentano modalità educative: innanzitutto si tratta di un confronto con
il “chi”. “Un’ebrea”, così Arendt rispondeva alla domanda “chi è Lei?”.
Se sottolineo così esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli ebrei cacciati dalla
Germania [...] è perché desidero prevenire alcuni malintesi che sorgono troppo facilmente
quando si parla di umanità. In questo contesto non posso tacere il fatto che durante molti anni
ho sottolineato che la sola risposta alla domanda: ‘Chi è Lei?’ era ‘un’ebrea’. Solo questa
risposta teneva conto della realtà della persecuzione (Arendt 1989, p. 27).
In base a questa risposta è possibile enumerare quattro momenti fondamentali
concernenti il mondo ebraico, i quali rendono problematica la costituzione di
un’identità (Leibovici 1998): il processo di emancipazione degli ebrei in Europa a
partire dalla fine del XVIII secolo; il nuovo antisemitismo del secolo XIX e degli inizi
del XX; il genocidio nazista; il movimento sionista e la formazione dello stato di
Israele. La comprensione del mondo diventa così comprensione della storia: gli ebrei
del XIX secolo si trovano in bilico tra assimilazionismo (la Diaspora, l’Esilio) e
nazionalismo (sionismo). Entrambe le prospettive sostanzializzano il popolo ebraico,
mancando la comprensione dell’antisemitismo.
La “storia di un’ebrea” (Rahel Varnhagen) è la storia del suo errare nel tentativo di
assimilarsi. Il fatto di essere ebrea la obbliga a sperimentare situazioni estreme, non
riservate ai soli ebrei. È lo scacco di un essere umano In quanto tale la sua esperienza
“trascende” nell’esistenza il suo mero “esserci” (il fatto, concreto, di essere nata ebrea).
1 Quella stessa politica che Hannah Arendt sperava si potesse realizzare in occasione della fondazione dello
Stato di Israele, e che invece, non solo (come troppo spesso si sostiene) a causa della politica israeliana, si
è concretizzata – con conseguenze politiche nefaste dal punto di vista del risveglio dell’antisemitismo e del
fondamentalismo islamico in un efficace quanto problematico connubio con il negazionismo e
l’identificazione delle vittime di un tempo con i carnefici di oggi – nella creazione di altri paria, i profughi
delle popolazioni arabe. Le polemiche anche violente intorno alla sua presa di posizione nei confronti di
questo evento (divenute di pubblico dominio in occasione del processo Eichmann) non sono certo state per
lei indolori, come non sono in generale discussioni pacate quelle intorno alla nuova storiografia israeliana
(cfr. Morris 1999, 2001; Segev 2001), chiamata polemicamente ‘revisionista’ da chi la avversa, nella quale
si cerca di individuare un processo di mitologizzazione dell’identità nazionale israeliana (gli ebrei di
Israele sono agnelli che si fanno portare al macello o resistenti?) nel contesto della fondazione dello stato
(la problematizzazione della nuova storiografia israeliana si trova in I. Grelsammer, 1998 e Codovini,
2002, pp. 173-80). Allo stesso tempo è bene tenere in considerazione, per una problematizzazione della
questione, il fenomeno chiamato da P.A. Taguieff (2002) ‘la nuova giudeofobia’ (di sinistra e araba), che,
benché ne riprenda alcuni stilemi, non può essere identificata con l’antisemitismo (razzismo su basi
biologiche) otto-novecentesco: il problema di fondo, in questo caso, è la tendenza ad autopercepirsi come
vittime. Non meraviglierà del resto trovare, nel contesto del conflitto arabo-israeliano-palestinese, un
punto di contatto preoccupante con le origini dell’antisemitismo, che riguarda i ‘Protocolli dei cento savi di
Sion’ (cfr. Taguieff 1992), falso diventato famoso, che non per nulla viene oggi ripubblicato nei paesi
arabi senza l’avvertenza della sua falsità, perché questa non interessa e non può interessare, essendo invece
piuttosto uno strumento ideologico (performativo) fondamentale, che permette di descrivere l’ebreo (in
questo caso il sionismo, o l’’entità sionista’) come un coacervo di mostruosità mirante al dominio del
mondo, chiamandolo nazista ma anche contestando la portata della shoah (‘un’esagerazione’).
6
____________________________________
Tale, almeno, la prospettiva di Jaspers (Arendt-Jaspers 1985, lettera a H. Arendt,
23/08/52, p. 230), che obietta: “Il Suo libro può risvegliare l’impressione che un essere
umano, in quanto ebreo, non possa vivere” (Ihr Buch kann die Stimmung erwecken, als
ob ein Mensch als Jude nicht recht leben könne). Arendt invece, che si riferisce al
fenomeno dell’antisemitismo dalla prospettiva delle Origini, vede nel libro su Rahel un
testo scritto dalla prospettiva della critica sionista all’assimilazione. Le condizioni
poste dall’assimilazione sociale e dall’emancipazione statale rendono davvero
impossibile la vita degli ebrei. In seguito, invece, considererà la critica sionista
altrettanto inconsapevole dal punto di vista politico quanto l’assimilazionismo.
Il fenomeno autenticamente totalitario, ma già anche l’autentico antisemitismo politico,
non ha quasi nulla a che vedere con questo. Ma non lo sapevo, quando scrissi il libro. È
scritto dalla prospettiva della critica sionista dell’assimilazione, della quale mi ero
appropriata, e che ancora oggi considero essenziale. Solo che questa critica è altrettanto
inconsapevole, da un punto di vista politico, di quanto criticava. [...] Lei ha perfettamente
ragione, quando dice che questo libro suscita l’impressione che un ebreo non possa vivere
‘davvero’. [...] Ritengo anche che gli ebrei, sotto le condizioni dell’assimilazione sociale e
dell’emancipazione statale non possano ‘vivere’. Rahel mi sembra esserne una prova (ivi, pp.
232-4, lettera del 7 settembre 1952).
Se questo è il senso della ricerca su Rahel Varnhagen, allora ciò che Arendt descrive
è l’appropriazione della “esperienza ebraica” (jüdische Erfahrung): retrocedere verso la
propria assimilazione, che viene qualificata come naif, significa mettere in atto un
faticosissimo tentativo di autoeducarsi (di comprendere)
2
. Se in Rahel l’assimilazione
è deliberata, ricercata, ma unilaterale, perché per i non-ebrei, nel caso in esame i
tedeschi, non prendono minimamente in considerazione l’ipotesi di reciprocità, per
Hannah Arendt invece, che giunge alcune generazioni dopo, è qualche cosa di ovvio, di
dato. Ma la situazione sociale e politica dell’assimilazione non è, come sostiene
Jaspers, una considerazione sociologica o psicologica che impedisce di accedere a
riflessioni filosofiche, che concernono l’essenza incondizionata, atemporale, come se
“l’essere ebrea potesse essere solo un indumento, un’occasione” (ivi, p. 230, lettera del
23/8/1952). Per questo motivo, già nel 1930, non si trattava di fondare l’esistenza
sull’ebraicità (lettere di Arendt a Jaspers del 7/9/52 e 24/3/1930), dato che su questa
base si sviluppa piuttosto uno sradicamento spaesante: il terreno proprio dell’ebreo,
anche se emancipato.
Arendt rifiuta la distinzione jaspersiana tra esserci (Dasein) ed esistenza (Existenz),
che sembrano essere quasi distinzioni d’essenza o ontologiche, così come rifiuta l’idea
stessa di un’essenza, mostrandosi estremamente infastidita dall’uso che Jaspers fa della
espressione “essenza tedesca”, (Was mich verwirrte ist einmal natürlich der Terminus
“deutsches Wesen”) preferendo invece esprimere le modalità dell’essere-ebrea
2 Ivi, lettera di Arendt, 7 settembre 1952, p. 233-4: ‘Personalmente, per molti versi il libro mi è estraneo, e
forse proprio per questo; soprattutto nel tono, nel tipo di riflessione. Non però per quanto concerne
l’esperienza ebraica, nei confronti della quale, con fatica e privazioni, mi sono autoeducata. Ero
semplicemente, da sempre, semplicemente ingenua: la cosiddetta questione ebraica la trovavo noiosa’.
7
attraverso il termine “esperienza” (Erfahrung) (ivi, lettere a K. Jaspers datate 1 e 6
gennaio 1933; ivi, p. 54). Del resto, l’esperienza di Rahel Varnhagen non è quella di un
salto dalla situazione inautentica del trovarsi nella Bodenlosigkeit verso l’originaria
autenticità della Existenz. Si tratta piuttosto di risalire alla vergogna (Scham). È questo
infatti l’affetto centrale nell’esperienza dell’ebraicità: non però in quanto qualità
psicologica che si aggiunge all’esserci umano, bensì nel senso che Rahel è costituita
attraverso questa esperienza limite, sintomo del fallito processo di assimilazione
unilaterale. Non emerge l’incondizionatezza (das Unbedingte) (ivi, Jaspers a Arendt, p.
230), perché, come Arendt (1958) chiarirà, la “condizione” (Bedingung) umana è
l’essenza dell’umano, ovvero l’essenza coincide con le condizioni di esistenza.
Una biografia, dunque? In un certo senso è questa la strada: Arendt si dice incapace
di esprimere in abstracto il destino, la vita, l’essere-esposto (ivi, p. 47, lettera del
24/3/1930); piuttosto sceglierà un esempio, la biografia esprime infatti il carattere unico
ed esemplare, il né particolare né universale, anzi la crisi di questa opposizione. Si
tratta di un’obiettivazione, ma non della “jüdische Existenz” intesa come esistenza
ebraica in abstracto, bensì “di una connessione vitale storica, al riguardo della quale, in
ogni caso, credo che si possa intendere qualcosa (ma non un’idea oggettiva o qualcosa
di simile)” (ibid.). Tentando di descrivere un fenomeno, Arendt sviluppa un metodo
storico-fenomenologico che possiamo chiamare una “genealogia” della crisi della
politica. In queste riflessioni esemplari su Rahel Varnhagen, si origina la questione del
rapporto tra esperienza ebraica e politica. Di qui parte il tentativo di comprendere il
fenomeno dell’antisemitismo, connesso a quello dell’acosmismo (l’assenza di mondo
che caratterizza gli ebrei). I diretti interessati sono i paria (poi apolidi e profughi).
2. Un contrasto apparente (il presupposto dell’essenza)
Chi sono i profughi? Coloro che “sono stati messi nei campi di concentramento dai
loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici”. Il problema da cui (attraverso
molti percorsi) deriva questa situazione è sempre quello dei fenomeni di emancipazione
e assimilazione, che, se pure sono teoricamente distinti, nelle pratiche e negli effetti
sono invece indissociabili: gli assimilazionisti accettano la completa identificazione dei
due processi: gli ebrei tedeschi e i tedeschi sono “identici al cento per cento”; per i
nazionalisti, che cercano di dissociare emancipazione e assimilazione, gli ebrei sono
“diversi al cento per cento” (ivi, p. 11). In tutti e due i casi si misconosce il senso
storico (politico) dell’emancipazione e dell’assimilazione, di conseguenza, per i motivi
che illustreremo, si misconosce il senso dell’antisemitismo moderno. Discostarsi dai
discorsi assimilazionisti non significa però accettare senza riserve il sionismo:
“L’assimilazione è un fatto, e solo in secondo luogo, come difesa, costituisce una
ideologia definita” (Arendt 1933, p. 143).
Entrare nella storia europea ha significato per gli ebrei un cambiamento radicale nei
loro modi di vita: non vivono più in una comunità sottomessi alla sua legge, ma in una
giurisdizione comune; non sono contraddistinti da indumenti speciali; hanno acquisito
il diritto di circolare liberamente. Si tratta delle conquiste dei secoli XVIII e XIX. Gli
8
ebrei parlano la lingua della società dove risiedono, ne hanno adottata la cultura. Dopo
il processo di assimilazione “naif” della prima generazione, emergono vere e proprie
ideologie assimilatorie. Il problema è che i loro argomenti sono strategicamente
inadeguati a proteggere gli ebrei, possono infatti essere utilizzati e rovesciati proprio
dall’antisemitismo. Prendiamo in considerazione la Germania. Gli ebrei sarebbero
radicati più profondamente in Germania che in qualunque altro luogo. Si tratterebbe
così di ripercorrere le tappe di questo radicamento, a partire dai primi decreti prussiani
del 1812, che conferiscono agli ebrei un diritto allo stato. Prima dell’emancipazione il
loro status era quello di uno schiavo: protetti, non partecipavano alla vita attiva dello
stato. Ma se anche ora non si vedono garantire la pienezza dei diritti, ciò nondimeno
contribuiscono alla posizione della Germania nella storia mondiale. L’umanità non
viene pensata indipendentemente dalla storia nazionale dei popoli. Allora che cosa deve
essere la storia, se vogliamo comprendere l’antisemitismo? Proviamo a confrontare
due prospettive. La storia universale propone sempre una rilettura del passato. Gli ebrei
portavano in sé un universalismo adatto a convergere con lo spirito tedesco? Si
trattava quindi di un’armonia prestabilita? La storia secondo Arendt è al contrario
marcata dalla contingenza. Gli ebrei sono sempre stati dispersi tra vari paesi e stati.
Questo è il fatto da cui non si può prescindere. Se sono cittadini, lo sono di paesi
diversi. E qui iniziano le complicazioni: se la dispersione designa la posizione del
popolo ebraico nel mondo, e se le teorie assimilazioniste rinunciano allo schema della
redenzione e del ritorno a Sion, la dispersione appare una benedizione, un’inedita
differenziazione tra ebrei (Arendt 1942). L’emancipazione instaura un fenomeno
sconosciuto, la divisione degli ebrei all’interno della storia europea, e abbatte le
barriere che li isolavano: l’emancipazione si fa assimilazione.
Per Arendt, però, l’identificazione con la lingua – “Ciò che rimane è la lingua
materna” (Arendt, 1996
a
, p. 58) – non significa identificarsi con l’appartenenza al
destino politico-storico della Germania. Gli ebrei hanno infatti preso parte solo in modo
tardivo e lacunoso al “destino” della Germania (Arendt-Jaspers 1985, lettera del
6/1/1933, p. 54, tr. nostra):
So sin troppo bene quanto tardi e con quali lacune (wie spät und wie lückenhaft) gli ebrei
vi abbiano preso parte, quanto casualmente (zufällig) siano entrati in una storia che, allora,
era loro estranea. E anche quando si parla di ebrei, [...] non è possibile intendere le poche
famiglie che risiedono in Germania da generazioni, bensì solo quelle che affluiscono dall’Est,
facendo ricominciare costantemente il processo di assimilazione. La Germania, nel suo antico
splendore, è il suo passato. Quale sia il mio si fa fatica a dirlo in una parola. In generale ogni
semplificazione (Eindeutigkeit) – che sia quella dei sionisti, degli assimilazionisti o degli
antisemiti – non fa altro che dissimulare l’effettiva problematicità della situazione.
L’esperienza degli ebrei è quella di un distacco dal suolo dell’ebraismo: “Sono
entrati per caso in una storia che non era la loro”. Per comprendere questo “caso”
occorre prendere le distanze dalle semplificazioni sioniste che identificano il passato
ebraico con la Palestina, ma anche da quelle assimilazioniste che lo identificano con la
Germania. Gli ebrei introducono nella storia tedesca un elemento di estraneità, una
transnazionalità che deve ancora essere assunta.
9
Arendt trova un lato comico (e amaro allo stesso tempo, che fa sorridere
dapprincipio, ma che al contempo risveglia la capacità di giudizio, perché fondato su di
un paradosso che deve essere compreso, fino a che il comico si rovescia in tragico)
nella pretesa degli assimilazionisti tedeschi: che gli ebrei siano sempre stati tedeschi
perché sono al cento per cento identici ai tedeschi. Perché comico? Perché in Francia
degli ebrei insistono a dire che sono francesi sin da Vercingetorige, e che c’era
un’armonia prestabilita tra giudaismo ed esprit francese (Arendt 1937, p. 22). Questo
significa che gli assimilazionisti dimenticano che gli ebrei sono stati stranieri. Che
cosa significa “assimilazione”? L’adattamento necessario al paese dover per caso si è
giunti, dove per caso si è nati, e del quale per caso si parla la lingua; invece per gli
assimilazionisti essa si presenta così: una “armonia prestabilita tra ebrei e francesi,
ebrei e ungheresi, ebrei e tedeschi, ebrei e…” (Arendt 2001
a
, p. 45 e id., 2000
b
, p. 80).
Qualunque cosa facciamo, qualunque cosa pretendiamo di essere, non riveliamo altro che
il nostro insano desiderio di essere trasformati, di non essere ebrei. Tutte le nostre attività
sono dirette a questo scopo: non vogliamo essere ebrei; fingiamo di essere di lingua inglese,
perché gli immigrati di lingua tedesca degli ultimi anni vengono bollati come ebrei; evitiamo
di chiamarci apolidi, perché la maggior parte di coloro che nel mondo sono senza nazionalità
è costituita da ebrei; vorremmo diventare fedeli ottentotti solo per nascondere il fatto che
siamo ebrei (Arendt 2001
a
, p. 45).
Esemplare, per l’emancipazione ebraica, è la storia del signor Cohn, che in ogni
nuovo paese nel quale era costretto a esiliarsi, assumendolo come nuova patria, era
pronto a obliare il proprio passato, a dimenticare la propria lingua materna, acquisendo
in pieno la nuova nazionalità.
Un giorno qualcuno scriverà la vera storia di questa emigrazione ebraica dalla Germania e
dovrà partire dalla descrizione di quel tale Sig. Cohn di Berlino che era sempre stato un
tedesco al 150%, un super-patriota tedesco. Nel 1933 questo Sig. Cohn trovò asilo a Praga e
divenne rapidamente un convinto patriota ceco - tanto sincero e tanto fedele quanto lo era
stato in Germania. Passò del tempo e nel 1937 il Governo ceco, già sottoposto a una certa
pressione dai nazisti, cominciò ad espellere i suoi profughi ebrei, ignorando il fatto che essi si
sentissero senz’altro potenziali cittadini cechi. Il nostro Sig. Cohn si recò allora a Vienna,
dove ci si poteva sistemare solo dando prova del proprio patriottismo austriaco. L’invasione
tedesca costrinse il Sig. Cohn a lasciare il paese. Arrivò a Parigi in un brutto momento e non
ricevette mai un regolare permesso di soggiorno. Avendo ormai acquisito una grande
maestria nel credere a ciò che desiderava, rifiutò di prendere sul serio delle semplici misure
amministrative, convinto che avrebbe passato il resto della sua vita in Francia. Perciò preparò
il suo inserimento nella nazione francese identificandosi col “nostro” avo Vercingetorige.
Penso di non dovermi dilungare sulle ulteriori avventure del Sig. Cohn. Finché il Sig. Cohn
non si risolverà ad essere ciò che realmente è, un ebreo, nessuno potrà prevedere tutti i folli
cambiamenti che dovrà ancora affrontare (ivi, p. 44-5).
Perché tragico? Perché l’assimilazionismo è uno scacco, in quanto gli ebrei
falliscono, non riuscendo a situarsi nel mondo: “Non raggiungiamo lo scopo, né
possiamo raggiungerlo; sotto la copertura del nostro ‘ottimismo’, si può scorgere
facilmente la tristezza senza speranza di chi sostiene l’assimilazione” (ivi, p. 45). Da
10
cosa dipende? Dal fatto che, essendo l’uomo un animale sociale, la rescissione dei
legami sociali annienta l’uomo, a partire dalla sua “identità”.
L’uomo è un animale sociale e la vita non è facile per lui quando vengono recisi i legami
sociali. Nel tessuto sociale è molto più facile conservare gli standard morali. Pochissimi
individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la loro condizione sociale, politica e
giuridica è del tutto indefinita. Mancando del coraggio di lottare per un cambiamento della
propria condizione sociale e giuridica, molti di noi hanno invece deciso di cercare di
cambiare l’identità. E questo singolare comportamento peggiora la situazione. La confusione
in cui noi viviamo è in parte opera nostra (ivi, p. 44).
Pretendere che ci sia tra ebrei e ospiti un’identità al cento per cento significa
rappresentarsi i popoli come se non ci fosse differenza tra gli individui. Questo è però
piuttosto problematico: nessun popolo, nessun gruppo è così omogeneo. Inoltre gli
ebrei non si integrano nel “popolo in generale”, ma semmai in alcuni gruppi, sfere
sociali, dove esistono già dei conflitti, quindi, integrarsi in una parte della società, in un
gruppo, significa trovarsi in opposizione con altre parti. È proprio questo che accade.
L’assimilazionismo mostra una paura: quella di ammettere di avere nemici reali. Per
trovare questi nemici occorre un’analisi dettagliata della società. Inoltre gli argomenti
assimilazionisti, come abbiamo accennato sopra, possono essere rovesciati dagli
antisemiti: “Se gli ebrei si sentono tedeschi, i tedeschi non hanno questa impressione”
(Leibovici 1998, p. 114). Se gli ebrei si integrano nella cultura, se divengono
produttivi, gli antisemiti interpretano questa presenza come un’invasione. Se gli ebrei
apprendono la lingua, ritorna l’opinione di Wagner che questa lingua sia appresa
meccanicamente, per quanto sia antico il loro accesso al tedesco. Wagner definiva gli
ebrei “uccelli sciocchi”, che musicavano come parlavano, scimmiottando, imitando
come dei pappagalli, da stranieri (Losurdo 2002, pp. 119- 120). Se poi si parla
dell’origine comune di ebraismo e cristianesimo, si sbaglia momento, il cristianesimo,
infatti, non è più un riferimento (Arendt 1937, p. 24) e l’atmosfera dell’epoca è ormai
antireligiosa. Se si dice che l’ebraismo è un cristianesimo, il cristianesimo diventa un
“cristianesimo infetto” (Mosse 1985 pp. 140-162); il cristianesimo diventa un’epidemia
ebraica che ha rovinato la religione dei Germani. Se si usano argomenti religiosi si
manca completamente il bersaglio. La questione ebraica era ormai diventata una
questione di razza. Il problema era diventato razziale. E questa, com’è noto, è la
differenza tra odio antiebraico e antisemitismo ottocentesco (Ghiretti 2002).
Gli ebrei assimilati tendono dunque a essere tutti patrioti, incondizionatamente leali.
Questo significherebbe essere sempre fedeli allo stato, di qualunque stato si tratti:
“sono sempre fedeli per principio – e non possono essere altrimenti”. Si arriva al punto
di farsi certificare la propria lealtà “dal governo del giorno”, senza notare che “in
questo modo appaiono a maggior ragione indegni di fiducia” (Arendt 1937, p. 23).
E i sionisti? Perlomeno hanno una superiorità nella prassi, derivante dalla
dimensione critica (ivi, p. 11), o meglio auto-critica “sviluppata in seno al popolo
ebraico” (Arendt 1966, pp. 48-49). Politicamente, però, Arendt non ha nulla a che
vedere con loro. I sionisti riprendono le affermazioni che escludono l’identificazione
degli ebrei con le popolazioni ospiti, ma questo carattere negativo si trasforma in
11
positivo: pur essendo cittadini tedeschi, la loro nazione è la nazione ebraica (Arendt
1937, p. 12). E questa è proprio la situazione degli ebrei nella società tedesca, non sono
assimilati, non appartengono alla società. L’emancipazione si fa per i soli individui. E
l’emancipazione sociale non viene controllata dai gruppi minoritari: se la maggioranza
esclude un gruppo, questo gruppo resta straniero. Il nazionalismo ebraico è una
“protesta contro una vita che occorre ripagare con una colonna vertebrale a pezzi” (ivi,
p. 27). Ma c’è un problema serio: il sionismo evita di confrontarsi con la storia e con le
situazioni concrete perché, contrapponendo in eterno delle essenze (di cui una è
l’ebraismo, l’altra il popolo ospite) cerca qualcosa dietro i significati dispersi, “non fatti
verificabili, ma la lotta eterna di sostanze straniere l’una all’altra. In questo modo si
dispensa di nuovo dal procedere all’analisi storica delle situazioni”, è astorico. Il
sionismo finisce per caratterizzare il popolo ebraico come popolo universalmente
odiato (la storia di un antisemitismo perenne, e quindi di un capro espiatorio, che non
spiega perché “proprio gli ebrei”), e, non identificandolo in un’unica sostanza
universale (il tedesco), ne pone due reciprocamente escludentesi: tedesco, ebreo (ivi, p.
12). Di questa mancanza totale di prospettiva storica, il sionismo raccoglie interamente
l’eredità, ma rovesciandola: “Se gli uni si raccontano che si sono sempre assimilati al
popolo nel suo insieme, gli altri rispondono: no, l’antisemitismo prova che noi siamo in
generale stranieri al popolo e odiati da esso, a causa della sua sostanza eterna” (ivi, p.
46; Segev 2001). Occorre invece disfarsi delle sostanze e prestare attenzione alle
modalità, alle pratiche, ai fenomeni (questa è la storia secondo Arendt), poiché
ipostatizzare l’essenza del popolo ebraico conduce a diverse impasse. Innanzitutto,
l’antisemitismo è riconosciuto ma identificato con una legge storica eterna, sullo stile
(nazionalsocialista) di una guerra tra le razze, come se fosse l’essenza dei “Goym”;
cosicché i non ebrei sarebbero solo antisemiti. Questa è incapacità di percepire le
differenze, di capire le diverse modalità del fenomeno antisemita: né l’assimilazionista
nel suo ottimismo, né il sionista nella sua fede in un’essenza ebraica, possono
interrogare le “condizioni di possibilità dell’antisemitismo moderno” (ivi, p. 10). Se ci
fosse, inoltre, un’essenza ebraica allora l’assimilazione sarebbe solo esteriore. Se
invece le essenze non sono separate dalle modalità, allora l’assimilazione non può
lasciare immutata l’ebraicità, essendo invece una nuova esperienza di essa, una
trasformazione dell’ebreo. Questo processo si scontra con l’antisemitismo, insieme
origine ed elemento del dominio totale.
3. Una confutazione (il buon senso e l’antisemitismo)
Considerata l’impasse a cui conducono l’assimilazionismo, il sionismo e lo stesso
antisemitismo, i quali partono dal presupposto dell’esistenza di una essenza, il
problema dell’antisemitismo va allora impostato e compreso in modo diverso. Ma
come? Nemmeno gli storici sembrano essere stati in grado di spiegare il fenomeno:
“Fino ad oggi gli storici non sono riusciti a spiegarci come mai proprio gli ebrei furono
spinti nel centro dell’uragano” (Arendt 1999 p. 9). Oggi potrebbe sembrare
un’esagerazione, dopo i lavori di Hannah Arendt e di Raul Hilberg, ma il fatto
12
dell’incomprensibilità resta, a meno che non lo si prenda come un’ovvietà. Il nucleo
dell’ideologia nazista è costituito dall’antisemitismo, ma questo che cosa significa?
Cos’è l’antisemitismo? Si potrebbe rispondere così: un fenomeno che urta il buon
senso. In primo luogo perché una faccenda marginale, la questione ebraica, avrebbe
innescato la catastrofe del XX secolo: sembra dunque esserci una sproporzione tra
causa (antisemitismo) ed effetto (totalitarismo nazista, seconda guerra mondiale,
genocidio). Ma la storia non è il regno delle cause e degli effetti. Possiamo solo
rintracciare elementi che si cristallizzano in una modalità di dominio (farne una
fenomenologia) e tentare di trovarne genealogicamente quelle che Hannah Arendt
chiama origini.
Una serie di ipotesi tutte riferite al buon senso è confutata applicando una serie di
epoché successive. Innanzitutto l’antisemitismo non può venire identificato con lo
sciovinismo e la xenofobia, infatti secondo Hannah Arendt l’antisemitismo crebbe nella
misura in cui il nazionalismo perse d’intensità. Del resto i nazionalsocialisti, aldilà
della propaganda, non erano nazionalisti, avendo volutamente il loro movimento una
portata internazionale (il sangue tedesco, il pangermanesimo). Allo stesso modo
l’imperialismo non aveva a che fare con il mero nazionalismo. L’antisemitismo nasce
come ideologia internazionale: non ha direttamente a che fare con il nazionalismo (e
questo è ciò che sconvolge i luoghi comuni).
Il problema da porsi affrontando il movimento antisemita è perciò il seguente: che
connessione c’è con il declino dello stato-nazione, processo contemporaneo? Arendt
propone un’analogia con le analisi di Toqueville, per il quale l’odio contro
l’aristocrazia si diffonde quando quest’ultima ha perso il suo potere politico,
mantenendo solo la ricchezza: l’antisemitismo si diffonderebbe allora nel momento in
cui agli ebrei, i quali hanno perso ogni funzione e influenza nella vita pubblica, non è
rimasta che la ricchezza.
Quando Hitler giunse al potere, le banche tedesche, nelle quali gli ebrei da più di cento
anni avevano avuto una posizione predominante, erano ormai pressoché “senza ebrei”
(Judenrein), e il numero e l’influsso dell’ebraismo tedesco diminuivano con una tale rapidità
che gli esperti di statistica prevedevano la sua scomparsa in pochi anni. […] Lo stesso vale
per la quasi totalità degli stati dell’Europa occidentale (Arendt 1986, p. 32).
Il termine “judenrein”, usato per esprimere l’assenza di qualsiasi traccia di presenza
ebraica nelle banche, allude, ovviamente, a note espressioni naziste. Se gli ebrei non
erano nelle banche, è a fortiori sorprendente, allora, che gli antisemiti si proponessero
di “ripulirle”, perciò la spiegazione deve tener conto di quanto segue: le persecuzioni
vengono perpetrate su gruppi impotenti o palesemente meno potenti di un tempo.
Questo fenomeno rinvia a un comportamento sociale tipico: non si tollera una ricchezza
priva di autorità, considerata inutile. Ma intolleranti in questo senso gli uomini
obbediscono al potere effettivo o lo tollerano, avvertendolo come avente una funzione,
seppure iniqua (Arendt 1999, p. 6). Quindi gli ebrei non vengono perseguitati perché
potenti (urto contro il buon senso).
Un’altra ipotesi del buon senso è che l’impotenza degli ebrei li rendesse
particolarmente adatti a servire da “capri espiatori” (Sündenböcke) o da “valvola di
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sfogo” (Ventil). Ma anche questa ipotesi non spiega nulla. E viene annullata da una
epoché sotto forma di motto di spirito (Witz). Ridiamo (se ci riusciamo) e poi
riflettiamo.
Un’altra ipotesi di lavoro per la spiegazione dell’antisemitismo [...], ispirata anch’essa dal
buon senso, parte al contrario dal fatto dell’impotenza degli ebrei, e conclude che essi hanno
potuto giocare un tale ruolo nella politica moderna solo perché erano particolarmente adatti
ad offrire una valvola di sfogo, a servire da capro espiatorio. La migliore illustrazione e allo
stesso tempo la migliore confutazione di questa teoria la troviamo in un motto di spirito, che
si raccontava spesso negli anni ’20. Un antisemita sostiene che la guerra sia colpa degli ebrei;
la risposta è: Sì, degli ebrei e dei ciclisti; perché i ciclisti?, chiede l’uno; perché gli ebrei?,
chiede l’altro. Se si fosse veramente trattato del capro espiatorio, sarebbero davvero potuti
andare altrettanto bene anche i ciclisti (Arendt 1986, p. 34).
Perché proprio gli ebrei svolsero questo ruolo di capro espiatorio? Nei regimi
totalitari il terrore viene esercitato in modo arbitrario, come strumento permanente con
cui governare masse obbedienti (in Unione Sovietica il terrore venne intensificato
proprio dopo avere eliminato le differenze di classe). Ma il terrore (esercitato in modo
arbitrario) presuppone l’ideologia (che non può essere del tutto arbitraria, deve infatti
fare presa): “Prima che il terrore possa scatenarsi, l’ideologia di cui esso si presenta
come lo strumento deve aver convinto molti, se non addirittura la maggioranza”
(Arendt 1999, p. 9). Chiediamo ancora: perché proprio gli ebrei?
Se ci si appella, seguendo una terza ipotesi (cui dobbiamo far seguire una nuova
epoché) del buon senso e anche, come abbiamo visto, dei sionisti e di alcuni antisemiti
odierni, all’eterno odio per gli ebrei, alla preesistenza e al radicamento tradizionale di
atteggiamenti antisemiti, si fa il gioco degli antisemiti: l’uccisione di ebrei sarebbe una
tradizionale, “normale” “occupazione umana”; i crimini nazisti non avrebbero allora
nulla di unico (einmaliges) o inaudito (unerhörtes), tranne per ciò che concerne le
tecniche impiegate, la loro varietà e la vastità delle operazioni di annientamento. Alcuni
storici ebraici accolgono questa tesi perché l’antisemitismo si sviluppa in
concomitanza con il processo di assimilazione ebraica. La minaccia porterebbe a
servirsi dell’odio antisemita per la conservazione della tradizione: un antisemitismo
eterno assicurerebbe l’esistenza eterna del popolo ebraico. Il che contiene una qualche
corrispondenza con avvenimenti storici, ma è forse spiegabile attraverso lo
sradicamento e l’apolidìa del popolo ebraico: un popolo che non ha la possibilità di
autodeterminazione politica è molto esposto a forme di eterodeterminazione (Taguieff
1987).
Se declino dello stato nazionale e sviluppo del movimento antisemita coincidono,
forse, allora, “la storia dei rapporti fra gli ebrei e lo stato deve contenere in sé la chiave
della crescente ostilità di determinati gruppi sociali contro gli ebrei” (Arendt 1999, cap.
II). Ma c’è un’ulteriore domanda: da dove proveniva l’odio della “plebaglia” (Mob) nei
confronti degli ebrei? Dato che l’antisemitismo si è sviluppato appieno solo nel
processo di disgregazione dello stato nazionale, nel periodo dell’imperialismo, risulterà
centrale il riferimento alla fine dello Stato-nazione e alla crisi dei diritti umani. Questa
è una prima risposta, cioè una direzione di ricerca, aldilà dei luoghi comuni, e richiede
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un’analisi storica. Alla base di un’ideologia ci sono i pregiudizi (Arendt 2001
b
),
esperienze pietrificate che non servono più a comprendere la realtà ma a falsificarla e
deformarla; essi derivano però da effettive vicende storiche, che Arendt analizza nella
prima parte del suo Elementi e origini del dominio totale, e che qui possiamo
brevemente sintetizzare attraverso le sue parole.
Fu questa ambiguità di principio a essere determinante per il comportamento sociale degli
ebrei assimilati nella Germania dell’Ovest. Non volevano e non potevano più appartenere al
popolo ebraico, ma volevano e dovevano restare ebrei – eccezioni del popolo ebraico.
Volevano e potevano svolgere un ruolo nella società non ebraica, ma non volevano e non
potevano sparire (Untergehen) nei popoli non ebraici; così divennero l’eccezione della
società ebraica. Pretendevano di poter essere “un uomo per strada e un ebreo a casa propria”,
e si sentivano come eccezioni nei confronti degli altri esseri umani, appunto come ebrei per
strada e come eccezioni nei confronti degli altri ebrei, cioè come in linea di principio
superiori alla massa del proprio popolo, a casa propria (Arendt 1986, p. 142).
L’emancipazione degli ebrei fu vista dai suoi fautori come un problema
pedagogico. L’assimiliazione avrebbe dovuto essere o condizione o conseguenza
dell’emancipazione. In questo senso il compito politico divenne un problema sociale.
Solo per i nemici era una questione politica (ivi, p. 143). Se in teoria il compito
educativo avrebbe dovuto essere reciproco, se sia gli ebrei che i non-ebrei avrebbero
dovuto abbandonare i loro pregiudizi, poi la richiesta si rivelò come unilaterale; risultò
che, invece, solo gli ebrei avrebbero dovuto essere educati (ibid.): “L’ingiunzione di
accantonare i pregiudizi divenne naturalmente molto in fretta unilaterale, cosicché in
definitiva l’educazione venne richiesta solo agli ebrei” (Aber die Forderung,
Vorurteile aufzugeben, wurde natürlich sehr schnell sehr einseitig, so daß Erziehung
schließlich nur noch von Juden verlangt wurde
).
Se ci chiediamo quale fosse lo statuto dell’ebreo eccezionale, la risposta non può
che essere, tautologicamente: l’eccezione. La condizione politica degli ebrei manifesta
una frattura tra individui e popolazione. La cittadinanza è accordata ad alcune
eccezioni (delle quali resterà traccia persino a Theresienstadt), ma questo non
concerne gli altri. Del resto la sola concessione dei diritti di cittadinanza non significa
la fine di una situazione sociale da paria. L’attaccamento quasi feticistico allo statuto
giuridico di uguaglianza (sinonimo di sicurezza) non permette di vedere che resta
sempre traccia del paria di una volta. Gli ebrei emancipati si trovano di fronte alla
necessità di scegliere tra due vie: restare paria della società o adattarsi alla società,
degradandosi in parvenu, “tradire con il segreto della propria origine il segreto del
loro popolo” (Arendt 1966, p. 118.). Questa, dunque, l’opposizione che si costituisce
nell’ebreo d’eccezione, che anticipa l’ebreo emancipato: una duplice modalità di
risposta alla situazione che resta quella dei paria. Salonfähig (presentabile) e parvenu
o paria ma, di solito, “né parvenu, né ribelle”.
Il fenomeno sconvolgente, che per Hannah Arendt, la quale sin da prima del 1933 e
del suo esilio aveva iniziato a raccogliere ritagli di giornale e a studiare quello che
stava avvenendo in Germania, rappresentò l’inizio di un esercizio di epoché politica, è
la messa fuori legge del popolo ebraico stesso, per cui tutti i parvenu sono ridiventati
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paria; questa volta, però, non sociali, bensì politici. Che cos’è il paria politico? Una
figura centrale del XX secolo: colui che si trova al di fuori di tutte le leggi. Che
differenza c’è rispetto al periodo pre-emancipazione? Che prima i diritti erano
ineguali, mentre ora, molto semplicemente, non ci sono più; ora sparisce quello che
Arendt chiama “il diritto di avere diritti”. Per questo scompare la possibilità di
scegliere tra paria e parvenu. Entrambi divengono fuori-legge, esclusi dal mondo.
Sotto il nazismo non è possibile, per un ebreo, fare carriera, né nascondersi ai margini
della società.
Se il metodo della genesi dei pregiudizi (la riduzione fenomenologica) vuole
distaccarsi dall’idea del capro espiatorio (epoché), primo momento del buon senso
(la natürliche Einstellung di Husserl) che viene tolto dallo studio del fenomeno
dell’antisemitismo, occorre analizzare i rapporti sociali, cioè il mondo. E infine vedere
come il pensiero ideologico li deformi sostituendo un mondo fittizio ai rapporti reali
(al mondo reale). Quindi nella figura del parvenu c’è una corresponsabilità (non una
volontà). Contro la logica della metonimia, che è alla base dell’ideologia, ciò che
Taguieff chiama generalizzazione abusiva, richiamarsi alla realtà, non può che
risultare insufficiente. Sottolineare il fatto che la maggioranza degli ebrei non siano
banchieri ma proletari non serve a nulla. Sotto la maschera dell’ebreo finanziere e
speculatore vengono attaccati tutti gli ebrei: applicando la regola della pars pro toto
viene condannato l’ebreo tout court, l’ebreo al quale si contestano i suoi diritti di
uomo e cittadino.
Cosa fa l’ebreo emancipato? Vuole dimenticare i suoi avi, dimentica di essere stato
miserabile, si comporta da parvenu. Addirittura soffre per il fatto di vedersi ricordare
la sua origine, ha onta di non poter scappare alla sua “razza”. Ma che cosa accade?
Non solo l’ebreo parvenu è un paria perché subisce l’antisemitismo, ma anche perché
la sua attitudine politica resta marchiata dalle antiche persecuzioni. C’è una differenza
tra la situazione del ghetto e quella dell’emancipazione. Il ghetto era il rifugio contro
un ambiente ostile, e c’era una solidarietà, una associazione federativa che
“trascendeva le frontiere”. Nella situazione dell’emancipazione è rimasta l’elemosina
dell’ebreo ricco verso il povero. E proprio questa è la situazione che emerge
analizzando la figura del rifugiato, che viene rifiutato o riceve l’elemosina, che resta
senza mondo in due modi, assimilandosi o rifiutando il contatto. In ogni caso un
paria. Il paria, né rivoluzionario né critico, delega la responsabilità, tutta la
responsabilità politica, al parvenu, che è incaricato di agire contro l’antisemitismo. E
il parvenu aliena la politica al popolo ebraico, che permane in una situazione di
“acosmismo” (Weltlosigkeit). Nell’epoca d’oro del capitalismo sono le ricchezze a
dare al parvenu l’illusione della sicurezza; ma, anche se ricchi, “socialmente
parlando”, gli ebrei erano e restavano dei paria. Che cosa è senza precedenti? Aver
posto fuori dalla legge una popolazione intera. Se un popolo è reso paria le sue
relazioni con l’esterno sono limitate, rarefatte; allora il popolo paria può scomparire:
vede atrofizzarsi il suo mondo, fino a che questo scompare. Forse che il mondo non
ebraico esce indenne da questa atrofizzazione? No, perché “più ci sono al mondo dei
popoli che intrattengono gli uni con gli altri questa o quella relazione, più si creerà