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Introduzione
La pubblicità è radicata all’interno della nostra vita e, influenzando il nostro pensiero, si
insinua nel nostro linguaggio quotidiano.
La pubblicità ha come scopo quello di vendere dei prodotti, richiamando l'attenzione su di
essi per condizionare le scelte dei consumatori e spingerli a desiderare di possedere proprio
quell'articolo. Il messaggio pubblicitario deve rendersi, dunque, il più possibile
comprensibile ma, nello stesso tempo, essere abbastanza originale da catturare l'attenzione e
sollecitare la curiosità dei potenziali clienti. Per far ciò, a livello linguistico, adotta specifici
stratagemmi: fa ricorso a meccanismi retorici di forte impatto e sceglie un lessico facilmente
comprensibile così da garantire la massima chiarezza pur utilizzando costruzioni
accattivanti.
Il discorso pubblicitario è lo specchio del comportamento verbale di una società e della
cultura da cui muove, e la metafora stessa può essere considerata a buon diritto indizio di
modelli culturali. Non a caso il linguaggio della pubblicità è ricco di metafore che,
rispettando il principio dell’economia linguistica, condensano tutte le caratteristiche del
prodotto, essenziali o meno, su cui si vuole attirare l’attenzione. La maggior parte delle
metafore si sono evolute nella nostra cultura attraverso un lungo periodo di tempo; di esse
molte ci sono imposte da coloro che detengono il potere: capi politici, religiosi, economici,
pubblicitari, media ecc.
Nel presente lavoro mi sono occupata della metafora “imposta”, della metafora che ci viene
suggerita quotidianamente dal linguaggio pubblicitario, della metafora che non percepiamo
più come tale ma che utilizziamo come espressione letterale: dei modelli di comunicazione
metaforica nel linguaggio della pubblicità. Per far ciò, dopo aver introdotto nel I capitolo le
caratteristiche della pubblicità e del linguaggio per essa utilizzato, e dopo aver trattato
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alcune nozioni basilari della retorica, fondamentali per la pubblicità, nel II capitolo ho
passato in rassegna teorie relative alla metafora elaborate da linguisti e da studiosi di altri
settori comunque interessanti: la metafora, tradizionalmente presentata come puro
ornamento linguistico appartenente alla retorica, è stata estrapolata da quel contesto e
indagata come processo centrale e strutturale della mente e del pensiero.
Dato il ruolo preminente della metafora nel linguaggio pubblicitario, in questo lavoro, mi
sono proposta di analizzare le espressioni metaforiche individuabili nei messaggi
pubblicitari, avvalendomi di strumenti mutuati dalla linguistica cognitiva al fine di
descriverne la tipologia.
A tale scopo nel III capitolo, dopo il necessario inquadramento teorico, ho analizzato
cinquanta messaggi pubblicitari per i quali sono state impiegate metafore e le ho classificate
a seconda del tipo e della frequenza del tipo stesso. A tale analisi ho fatto seguire le
conclusioni che ho corredato di alcune tabelle atte a meglio illustrare i risultati dell’indagine
da me condotta e di una Appendice.
Una volta concluso, inoltre, non ho potuto fare a meno di riflettere su come la nostra mente,
pur non essendone consapevole, viene quotidianamente bombardata dal fenomeno
pubblicitario e subdolamente spinta ad assumere determinate abitudini e a compiere
specifiche scelte, ciò soprattutto grazie all’utilizzo della metafora che, ponendosi come
espressione linguistica familiare, inganna in modo insidioso ma estremamente intelligente il
pubblico.
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Capitolo I
Il linguaggio della pubblicità
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1.1 Alcune caratteristiche del linguaggio della pubblicità
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Si è assistito, negli anni precedenti, ad una certa resistenza allo studio del linguaggio
pubblicitario da parte dei linguisti (Cardona 1974), perché considerato frivolo e quotidiano,
ma il suo modo di vendere, di convincere per stimoli capziosi, si è propagato in tutte le
direzioni tanto che si è finito per accettare questa forma di comunicazione come l’unica
possibile in determinate condizioni. E quindi lo si è studiato e analizzato.
In generale, il linguaggio della pubblicità è stringato -quasi epigrafico- e predilige lo stile
nominale e la paratassi. L’esigenza di economia linguistica deve però venire incontro alla
ricerca di un’espressività forte che stimoli l’emotività del suo fruitore. Il tutto si traduce, non
di rado, in una serie di più o meno vistose deformazioni o neoformazioni linguistiche.
Per iniziare ad illustrare, se pur sommariamente, le caratteristiche costitutive del linguaggio
in questione partirò da una delle particolarità sintattiche più rilevanti e persistenti: l’uso
dell’articolo. Nelle pubblicità è frequente l’uso dell’articolo determinativo con valore
antonomastico (es. Scavolini, la cucina più amata dagli italiani) per creare una sorta di
“effetto unicità”. L’articolo indeterminativo, invece, è utilizzato con valore elativo in alcune
forme ellittiche di argomentazione (es. un amaro lucano); consueta, in ultimo, la
soppressione dell’articolo per dare maggiore forza alla frase (es. Non è Vov se non è
Pezziol).
Altra caratteristica che merita di essere menzionata è l’uso della preposizione: essa può
omettersi per garantire una maggiore concentrazione linguistica (es. moda autunno-inverno),
può essere impiegata in modo anomalo (es. acqua da tavola), o ancora utilizzata per la
specifica funzione espressivo-grammaticale e viene quindi ripetuta più volte divenendo
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Il paragrafo è tratto prevalentemente da Perugini (1994).
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chiave dell’annuncio (es. Forte con sapore. Con o senza ghiaccio).
L’aggettivo possessivo è ampiamente utilizzato nel discorso pubblicitario, esso lega
produttore e prodotto al consumatore intervenendo nella sfera emotivo-espressiva e quindi
personalizza un prodotto spesso, in realtà, dozzinale (es. chiamami Peroni, sarò la tua
birra).
Interessante anche l’uso dei gradi dell’aggettivo o dell’avverbio: comparativo senza secondo
termine di paragone (es. Paini è meglio), superlativo assoluto con prefissi e suffissi
ridondanti e utilizzati anche con i sostantivi (es. poltronissima), raddoppiamento attributivo
(es. caffè caffè). Ancora per l’aggettivo è singolare il valore avverbiale ad esso assegnato
(es. vivi sano e resti in forma).
Il messaggio pubblicitario tende spesso ad assumere l’aspetto di un’affermazione (magari
come forma di consiglio disinteressato) da parte di un interlocutore sincero ed affidabile che
solitamente spinge un altro interlocutore a compiere un’azione nel presente o nel futuro.
Perciò, per quanto concerne l’uso dei modi e dei tempi verbali, esso utilizza rispettivamente
indicativo e imperativo, presente e futuro. Nella stessa direzione dialogica vengono usate le
persone del verbo e quindi troveremo nella maggior parte dei casi prima o seconda persona
singolare (chi vende) e prima o seconda persona plurale (chi compra), ad esempio “se fosse
così facile trovare l’energia forse non avresti bisogno di noi”. Espedienti molto utilizzati
sono quello dell’interrogativa ad imitazione del parlato (es. Nuovo? No! Lavato con
Perlana) e il nonsense (espressione che appare priva di significato). Inoltre, spesso, il
linguaggio della pubblicità attinge ad altri repertori linguistici, in particolare latino, greco
(soprattutto per prefissi, prefissoidi, suffissi, suffissoidi) e inglese. Il loro impiego riflette
fedelmente lo status e il prestigio che si associano di volta in volta ad un determinato
idioma. D’altra parte, in quanto fatto unificante, la lingua della pubblicità deve fare un parco
uso del dialetto; non è del tutto raro, invece, l’uso dell’italiano regionale. Frequenti sono i
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giochi di parola (es. Ava! Come lava!) e le rime (es. Che bella novità, Loacker che bontà).
Ma la caratteristica costitutiva del linguaggio in questione è l’ampio ricorso ai tropi o figure
retoriche.
1.2 Pubblicità: lingua o linguaggio?
Preliminarmente mi sembra giusto precisare qualcosa circa la dicitura “linguaggio”
riferito al codice linguistico attraverso cui si esprime e si diffonde il messaggio
pubblicitario.
In realtà, stando ad alcune definizioni, dovremmo parlare di “lingua della pubblicità”, in
quanto il termine linguaggio generalmente viene riferito ai linguaggi settoriali che
possiedono tecnicismi specifici e tecnicismi collaterali
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. Contrariamente, la pubblicità, che
deve suscitare attenzione, sollecitare curiosità e creare interesse verso il prodotto
pubblicizzato, deve mostrarsi come accessibile a tutti i parlanti, anzi a tutti i possibili
acquirenti; costruendo vere e proprie esche linguistiche diviene una vera e propria “lingua
venduta”. Non a caso si sottolinea la preferenza del linguaggio pubblicitario per la funzione
conativa-persuasiva rispetto a quella referenziale.
Al limite, nel discorso pubblicitario, troviamo degli pseudotecnicsmi, il cui effetto
complessivo è quello di suggerire una maggiore preziosità e rarità della cosa e
implicitamente far sì che il consumatore si senta un intenditore (Cardona 1974). Nonostante
ciò, preferisco comunque parlare di linguaggio pubblicitario invece che di lingua con un
particolare accorgimento: non lo considererò come varietà linguistica speciale o settoriale
2 cfr. Serianni (2003). “I tecnicismi specifici sono nozioni, concetti, strumenti tipici di un particolare
settore descritti da un lessico caratteristico, impenetrabile per i profani”. “I tecnicismi collaterali sono
termini caratteristici di un certo ambito settoriale, che però sono legati non a effettive necessità
comunicative bensì all’opportunità di adoperare un registro elevato, distinto dal linguaggio comune”.
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che dir si voglia ma come un uso particolare della lingua
3
.
1.3 Breve storia della pubblicità
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La pubblicità è strettamente intrecciata alla vicenda economica, sociale, intellettuale e
culturale di un popolo ed è quindi opportuno delineare sommariamente lo sfondo storico
entro cui si è originato e sviluppato il fenomeno pubblicitario, in modo particolare, in Italia.
La nascita della pubblicità in senso moderno è legata alla nascita del giornale, quindi
risalgono al Seicento le prime inserzioni pubblicitarie, ma solo tra Ottocento e Novecento si
diffondono forme specifiche del messaggio pubblicitario: lo slogan e il cartellone murale.
Tutto ciò avviene in un contesto di generale povertà, cui va aggiunta la considerazione del
fatto che, in origine, la pubblicità -basata essenzialmente sulla scrittura- attuava una
selezione elementare sui già scarsi consumatori, in un paese nel quale a quell’epoca la più
parte della popolazione era analfabeta. In questa fase, la funzione del pubblicitario
consisteva nel mediare tra la produzione di un bene e del suo acquisto, tra la presenza di una
merce e la sua destinazione all’interno di una classe borghese dai contorni ben definiti
(unico attore sociale sulla scena del consumo). L’Italia partecipava con ritardo al successo
europeo del manifesto, è comunque certo che il primo gruppo di cartellonisti italiani si
presentava con le carte in regola e con una produzione di alto livello qualitativo.
Scapigliatura, Divisionismo, Liberty, Futurismo sono gli stili figurativi ai quali in diversi
modi e in diverse stagioni si coniuga l’arte cartellonistica del primo Novecento.
Attraverso i piccoli annunci di una miriade di produttori che compaiono sui giornali
dell’epoca, si può costruire una radiografia del sistema di vita e della fascia sociale cui
appartenevano i lettori di un dato giornale. Il livello di questa comunicazione pubblicitaria è
quasi sempre ingenuo e privilegia i codici espliciti (iconico e testuali) rispetto a quelli
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cfr. Perugini (1994).
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Il paragrafo è tratto prevalentemente da Perugini (1994) e da Lombardi (2008).
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impliciti (connotazioni ideologiche e sociali), affrontando il lettore con mezzi linguistici che
lo chiamano in causa personalmente con lo slogan e, più spesso, con argomentazioni lunghe
e dettagliate. Solitamente non vengono sponsorizzati prodotti che aggiungono piacere alla
vita, ma quelli che eliminano difetti delle persone. La semplicità immediata di questo idioma
pubblicitario ci è confermata dalla presenza di un’aggettivazione massiccia, direttamente
legata al marchionimo in strutture cumulative (es Odol. Il migliore per i denti. O ancora
Assolutamente pratico! Unico! Sorprendente! Pettine Fatus).
La pubblicità del ventennio è fondamentalmente povera di eventi essendo soffocata da una
strategia politico-economica che le era nettamente contraria. Il regime mussoliniano, da
sempre avverso allo spirito borghese consumistico, contrappone alla città delle élite e del
proletariato urbano il modello di vita rurale. In un periodo di accelerata industrializzazione
mondiale l’economia fascista vede nel contenimento industriale uno dei suoi capisaldi. Al di
là della reale attuazione di un tale programma, la strategia pubblicitaria subisce un periodo
di rallentamento e stasi, nel quale si configurano solo potenzialmente gli sviluppi
comunicativi futuri della “modernizzazione” postbellica (nascita della radio, nuovi mezzi di
propaganda politica, incremento e professionalizzazione delle agenzie di pubblicità). Dopo
la seconda guerra mondiale, la pubblicità italiana inizia un percorso di rafforzamento prima,
e di sviluppo poi, sia di una nuova immagine sociale, sia di nuove tecniche e di nuovi spazi
di comunicazione. La trasformazione economica del paese colloca l’Italia tra i maggior
paesi industriali del mondo e determina il superamento del modello contadino. È la città la
nuova scena degli anni Cinquanta e Sessanta, epicentro del progresso e del consumo. A
questo punto, la pubblicità si porge come strumento indispensabile nel mondo economico
italiano, orientando da un lato le aziende a una ricezione attenta delle esigenze del mercato,
dall’altro il pubblico a un uso più ampio e razionale dei prodotti.
Nel ben delimitato sistema dei mass media utilizzabile pubblicitariamente, il 3 febbraio
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1957 segna una data storica: va in onda per la prima volta Carosello, l’esempio più famoso e
forse più longevo di pubblicità televisiva. Proprio Carosello si può assumere per richiamare
sommariamente le caratteristiche dell’immagine pubblicitaria di quegli anni e la sua
considerazione sociale. Carosello offriva l’immagine di un mondo e di una realtà edulcorati,
sempre più rispondenti al modello sociale della borghesia, con messaggi che lodavano le
proprietà positive del prodotto e del suo ipotetico consumatore; atteggiamento comunicativo
che sul piano linguistico portò all’uso massiccio di superlativi, moduli esclamativi,
pseudocomparativi che accompagneranno alcune espressioni pubblicitarie fino ai giorni
nostri.
Un clima di ostilità culturale si può ascrivere ad un’intera generazione intellettuale che nel
decennio Sessanta-Settanta studia il fenomeno pubblicitario deprecandone gli effetti nefasti.
La pubblicità, presentata come uno strumento in grado di manipolare l’uomo sino al livello
degli istinti, avrebbe contribuito alla formazione di schiavi sublimati quali erano considerati
gli uomini delle società industriali avanzate.
Negli ultimi anni sono avvenuti numerosi cambiamenti nei settori della comunicazione
pubblicitaria: l’aumento del numero di imprese che hanno deciso di servirsi della pubblicità,
fatto che ha originato una notevole crescita di agenzie; un pubblico che, orientandosi sempre
più verso prodotti di uso non primario, pone nuovi problemi di comunicazione; i mezzi
stessi che si trasformano, soprattutto in relazione all’allargamento quantitativo delle reti di
trasmissione radiofonica e televisiva, e rendono più ampi e flessibili gli spazi pubblicitari.
Dopo oltre cento anni di storia la situazione si presenta radicalmente mutata: da intrusa
discreta e tollerata nei giornali di fine Ottocento, la pubblicità si è trasformata in uno dei più
ricercati sostegni dei moderni mezzi di comunicazione di massa, di cui orienta in vario
modo l’evoluzione.