INTRODUZIONE
"Quello che non si deve mai fare nel deserto è permettere che delle concessioni ti siano arbitrariamente imposte.
Se qualcuno ti ruba metà della tua acqua, non puoi mai dire: "Be', questa volta faccio buon viso a cattivo gioco,
ma guardati ben dal farlo un'altra volta", perché in quel mondo di lupi solitari chiunque si faccia pecora, corre
dei grossi rischi, realtà sottolineata dalla leggenda beduina del vecchio e del suo tacchino.
Un vecchio beduino un giorno scoprì che poteva recuperare la propria virilità mangiando il tacchino. Ne
acquistò pertanto uno e lo tenne accanto alla tenda, seguendone giorno dopo giorno la crescita. Lo ingozzava di
cibo e intanto si diceva: "Ah, sì, diventerò un vero colosso". Un brutto giorno però il tacchino gli venne rubato,
e il beduino convocò i suoi figli e gli disse: "Ragazzi, siamo in pericolo, in gravissimo pericolo. Qualcuno mi ha
rubato il mio tacchino." I figli risero e chiesero: "Ma papà, a che ti serve il tacchino?". E il vecchio: "Non vi
riguarda. Non importa perché io abbia bisogno del tacchino, quel che conta è che mi è stato rubato e dobbiamo
recuperarlo". Ma i figli non gli diedero retta e si dimenticarono del tacchino. Di lì a qualche settimana, a essere
rubato fu il cammello del vecchio e i suoi figli andarono da lui e gli dissero: "Papà, il tuo cammello è stato
rubato, cosa dobbiamo fare?". Rispose il vecchio: "Trovate il mio tacchino". Passò qualche altra settimana ed
a essere rubato fu il cavallo del vecchio, così i figli andarono da lui e gli dissero: "Papà, è stato rubato il tuo
cavallo, cosa dobbiamo fare?". E il vecchio: "Trovate il mio tacchino". Qualche settimana ancora e qualcuno
violentò la figlia del vecchio così l’anziano andò dai suoi figli e disse loro: "E' successo tutto per via del
tacchino. Si sono resi conto che potevano prendermelo impunemente, ed ecco che abbiamo perduto tutto".
Hama era il tacchino di Hafez Assad”
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Le “regole di Hama”, così come le chiama Thomas Friedman nel suo libro, rappresentano
probabilmente uno dei tanti tentativi che noi occidentali abbiano effettuato per comprendere e
per individuare “leggi” che possano in qualche modo spiegarci come mai, in una parte del
mondo così vicina alla nostra “civile” Europa, possano ancora verificarsi eventi come quelli
che si sono verificati in Siria nel 1982, in cui la violenza e l’odio reciproco sembrano
prendere il sopravvento su tutte le altre attività umane.
I fatti di Hama, d’altronde, non si possono considerare un evento isolato all’interno del Medio
Oriente. Quasi contemporaneamente a questi avvenimenti, nella periferia di Beirut martoriata
dalla guerra civile, furono invece i cristiani falangisti ad effettuare una nuova carneficina,
procedendo al massacro di gran parte della popolazione palestinese che abitava nel campi di
Sabra e Chatila.
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Friedman T., Da Beirut a Gerusalemme, Arnoldo Mondadori Editori, Milano, 1991, pag 47
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Ripercorrere tutta la storia di questo tipo di eventi, nel Medio Oriente, sarebbe davvero un
compito lungo e faticoso, data la grande disponibilità di materiale al riguardo. Da un tale
studio emergerebbe sicuramente un quadro desolante del mondo arabo e dei suoi leader. Dal
secondo dopoguerra ad oggi la classe politica del Medio Oriente sembra che si sia concentrata
solo sulla guerra e sulla violenza, dimenticandosi di tutte le altre attività umane.
Friedman, dopo gli eventi di Hama, ebbe probabilmente la stessa reazione che aveva avuto,
tanti anni prima, l’ufficiale britannico Edward T. Lawrence, conosciuto meglio come
“Lawrence d’Arabia”. I due si ritrovarono catapultati in un mondo che non conoscevano, ma
che entrambi, percepirono subito come profondamente incivile rispetto ai propri “standard”
europei. In un episodio narrato nell’omonimo film sulla vita di Lawrence, l’ufficiale
britannico rimase sconvolto quando la propria guida fu uccisa a sangue freddo da un membro
di una tribù rivale, anche se la sua unica colpa era stata quella di aver bevuto, nel bel mezzo
del deserto, l’acqua da un pozzo che non apparteneva alla sua famiglia. Lawrence, dopo
quest’episodio, cominciò a diffidare profondamente degli arabi per i loro metodi barbari e
violenti, che non tenevano in minima considerazione l’idea di rispettare i diritti alla vita altrui,
predicendo loro che, se avessero continuato a farsi la guerra l’un l’altro, il futuro gli avrebbe
riservato solo frustrazione e sofferenza.
Al termine del film, però, lo stesso Lawrence, provato emotivamente e psicologicamente dalla
sua prigionia nelle carceri turche, si sarebbe anche lui abbandonato alla violenza cieca contro
gli ottomani, dimenticandosi completamente di quegli stessi valori di cui lui stesso si faceva
portatore.
La storia di Lawrence ricorda un po’ la storia degli Stati Uniti e del loro rapporto con il Medio
Oriente. Arrivati come lui per portare la civiltà a questo popolo arretrato, incontrate dopo
pochi mesi le prime difficoltà, gli americani hanno cominciato a rendersi colpevoli di quegli
stessi crimini che combattevano sino a poco tempo prima, dimenticandosi delle libertà e dei
diritti dei prigionieri di Guantanamo o Abu Ghraib, dove i carcerati erano considerati al pari
della bestie. Gli Stati Uniti, secondo quanto emerso da alcune inchieste giornalistiche,
sembrano che abbiano anche bombardato con armi chimiche la popolazione ribelle di Falluja,
proprio come aveva fatto Saddam con gli sciiti
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Farina M., “Ho Visto il Fosforo Bianco Incenerire Falluja”, Corriere della Sera, 8 Novembre 2005. L’articolo
cita l’inchiesta condotta dai giornalisti di Rainews24, che è disponibile sul sito
www.rainews24.rai.it/ran24/inchiesta/video.asp
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Nel mio breve percorso di studente, mi sono appassionato (come tanti altri prima di me) alle
vicende del Medio Oriente e per questo mondo che nonostante la vicinanza geografica con il
mio paese, sembrava così diverso nella cultura e negli atteggiamenti che si mantenevano nei
confronti degli altri esseri umani.
La mia prima esperienza, in cui mi sono confrontato intellettualmente con le problematiche di
un paese arabo, è stato durante la mia tesi di laurea triennale, dove ho cercato di affrontare i
tanti nodi della complicata vicenda storica e politica del Libano, all’indomani del ritiro delle
truppe siriane dal paese. Il mio problema nell’affrontare le tematiche libanesi nasceva dalla
difficoltà di comprendere il nodo dei problemi di quel paese facendo sostanzialmente solo
un’analisi della sua politica interna. L’esperienza mi suggerì che se volevo realmente capire i
problemi dell’area avrei dovuto concentrarmi maggiormente sulla politica regionale, che
sembrava essere l’unica vera forza ad avere in mano il destino del Libano. La Siria diventò
così ai miei occhi lo strumento che avrebbe potuto darmi la possibilità di ampliare lo sguardo
sulla situazione di tutta la regione, data l’importanza del suo ruolo all’interno del mondo
arabo.
In un primo momento, studiando gli eventi della lunga guerra civile libanese e partecipando
in qualche modo alla sofferenza della sua popolazione, mi sono immedesimato nella loro
disillusione e impotenza rispetto al succedersi degli eventi, mantenendo ferma l’impressione
che la Siria fosse un attore con un ruolo profondamente destabilizzante nelle vicende libanesi.
Damasco, d’altronde, non perdeva nessuna occasione di dimostrare la propria brutalità,
utilizzando spesso la forza in modo gratuita, slegandola dal raggiungimento di precisi
obiettivi politici.
Decisi così di affrontare, una volta avuta la possibilità di scrivere un’altra tesi di laurea, le
vicende di quel paese che appariva così duro e violento, che sembrava rispettare solamente le
“regole di Hama”, ma non tutte le altre che parlavano di convivenza e di rispetto degli altri
esseri umani.
Il mio atteggiamento sulla Siria cominciò a mutare ed a farsi più profondo grazie alla lettura
di un opera di Samir Kassir, un intellettuale libanese, editorialista per il quotidiano An Nahar
e professore di storia all’Università Americana di Beirut. Nel suo libro intitolato
“Primavere”
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, Kassir analizzava giorno per giorno, attraverso i suoi editoriali, le vicende
politiche della Siria e del Libano, evitando di definirsi, come sarebbe diventato poi di moda
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Kassir S., Primavere: per una Siria Democratica e un Libano Indipendente, Mesogea, Messina, 2006.
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dopo il 2005, un “antisiriano” o un “pro siriano”, dato che si riteneva solamente un cittadino
arabo, che mirava al progresso del suo popolo e della sue genti. Nonostante si sentisse a pieno
titolo un’abitante di Beirut, partecipava alle vicende che accadevano nella vicina Damasco
oppure a Baghdad, biasimando chi invece continuava a rapportarsi solo con la propria piccola
comunità religiosa.
Che un cittadino libanese, per giunta di religione cristiana, evitasse di incitare all’odio contro
la Siria cercando di parlare solo di democrazia e di progresso mi sembrò davvero strano.
Abituato a leggere di stragi, violenza e odi reciproci, fui colpito che Beirut riuscisse a
produrre qualcosa di diverso rispetto alle autobombe, come visioni intellettuali complesse in
grado di uscire della logica settaria che aveva portato all’inferno il paese per oltre 15 anni. La
fine stessa di Kassir, ucciso da una autobomba probabilmente sistemata dall’intelligence
siriana, mi suonò come un tragico scherzo del destino, ma anche come un nuovo stimolo per
cercare di comprendere questo “enigma” chiamato Siria, che riusciva a definirsi un paese
panarabista, ma che allo stesso tempo si dimostrava capace di uccidere a sangue freddo una
voce così colta, ispirata e veramente “araba” come quella di Kassir.
Da una parte, prima di intraprendere questa tesi, sentivo di disprezzare le politiche che questo
paese continuava a intraprendere nella regione, sempre imperniate sulla violenza. Dall’altra
però, la mia curiosità mi spingeva a conoscere meglio questo “stato” e i motivi per cui lo
stesso fosse così spietato nel rapportarsi con i propri simili e con i propri “connazionali”. La
mia speranza, prima di iniziare questo lavoro, era di poter raggiungere, al termine del mio
studio, una spiegazione razionale che potesse dare un senso a tutto quello spargimento di
sangue.
Memore degli errori che ho compiuto in passato, questa analisi della politica estera siriana
prende in considerazione tutti quegli elementi che pensavo fossero d’aiuto per tracciare un
quadro esaustivo della problematica.
Il primo capitolo si concentra sulla politica interna della Siria e cerca di comprendere le
motivazioni per cui il regime è riuscito a rimanere al potere nonostante fosse un regime nelle
mani di una comunità minoritaria, quella alawita, in un area a vasta maggioranza sunnita.
Successivamente si analizzano le conseguenze che gli equilibri interni possono avere nei
confronti della politica estera, mettendo in luce la necessità di Assad di mantenere elevata la
stabilità del paese. I problemi interni non vengono esaminati concentrandosi sui soli rapporti
politici, ma viene dato ampio spazio anche alle problematiche economiche che la Siria deve
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affrontare in questo periodo, analizzandone la possibile ricaduta di tali problemi nella sua
politica estera. Nella fase conclusiva di questa prima parte si esaminano anche le eventuali
prospettive di democrazia del paese, evidenziando i limiti delle liberalizzazioni politiche
attuate fino ad ora. Nel secondo capitolo l’attenzione si sposta definitivamente sulla politica
estera siriana e sulla sua relazione con il sistema regionale. Vengono perciò esaminati i
rapporti che il regime mantiene con le aree attualmente più instabili del mondo arabo, come
Libano, Palestina ed Iraq, zone chiave per gli obiettivi del regime, in cui il contrasto con gli
Stati Uniti è attualmente più forte. In questa parte si cerca di delineare le principali
caratteristiche della politica estera del regime di Damasco, evitando di ridurre il tutto al
concetto di “grande Siria”, illustrando così i motivi e le ragioni per cui il paese ha sempre
tentato di controllare ed indirizzare secondo le proprie necessità il comportamento degli stati
arabi confinanti, al di là della semplice volontà di potenza. Nella parte conclusiva viene svolta
una analisi anche sul rapporto strategico che la Siria ha instaurato con l’Iran rivoluzionario,
evidenziando i vantaggi che nascono dalla collaborazione tra i due paesi. Nel terzo ed ultimo
capitolo della tesi, l’elaborato si concentra sui rapporti che il regime intrattiene con gli Stati
Uniti, esaminando i motivi storici di contrasto fra i due paesi ma anche il recente
atteggiamento mantenuto dalla amministrazione Bush nei confronti di Damasco, facendo
riferimento a tre problematiche considerate esemplificative di tale rapporto: le sanzioni
economiche, il caso Hariri e la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Nell’ultima
parte l’attenzione si sposta sul rapporto bilaterale della Siria con Israele, che nonostante il
fallimento dei negoziati nel corso anni novanta, sembrano aver ritrovato oggi le motivazioni
necessarie per il raggiungimento di un accordo di pace definitivo.
Nella tesi ho deciso di riferirmi alla Siria attraverso un filtro, l’Asse del Male e il processo di
pace con Israele che mettessero in luce quanto la percezione del problema avvenisse
attraverso la cultura occidentale e in particolar modo quella anglo – sassone, che rappresenta
la quasi totalità delle fonti a mia disposizione. Tale filtro vuole anche individuare una
difficoltà oggettiva nell’approccio ad una tematica che si sviluppa in un contesto che rispetta
leggi di comportamento così differenti rispetto alle nostre; dato che, ad oltre venti anni di
distanza, le “regole di Hama” sembrano essere lo spirito che muove i comportamenti di tutta
la politica mediorientale.
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