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Parallelamente è aumentato il grado di internazionalizzazione del sistema italiano, con 26
gruppi nazionali presenti all’estero nel 2007 ed una quota dell’operatività all’estero sul totale
dell’attivo pari al 26,4%. Sul piano della redditività le banche italiane hanno compiuto una
notevole rimonta nei confronti delle performance degli intermediari europei, passando da un
ROE medio del sistema del 2% nel triennio 1995 – 1997 a quasi il 12% del 2007, 15,6% se si
considerano i cinque maggiori gruppi, dato che si avvicina al 18,6% della media EU4
(Spagna, Francia, Regno Unito e Germania). Nonostante, quindi, tutto il sistema abbia
beneficiato delle riforme del sistema bancario attuate negli anni ’90, il Gruppo UniCredit è
riuscito sempre ad ottenere performance migliori dei concorrenti, grazie ad una superiore
capacità rispetto ad essi di prevedere i cambiamenti cui il mercato andava incontro ed ad
un’adeguata prontezza nel modificare la propria operatività in base a tali cambiamenti.
Scopo del presente lavoro è individuare le scelte strategiche che sono alla base di questa
anomalia positiva nel sistema bancario italiano.
Nel primo capitolo verrà illustrato il processo che ha portato alla creazione e all’attuale
struttura del Gruppo UniCredit, partendo dalla privatizzazione del Credito Italiano nel 1993,
a cui fa seguito nel 1998 la nascita del Gruppo UniCredito Italiano, nato dall’integrazione di
Credito Italiano con altre sei banche italiane, per arrivare alla configurazione odierna, frutto
delle numerose acquisizioni effettuate a partire dal 1999 in Europa Centro-Orientale, della
fusione perfezionata nel 2005 con la tedesca HVB Group, del progetto di ristrutturazione
interna che ha portato alla nascita del Gruppo UniCredit ed alla creazione di banche dedicate
in modo specifico a diversi segmenti di clientela, il Progetto S3 ed infine dell’operazione di
fusione con il Gruppo Capitalia nel 2007, dalla quale è nato il secondo gruppo bancario
europeo in termini di capitalizzazione in borsa.
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Nel capitolo secondo viene affrontata un’analisi circa le trasformazioni che hanno avuto
corso dai primi anni ’90 ad oggi, prima nel mondo anglosassone e poi nei restanti sistemi
bancari occidentali, riguardo la conduzione aziendale dell’impresa banca e delle ripercussioni
che queste trasformazioni hanno avuto negli indicatori di performance economico-finanziarie
degli istituti creditizi. Partendo dalla classica configurazione di un bilancio bancario, verrà
dapprima sviluppata un’analisi riguardo l’effettiva proprietà informativa che gli indicatori di
natura contabile riescono ad offrire agli stakeholders che se ne servono e si illustreranno i
tentativi della teoria di superare tali limiti con delle nuove classi di indicatori.
Successivamente l’analisi volgerà verso le nuove dottrine sulla gestione aziendale,
focalizzando l’attenzione sul Value Based Management (VBM), modello che pone al centro
delle decisioni aziendali la creazione di valore per gli azionisti, protagonista di una tale
diffusione, prima tra le aziende non finanziarie ed in seguito anche tra le banche, da riuscire
ad influenzare in pratica tutte le ristrutturazioni societarie compiute negli ultimi anni. Verrà
sottolineata nel paragrafo successivo la crescente necessità, causata dall’imporsi delle nuove
teorie, di nuovi indicatori di redditività che possano determinare la capacità o meno di
un’impresa di creare valore: l’attenzione si concentrerà sui proxy che hanno avuto in questo
senso una maggiore diffusione. Verrà dimostrato come soprattutto l’Economic Value Added
(EVA) si è rivelato l’indicatore che, pur non introducendo sostanziali innovazioni sul piano
teorico, viene sempre più utilizzato dagli analisti grazie all’efficacia con la quale permette di
misurare la capacità o meno di un’azienda di creare ricchezza per i propri azionisti e
l’impossibilità di una sua distorsione attraverso artifici contabili.
Il capitolo successivo verte sull’analisi delle performance del Gruppo UniCredit negli
esercizi che vanno dal 2001 al 2007: dapprima l’analisi sarà condotta sulla base degli
indicatori di più comune utilizzo, come riportata nei bilanci consolidati; successivamente si
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cercherà di filtrare i dati contabili alla luce degli indicatori nati sulla scia del VBM, l’EVA in
particolare. L’obiettivo sarà quello di verificare se effettivamente i risultati ottenuti dal
Gruppo, che tanto si sono discostati da quelli medi del settore bancario italiano, hanno una
reale valenza economica oppure se devono essere ridimensionati alla luce di valutazioni più
attinenti alla sua effettiva capacità di creare extra-reddito.
Il capitolo seguente sarà invece dedicato alla ricerca delle cause alla base dei risultati ottenuti
negli ultimi anni dal Gruppo, approfondendo l’analisi delle variabili su cui il management ha
fatto leva per aumentarne l’efficienza. L’attenzione verrà focalizzata sulle politiche in tema
di back office ed in particolare di Information & Communication Technology (ICT) e su
quelle di Cost Management, sottolineandone gli aspetti di innovazione rispetto agli altri
operatori italiani. In un secondo momento l’analisi verterà sulla capacità che UniCredit ha
avuto nel corso degli anni di creare ragguardevoli sinergie dalle operazioni di fusione ed
acquisizione di altre banche, sia nei confini nazionali sia al di fuori di essi, ed allo stesso
tempo dalla riorganizzazione della struttura operativa secondo modelli a maggiore
redditività.
Il capitolo finale sarà dedicato alle conclusioni deducibili dal presente lavoro, approfondendo
il discorso sulla strategia generale che ha guidato la politica di un gruppo bancario presente
in oltre 20 Paesi: quali siano risultate, in definitiva, le scelte maggiormente remunerative e
quali, invece, non abbiano portato al Gruppo i risultati che ci si prospettava, cercando di dare
una spiegazione sia alle une che alle altre.
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CAPITOLO I
STRATEGIE DI CRESCITA E DIVERSIFICAZIONE DEL
GRUPPO UNICREDIT
1.1 Origine, nazionalizzazione e privatizzazione del Credito Italiano
Gli avvenimenti che, partendo dalla dismissione di un istituto di credito di proprietà
pubblica, hanno portato alla creazione e allo sviluppo del Gruppo UniCredit possono essere
collegati tra di loro da un filo comune che sottolinea in ogni fase di questo processo la
capacità che ha avuto il Gruppo di essere un first mover nel panorama creditizio italiano e
talvolta europeo in materia di espansione, ristrutturazione e riorganizzazione societaria.
Il Credito Italiano nacque dalla incorporazione della Banca Vonwiller di Milano da parte
della Banca di Genova nel 1895: il nome indicava il programma d’azione esteso non più ad
un ambito prettamente regionale ma a tutto il Paese. La quota di mercato dei depositi della
clientela all’epoca ammontava al 2% del totale nazionale.
Nel 1930 il Credito Italiano, in quel momento seconda banca del Paese per totale dell’attivo,
fu protagonista della maggiore fusione bancaria fino ad allora avvenuta in Italia, con la
Banca Nazionale del Credito, terzo operatore nazionale. Tre anni dopo, il perdurare della
crisi economica e finanziaria iniziata nel ’29 spinse lo Stato a creare l’Istituto per la
Ricostruzione Industriale (IRI), con il compito di rilevare i pacchetti azionari che in quel
momento erano detenuti da numerose banche che avevano finanziato società commerciali e
industriali mediante l'acquisto d’azioni e poi, a causa della crisi economica internazionale e
gli strascichi della caduta di Wall Street che aveva travolto le imprese finanziate, si erano
trovate con immobilizzazioni tali da non riuscire più a svolgere adeguatamente la loro
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funzione creditizia. L'IRI fu creata per liberare da questo carico le banche e attuare un piano
di risanamento delle imprese dissestate.. Nel settore creditizio l’ente acquisì tutte le
partecipazioni delle finanziarie delle tre banche italiane miste(Banca Commerciale Italiana,
Banco di Roma e Credito Italiano), ossia gli istituti che svolgevano la funzione sia di banche
commerciali sia di banche d’investimento con partecipazioni al capitale delle imprese. Il
Credito Italiano, controllato dall’IRI per il 78% contro il 94% delle altre due banche, rimase
comunque l’unica banca mista con una non marginale partecipazione dei privati al proprio
capitale.
Nel 1990, all’interno di una strategia di dismissione delle partecipazioni statali
nell’economia, sorse una Commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare pubblico e
per le privatizzazioni con il compito di definire le regole generali per la cessione delle quote
di controllo dello Stato in numerose imprese. Nel 1992 dai lavori della Commissione fu
emanato il D.L. 11 luglio 1992 n. 333 (convertito nella Legge n. 359 del 1992) che dispose
la trasformazione in società per azioni di IRI, ENI, ENEL ed INA richiedendo al Ministero
del Tesoro (divenuto titolare di queste società) la predisposizione di un programma di
riordino delle partecipazioni. Proprio all’IRI fu affidato, già un mese dopo, il collocamento
sul mercato del capitale azionario del Credito Italiano in suo possesso, che all’epoca
ammontava all’81,4% del totale (64,1% azioni ordinarie e 17,3% azioni di risparmio), con
l’obiettivo di una cessione attraverso asta competitiva internazionale. L’operazione però
rimase in sospeso fino all’estate successiva quando però si ebbero attriti tra l’allora
presidente Romano Prodi ed il presidente onorario di Mediobanca Enrico Cuccia su quali
dovessero essere le procedure di privatizzazione: Cuccia propendeva per la costituzione di un
“nocciolo duro”di investitori privati che potessero garantire all’istituto una direzione univoca
e per un aumento di capitale sociale di oltre 2.000 mld di lire (in parte sottoscritto dai
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maggiori investitori e per il resto da collocare sul mercato). Prodi contestava il fatto che da
una privatizzazione del genere l’IRI avrebbe ricavato solo la cessione dei diritti d’opzione.
Al termine della diatriba di decise per un cambiamento della procedura di collocamento,
optando per un’offerta pubblica di vendita (OPV) di 840 milioni di azioni, ossia la totalità
delle azioni ordinarie del Credito Italiano in mano all’IRI. Almeno il 40% dovevano essere
offerte “al dettaglio”, il resto ad investitori istituzionali con il metodo del book building
(indicazione anticipata di quantità e prezzi indicativi richiesti). L’operazione ebbe inizio il 6
dicembre 1993: l’offerta delle azioni (con esclusione delle azioni di risparmio ai dipendenti e
degli investitori professionali) si attuò solo in Italia; invece il collocamento privato di azioni
ordinarie (riservate agli investitori istituzionali) si svolse in molti altri paesi europei e negli
Stati Uniti. I coordinatori del collocamento furono Credito Italiano e Goldman Sachs, che
furono incaricati anche di fissare il prezzo, su cui comunque l’IRI aveva l’ultima parola:
venne fissato un incasso finale di 1.830 miliardi di lire corrispondente, considerando i bonus
shares accordati per favorire la stabilità dell’azionariato, ad una valutazione del 100% delle
azioni di circa 2.700 miliardi, inferiore alla capitalizzazione di Borsa che era di 3.012
miliardi (fu seguita in questo caso la tesi secondo cui la politica di underpricing crea una
forte domanda sul mercato dopo la chiusura dell’OPV e una conseguente salita delle
quotazioni, che facilita nuovi aumenti di capitale). Con questa vendita lo Stato trasformò una
banca di interesse nazionale in una public company; l’offerta pubblica coinvolse i piccoli
risparmiatori, mentre i grandi investitori istituzionali parteciparono ad una contemporanea
operazione privata che interessò anche gli investitori stranieri (fu fissata come limite
massimo di acquisto per gli investitori istituzionali ed esteri una quota pari al 2%). Alcune
azioni privilegiate (il 17,4% del totale), azioni di risparmio convertibili in azioni ordinarie,
furono destinate ai dipendenti del Gruppo. L’OPV si chiuse il 7 dicembre con 2,2 miliardi di
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azioni richieste da investitori istituzionali e 295000 richieste da privati relative a 2,9 miliardi
di azioni (per un totale pari a circa sei volte l’offerta). Malgrado l’opposizione di Prodi, la
nuova struttura proprietaria che si delineò alla prima assemblea dei soci (16 marzo 1994)
vedeva un nocciolo duro di soci molto forti (tra cui Franco Tosi Spa, Commercial Union,
Fininvest, Carimonte Holding, Italmobiliare, Fondigest, tutte con quote comprese tra l’1% e
il 3%) non ostili a Mediobanca e guidati da Allianz tramite la controllata RAS. Ne risultò che
i primi 12 azionisti in sostanza riuscissero a controllare la Banca con il solo 16% del capitale
sociale, in quanto risultarono del tutto assenti dal Consiglio di Amministrazione i
rappresentanti degli azionisti non facenti parte del nocciolo duro così come pure i
rappresentanti dei dipendenti.
La dismissione del Credito Italiano ha rappresentato comunque, insieme a quella dello SME,
la principale operazione su cui si è attuato il programma di privatizzazione in Italia.
L’operazione, che portava per la prima volta sul mercato una Banca di Interesse Nazionale
(BIN), è considerata a ragione l’apripista delle dismissioni delle grandi aziende fino ad allora
in mano pubblica.
1.2 Nascita del Gruppo UniCredito Italiano: acquisizioni ed iter di
integrazione delle sette banche nazionali nel 1998 - 1999
Il 26 ottobre 1994 il Consiglio di Amministrazione del Credito Italiano comunicò di avere
deliberato la promozione di un'offerta pubblica di acquisto sul 48,26% del capitale sociale
del Gruppo Bancario Credito Romagnolo (Rolo) ad un prezzo di 19.000 lire per azione;
l’offerta era condizionata dal raggiungimento del 48,26% (poiché il Credito Italiano aveva
già acquistato il 2,05% il giorno stesso della comunicazione) e dall’eliminazione entro 90
giorni dalla chiusura dell’OPA del limite statutario al possesso di più del 10% del capitale
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sociale. Il 2 novembre il CdA del Credito Romagnolo dichiarò l’OPA ostile ed ipotizzò una
fusione difensiva con la Cassa di Risparmio di Bologna (Carisbo). Il Credito Italiano rispose
migliorando le condizioni dell’offerta: 20.000 lire ad azione per il 63,66% del capitale
sociale, azionisti di minoranza per tre anni nel Comitato esecutivo e nel Collegio sindacale,
maggioranza di voto dell’80% per delibere straordinarie (compresa l’incorporazione nel
Credito Italiano). Il prospetto informativo sull’OPA venne pubblicato l’11 dicembre dietro
autorizzazione della Banca d’Italia e nulla osta della Consob. Il 15 dicembre venne
annunciata un’offerta concorrente sul 70% del capitale sociale del Rolo a 21.500 lire ad
azione da parte di una cordata composta da Cariplo, Imi, Carisbo e Reale Mutua: nel gennaio
1995 questa offerta fu giudicata amichevole dal CdA del Rolo. Il 24 gennaio Credit rilanciò
con un’offerta sul 78,36% del Credito Romagnolo, con Carimonte Banca e RAS partner
nell’operazione. Il Consiglio di Stato pochi giorni dopo si espresse con parere negativo sulla
possibilità di un controrilancio da parte della cordata guidata dalla Cariplo, a causa del
silenzio della normativa del tempo su tale punto. La Consob accolse il parere e al CdA del
Rolo non rimase che valutare come amichevole l’OPA post-rilancio: a fine offerta il Credit
accettò l’80,87% del c.s. del Credito Romagnolo, per una spesa di 3.770 miliardi di lire.
Il 12 maggio 1995 la Banca d'Italia incluse nel Gruppo Bancario Credito Italiano il Credito
Romagnolo e le Società già facenti parte del Gruppo Bancario del Credito Romagnolo che
venne così cancellato dall'Albo delle banche.
Verso la metà del 1995 i Consigli di Amministrazione del Credito Italiano, del Credito
Romagnolo e di Carimonte deliberarono un'ipotesi progettuale di fusione fra Rolo e
Carimonte, banca quest’ultima che traeva le sue origini dal Monte di Pietà di Bologna (anno
di nascita: 1473) e dal Monte di Pietà di Ravenna (anno di nascita: 1492). L'obiettivo era
quello di creare, accanto ad un istituto come il Credito Italiano a vocazione nazionale, una
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nuova banca dotata di forte radicamento territoriale: la nuova società “Rolo Banca 1473”
vede la luce il 1° gennaio 1996.
Nel frattempo il CdA del Credito Italiano approvava un piano industriale relativo al trimestre
1996-1998: l’ambizioso obiettivo che andava delineandosi era quello di portare al termine
del periodo il ROE, che nel 1995 era risultato di poco sopra al 3%, ad un livello stabilmente
superiore al 10%. Il tutto mentre lentamente andavano cambiando gli assetti proprietari di
maggioranza: si andava profilando infatti una sorta di alleanza tra il Credit e Allianz, che
deteneva direttamente il 5% del capitale azionario più un altro 5% in mano alla controllata
RAS. Questa alleanza segnò dall’altro lato il distacco del Credit da Mediobanca, che
dell’istituto aveva da sempre tracciato le strategie da seguire, a causa delle posizioni
contrastanti tra quest’ultima e Allianz.
Il 1997 vide una grande crescita negli utili del Credito Italiano: il titolo in borsa ne beneficiò
quasi triplicando il suo valore nel corso dell’anno. Si ebbe inoltre un rafforzamento della
struttura patrimoniale grazie ad un aumento di capitale a 1.440 miliardi reso possibile
dall’esercizio dei warrant emessi nel 1994; sempre nel 1997 venne eletto amministratore
delegato Alessandro Profumo, che diventerà figura cruciale nel processo di espansione
dell’istituto milanese.
Nei primi mesi del 1998, dopo alcuni approcci preliminari relativamente brevi, si profilò un
accordo tra il Credito Italiano e le fondazioni riunite nell’Unicredito SpA. Quest’ultimo era
sorto nel 1995 dal patto tra le fondazioni azioniste della Cassa di Risparmio di Verona
Vicenza Belluno e Ancona SpA (Cariverona SpA) e della CassaMarca SpA (con sede a
Treviso) di costituire una holding di gruppo bancario, denominato per l’appunto Unicredito
SpA, apportando ciascuna gli interi pacchetti azionari posseduti. Nel 1997 entrarono in
Unicredito, dopo lunghe trattative, anche le fondazioni a capo della Cassa di Risparmio di
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Torino SpA (Crt) e, con una quota minoritaria del proprio pacchetto azionario, della Cassa di
Risparmio di Trieste. Tra la fine del 1997 e l’inizio del ’98 si andava affermando tra il
management del gruppo bancario, a causa dell’esigenza della dismissione delle
partecipazioni in aziende di credito, l’ipotesi di un collocamento sul mercato di una
sostanziale quota azionaria. Proprio in quello scenario presero avvio i primi e fruttuosi
contatti con il Credito Italiano.
Il 15 aprile 1998 i CdA delle quattro fondazioni della holding valutarono all’unanimità
positivo l’accordo che andava delineandosi: il processo aggregativo che ne seguì fu realizzato
con una sofisticata manovra finanziaria.
Mediante una complessa operazione straordinaria di scissione parziale, Unicredito SpA
scisse dal proprio patrimonio le partecipazioni azionarie delle Casse federate di Verona,
Torino, Treviso e quella minoritaria della Cassa di Trieste, trasferendole al patrimonio di
Credito Italiano SpA quale società beneficiaria dell’operazione che, al contempo, mutò la
propria denominazione sociale in UniCredito Italiano. Contestualmente UniCredito Italiano
deliberò l’aumento del proprio capitale sociale a 2.340 miliardi mediante l’emissione di
nuove azioni, sulla base di un congruo rapporto di cambio (5,97 azioni di UniCredito Italiano
per ogni azione di Unicredito posseduta) a favore dei soci della società scissa Unicredito, che
in questo modo esaurì la sua funzione di holding bancaria. Le fondazioni ricevettero in
cambio azioni di UniCredito Italiano quotate in borsa, per una partecipazione al capitale del
nuovo gruppo complessivamente del 39%, di cui il 19% alla sola Fondazione Cariverona.
Nel 1999 il nuovo gruppo rilevò un ulteriore 28% delle azioni della Cassa di Risparmio di
Trieste dalla fondazione omonima, divenendone azionista di maggioranza, e il 97% delle
quote della Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto (CariTRo SpA).
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Nel 1999 dunque si poteva ritenere conclusa la prima fase del processo di sviluppo del
Gruppo: dall’aggregazione di sette banche nazionali (Credito Italiano, Rolo 1473,
CariVerona, Cassa di Risparmio di Torino, CassaMarca, Cassa di Risparmio di Trieste e
CariTRo) era sorta una nuova realtà bancaria prima in Italia per capitalizzazione di borsa,
strutturata secondo un modello federale geografico multibusiness, costituito da aziende di
credito con forte caratterizzazione regionale e locale operanti secondo una strategia comune,
che attraverso la diversificazione della produzione mirava alla realizzazione di consistenti
economie di scala e di scopo.
1.3 2001 - 2003: riorganizzazione interna ed avvio del Progetto S3.
Creazione del Gruppo UniCredit
Il 2000 ha visto il Gruppo conseguire risultati economici superiori a tutti i competitors
interni, con un ROE annuo che ha superato il 20% ed un utile di periodo attorno agli 1,4
miliardi di euro. L’avvenimento che maggiormente ha segnato l’esercizio dal punto di vista
operativo e strategico è stato l’acquisizione, in ottobre, di Pioneer Group, Inc., una società
internazionale con sede a Boston specializzata nella gestione fondi, tra i primi dieci operatori
negli Stati Uniti per quanto riguarda il risparmio gestito (110 miliardi di dollari) ed operante
in 20 Paesi. La successiva fusione con la società di gestione del risparmio del Gruppo, la
EuroPlus, ha dato vita a Pioneer Investments, che si è posizionata come terzo operatore in
Europa per raccolta e gestione di fondi comuni.
Nel secondo semestre del 2001 ha preso forma un progetto che mirava a modificare
profondamente l’assetto organizzativo ed operativo di UniCredito. Dopo tre anni in cui le
singole banche e il Gruppo nel suo complesso avevano visto un significativo miglioramento
nelle proprie performance economiche, con il conseguimento degli obiettivi prefissati nel
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Piano Industriale del 1998 e il raggiungimento di livelli di redditività, efficienza e ritorno sul
capitale tra i migliori in Italia e in Europa, il nuovo obiettivo del management era la
definizione di una strategia univoca che avesse consentito ulteriori progressi dal lato della
redditività ma che allo stesso tempo rendesse sostenibile la capacità del Gruppo di
incrementare le proprie quote di mercato; si mirava dunque ad una strategia che permettesse
una nuova fase di sviluppo dopo quella appena conclusa. Considerati i punti di forza storici
del Gruppo, rappresentati dal forte radicamento territoriale e dalla già avvenuta adozione di
modelli di business specializzati per segmento di clientela, l’evoluzione più efficace e
naturale del modello federale adottato dal Gruppo è sembrata quella che vedeva le banche
allora federate evolvere in nuove banche “di segmento” a copertura nazionale. Dal punto di
vista strategico la riorganizzazione del Gruppo per segmenti era vista come un’opportunità
per la creazione all’interno del Gruppo stesso di operatori specializzati che potessero trarre
beneficio sia dalla loro focalizzazione di business, sia da una scala dimensionale assai
superiore a quella dei concorrenti dalle caratteristiche analoghe, che seppur di successo,
risultavano vincolati dalla loro ridotta dimensione operativa.
Il Progetto S3 (3 Segmenti) consisteva nel riarticolare sotto il profilo societario ed
organizzativo le 7 banche commerciali facenti parte del Gruppo, mirando alla creazione di tre
nuove banche nazionali specializzate per segmento di mercato: una banca Corporate, con la
mission di diventare punto di riferimento per imprese ed enti pubblici italiani come sostegno
alle iniziative di crescita economica e sostegno all’innovazione; una banca Private, con
l’obiettivo di fornire servizi alla clientela con patrimoni più consistenti attraverso una
capacità di consulenza altamente qualificata; una banca Retail, dedicata alla fornitura di
servizi e consulenza al segmento di mercato costituito dalle famiglie e dalle piccole attività
commerciali.
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Il CdA del Gruppo, riunitosi il 14 dicembre 2001, ha approvato il Progetto S3 all’unanimità:
le linee guida della ristrutturazione segnavano come tappe del compimento del processo il 1°
luglio 2002, quando avrebbe avuto luogo l’incorporazione delle sette banche commerciali
nella Capogruppo UniCredito Italiano e il contestuale conferimento, da parte di quest’ultima,
del proprio ramo d’azienda a Credito Italiano, che avrebbe assunto una nuova denominazione
sociale e avrebbe rivestito il ruolo di banca unica, quale veicolo della riorganizzazione delle
banche e delle unità della Capogruppo coinvolte nel processo di cambiamento. Nei mesi
successive sarebbe stata sviluppata una riorganizzazione interna della banca unica, con
identificazione delle strutture, delle risorse e dei rapporti contrattuali con la clientela che
avrebbero costituito le future banche di segmento. Il 1° gennaio 2003 infine sarebbe avvenuta
la scissione delle attività della banca unica riferibili al mercato private e corporate, mentre
alla banca unica sarebbero state lasciate le attività riferibili al mercato retail. Della
Capogruppo invece sarebbero rimasti immutati il ruolo e la struttura, con il mantenimento del
ruolo di indirizzo strategico nella allocazione e gestione del capitale, nel presidio delle risorse
chiave e nel governo dei rischi creditizi e di mercato e la conservazione della struttura
divisionale fino ad allora assunta (Banche Italia, Wholesale Banking, Banche Estere e Nuova
Crescita) con una responsabilità di coordinamento strategico, commerciale e operativo dei tre
mercati e di governo delle società connesse ai rispettivi business.
Il 1° luglio 2002 si è avuta l’incorporazione delle sette banche in UniCredito Italiano e il
conferimento del ramo aziendale di quest’ultimo a Credito Italiano, che è stato ridenominato
UniCredit Banca S.p.A. Come precedentemente pattuito esso ha svolto nella seconda fase del
progetto, da ottobre a dicembre, il ruolo di banca unica con l’obiettivo di strutturare e
organizzare le attività per segmento di mercato e svolgere le mansioni propedeutiche alla
terza fase del progetto.