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dello stesso, termina con l’analisi delle sfide che la marca contemporanea
si trova ad affrontare.
Nel secondo capitolo sono descritte ed analizzate le cinque categorie su
cui si basa il valore della marca, che sono, nello specifico:
ξ fedeltà alla marca,
ξ notorietà di marca,
ξ qualità percepita,
ξ altri valori associati alla marca,
ξ altre risorse esclusive della marca.
Nel terzo capitolo troviamo invece raggruppati alcuni interessanti
strumenti e tecniche di branding: da quelli più classici, come il co-
marketing e il product placement, a quelli non convenzionali come il
guerrilla branding.
Il quarto capitolo tratta il tema centrale della tesi, ovvero l’estensione
della marca analizzandone condizioni, tipologie ed effetti.
La tesi termina con la presentazione di un caso empirico: il brand
Pininfarina e la sua estensione al comparto del product&interior design.
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CAPITOLO 1. LA MARCA
1.1 Storia e sviluppo della marca: dalla preistoria alla modernità
Quando nasce la marca? La marca esiste da quando esiste l’uomo che,
organizzandosi in piccole comunità, diede il via alle prime attività di
produzione e di scambio.
In Mesopotamia, già dalla preistoria, i mattoni dei palazzi venivano
marchiati da un segno identificativo esattamente come avveniva all’epoca
degli antichi Greci e Romani. Queste ultime civiltà, contraddistinte da
sistemi economici e commerciali avanzati, misero a punto un sistema di
marchi per certificare l’origine, la fonte o la paternità dei beni di
consumo.
In sostanza non si trattava di questione di concorrenza commerciale tra le
diverse botteghe ma, semplicemente, di un sistema di segni, utile ad
evitare confusioni durante il trasporto.
In questa fase embrionale del brand è già possibile individuare quattro
peculiarità della marca (Semprini, 1996):
ξ Si marca un’identificazione: i prodotti tendevano ad essere molto
simili tra loro sia dal punto di vista del materiale sia dal punto di
vista dello stile realizzativo, quindi era quindi necessario
determinare l’origine delle partite. Riconoscimento però che non si
limitava al trasporto, ma a tutte le fasi successive, fino al suo
arrivo al consumatore finale.
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ξ Si marca un’appropriazione: mentre nei casi più semplici il
prodotto, uscendo dalla bottega giungeva direttamente al
destinatario, nei casi più complessi l’iter del prodotto veniva
complicato dalla presenza di numerosi intermediari, ognuno dei
quali aveva il desiderio di “sovrascrivere” o aggiungere il proprio
segno distintivo ai precedenti.
ξ Si marca una differenziazione: come precedentemente
sottolineato, in epoca antica i beni di consumo erano
contraddistinti da un’elevata standardizzazione; differenziare i
prodotti era quindi un’esigenza pratica per separare le diverse
produzioni. Questa procedura evidentemente caratterizzava
esclusivamente il sistema di distribuzione e il circuito
commerciale, quelli che noi ora identificheremmo come rete di
distribuzione.
ξ Si marca una qualificazione: come avviene in epoca moderna il
prodotto della bottega A poteva risultare, ad esempio, più
resistente o consegnato più velocemente del prodotto realizzato
dalla bottega B: le marche antiche, quindi, da un lato esplicitavano
qualità o difetti immediatamente individuabili (si inizia a parlare di
segni, non più di semplici scarabocchi, che permettono, senza
testarli, di riconoscere prodotti più o meno buoni); dall’altro lato
palesavano caratteristiche intrinseche, come la puntualità di
consegna, che contribuiscono, nell’arco di anni, a determinare la
reputazione dei produttori.
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Abbandonando la disamina delle origini del brand, la storia della marca
moderna può essere divisa in due macro periodi. Il primo prende il via
con la rivoluzione industriale e termina con il primo dopoguerra, il
secondo invece inizia attorno agli anni venti ed è contraddistinto dalla
comparsa della marca contemporanea.
La fine del diciannovesimo secolo, secondo molti, segna l’inizio della
golden era (Fabris e Minestroni, 2004) della marca moderna. Molti dei
brand più solidi e conosciuti nascono nell’ultima decade del 1800:
ricordiamo, solo a titolo esemplificativo, Avon (1896), Dunlop (1888),
Swarovsky (1895). La rivoluzione industriale ha appena modificato
radicalmente l’economia e la società mondiale. La produzione
standardizzata e automatizzata trasforma il prodotto artigianale in merce
industriale rendendo tutto più anonimo.
In questo primo periodo vengono individuati alcuni aspetti fondamentali
che contribuiscono alla nascita della marca (Semprini, 1996):
ξ La produzione di massa: la produzione industriale soppianta
l’artigianato.
ξ La produzione standardizzata: nasce la cosiddetta “merce
industriale”. Standardizzazione e anonimato facilitano gli scambi
commerciali, la domanda diviene omogenea, il consumatore
acquista un prodotto indifferentemente dall’identità del produttore.
La differenziazione avviene solo a livello di elementi oggettivi
come il prezzo.
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ξ Anonimato degli scambi: viene a mancare la relazione tra
produttore e cliente, si svuotano luoghi non solo commerciali, ma
anche di socializzazione, come le botteghe e i mercati.
ξ La complessità della rete distributiva: la merce uscita dalla
fabbrica passa attraverso una fitta rete di intermediari. A fine ‘800
nasce l’antenato dell’ipermercato: il bazar.
ξ L’ignoranza del prodotto acquistato: diviene necessario
spiegare, garantire e rendere familiari le merci.
A partire dagli anni venti del XX secolo la marca diviene fenomeno
commerciale. In questi primi decenni del secolo non si parla più
semplicemente di produzione di massa, ma anche di consumo di massa. Il
benessere economico infatti muta radicalmente la domanda, che diviene
non solamente quantitativamente ampia, ma anche qualitativamente
diversificata (Semprini, 1996).
Allo sviluppo del settore industriale si affianca l’intensificazione dei
commerci: l’allargamento dei mercati determina un ulteriore
allontanamento del consumatore dal produttore; la vendita viene quindi
affidata ad imprese intermedie che possono essere considerate i germi
delle prime forme distributive (Fabris e Minestroni, 2004).
Una domanda sempre più esigente, che determina l’uso massiccio della
marca come elemento di diversificazione, unita ad un aumento
esponenziale della concorrenza, determinano il passaggio dal mercato
delle merci al mercato della marche. Quest’ultimo presenta alcune
caratteristiche peculiari (Semprini, 1996):
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ξ Peso crescente dell’innovazione: il prodotto di marca, per potersi
differenziare, deve garantire standard qualitativi superiori alla
concorrenza.
ξ Lo sviluppo della comunicazione: erroneamente confusa con la
pubblicità, la comunicazione inizia a sviluppare molteplici
strumenti tra i quali ricordiamo il packaging, le sponsorizzazioni e
la comunicazione istituzionale.
ξ L’attenzione rivolta al consumatore: i destinatari finali
divengono oggetti di studi approfonditi in modo che si possano
comprenderne bisogni ed attese.
ξ La trasformazione della cultura d’impresa: all’interno delle
imprese compaiono nuove sezioni quali il marketing e la
comunicazione. Figura determinante nella gestione della marca
diviene il brand manager, che si occupa della gestione trasversale
di una determinata marca.
ξ Abbandono delle concezioni economiche classiche: mentre per
le teorie classiche il valore della merce era proporzionale alla sua
scarsa disponibilità, con il mercato delle marche il valore dipende
dalla massiccia diffusione del prodotto.
Analizziamo ora l’evoluzione del brand in Italia, negli ultimi cinque
decenni del XX secolo. Gli anni ’50 segnarono l’inizio di un ventennio di
sviluppo economico straordinario e mai conosciuto prima (Fabris e
Minestroni, 2004). I prodotti che negli anni della ricostruzione erano
considerati spese occasionali o di lusso, diventano oggetti d’uso comune:
gli Italiani iniziano a comprare all’americana (Scarpellini, 2001).
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Mentre l’automobile è ancora troppo costosa, sono le marche di
elettrodomestici e di televisori ad animare i sogni degli italiani.
Terminata la dura fase della ricostruzione, gli Italiani sembrano non
volersi assestare, ma recuperare tempo e spese perduti con il conflitto
bellico. Il miracolo italiano è segnato da due profonde trasformazioni:
l’urbanesimo da una parte e la centralità del settore secondario dall’altra.
Con essi cessa anche la cultura del risparmio, tipicamente contadina; il
risparmio non rappresenta più un valore primario: sono i beni
espressione della nuova società industriale, i beni del progresso a
costituire una meta che appare condivisibile a molti (Fabris e Minestroni,
2004).
In Italia è possibile identificare addirittura l’ora in cui è comparsa la
marca: 3 febbraio 1957, ore 20.50. In quel preciso istante, dopo il Tg,
irrompe nelle case degli italiani Carosello, prima traccia della pubblicità
nostrana (Aquilio, in: Mariano e Megido, 2007).
Sono i personaggi del celebre programma a rendere popolare le marche,
anche presso le fasce più giovani di spettatori: chi non ricorda
Carmencita per Lavazza o Topo Gigio per Pavesi.
Le marche, grazie alla televisione che inizia il suo “sorpasso” sulla radio,
cominciano a diventare una “storia”, nonostante le evidenti restrizioni
della televisione di Stato. Pur in presenza di una fitta rete di regole e
controlli, ritenuti necessari dalla RAI per non intaccare i fini pedagogici
dei programmi, Carosello ha segnato, grazie ai primi marchi e slogan
riconoscibili, il definitivo abbandono della sfera locale e del consumo
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artigianale. La marca diviene sinonimo di modernità e progresso,
caratterizzata da uno sviluppo senza intralci (Semprini, 2006).
Gli anni ’60 sono contraddistinti dalla nascita dei supermercati: oggetti e
soggetti del consumo, modalità di interazione tra venditore e cliente
subiscono un’autentica rivoluzione. In particolare, avviene uno
spostamento del potere dal dettagliante al consumatore ed un
significativo passaggio dai prodotti unbranded a quelli branded (Fabris e
Minestroni, 2004).
In questo decennio il consumatore, davanti ad un’offerta sempre più
estesa, non può più essere soggetto appartenente ad una massa indistinta
ed omogenea: diviene, infatti, critico e in grado di scegliere i beni più
adatti alle proprie esigenze, grazie alla comprensione delle convenzioni
che regolamentano i “giochi” del mercato. Si parla perciò di marca
funzionale, un concentrato di informazioni ed esperienze d’uso, una
bussola che guida il consumatore.
Alla fine del decennio, con le rivolte operaie e studentesche, lo sviluppo
della marca subisce un netto rallentamento. Rivoluzione e lotte si
scontrano con i significati intrinseci della marca: benessere e imprese. Le
aziende italiane, schiacciate da un lato dalla politica e dall’altro dai
sindacati, cessano di investire sulle marche. Sono rari i brand che
riescono ad emergere, grazie alla corrispondenza con i valori del ’68,
come, ad esempio, l’auto Dyane che si identifica come auto contestataria
e rivoluzionaria (Minestroni, 2002).
Gli anni Settanta in Italia sono stati profondamente segnati dalla crisi
petrolifera del 1973: gli effetti non si fanno sentire solo dal punto di vista
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economico, con l’impennata dell’inflazione, ma anche dal punto di vista
sociale. Il sistema capitalistico occidentale viene duramente criticato in
quanto portatore di sprechi. I consumi vengono demonizzati e il partito
comunista diviene il primo partito italiano.
Le istituzioni, dalla Chiesa alla famiglia, che avevano indirizzato l’Italia
nel dopoguerra, entrano in crisi. In questa “breccia” si inseriscono i
media che, senza avversari plausibili, divengono fonte di socializzazione
e di trasmissione di ideologie. Proprio in questo contesto, nel 1975 nasce
Mulino Bianco, brand fortemente contraddistinto da valori puri e antichi,
che si rifanno alla cultura contadina.
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo, una radicale
svolta ha mutato lo scenario: l’individuo torna ad essere al centro
dell’attenzione, soppiantando così il dominio del sociale.
In quegli stessi anni viene abbattuto anche il monopolio della tv statale,
grazie all’avvento delle prime televisioni commerciali. Esse divengono in
breve tempo un efficace canale attraverso il quale le marche possono
raggiungere un pubblico vastissimo (Fabris e Minestroni, 2004). Dal
punto di vista del consumatore, le televisioni private sono sinonimo di
comunicazione moderna e stimolante.
Il 1º gennaio del 1977 Carosello dà l’addio al pubblico italiano. Ma è
anche l’anno in cui la marca cresce divenendo una star (Aquilio, in:
Mariano e Megido, 2007). Il consumatore, in questa fase, decide di
esprimere se stesso attraverso i prodotti, gli oggetti divengono una sorta
di riflesso della personalità e del ceto sociale dell’acquirente, la merce
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cessa di essere un elemento funzionale e diviene simbolo di uno stile di
vita.
L’attenzione, di conseguenza, si sposta sugli aspetti comunicativi ed
espressivi, le imprese realizzano prodotti allo scopo di soddisfare
esigenze edonistiche: per la prima volta si parla e si avverte l’esigenza di
costruire una vera e propria identità della marca (Aquilio, in: Mariano e
Megido, 2007). In risposta a questa nuova tendenza, Jacques Séguéla
elabora una teoria che per molti decenni è stata la guida per chi desidera
scegliere e costruire un’identità di marca: la star strategy. Tale teoria era
imperniata sul concetto che il pubblico non compra una merce ma la sua
immagine, non consuma l’effetto ma la voglia di prodotto (Séguéla,
1985). Avviene una smaterializzazione della marca che diviene una vera
e propria star della comunicazione.
Nella teoria del francese, il consumatore affermava la sua realizzazione
sociale attraverso la marca e, perchè ciò si potesse veramente avverare,
tutto il mondo pubblicitario e il linguaggio pubblicitario dovevano
strutturarsi in modo da far apparire il brand un mito.
Secondo Séguéla star non si nasce ma si diventa, a forza di intelligenza,
di perseveranza, di metodo e di talento (Séguéla, 1985).
Tre sono gli aspetti fondamentali che contraddistingono una marca:
ξ Il fisico. Ciò che rappresenta la concretezza della marca. Il brand
deve presentare nel modo più appropriato e originale la propria
“fisicità”.
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ξ Il carattere. La marca deve esporre la propria visione del mondo,
le proprie idee. È il carattere, infatti, che determinare stili e
reazioni della società.
ξ Lo stile. Ovvero l’esteriorizzazione dei valori che a loro volta
determinano inequivocabilmente la corporeità.
La marca, per divenire star, una sorta di creatura a metà tra l’umano e il
divino, deve possedere altre tre qualità:
ξ Deve convincere. Il suo obiettivo è spingere all’acquisto il
consumatore, deve far sognare e saper vendere sogni.
ξ Deve resistere al tempo. L’interesse del pubblico deve essere
conquistato senza annoiare, rinnovandosi costantemente senza
stravolgere la sua essenza.
ξ Deve saper sedurre. La razionalità viene subordinata ai sensi che
vengono colpiti dal richiamo sensuale del brand.
È opportuno sottolineare, per concludere l’esame di questo decennio,
l’importanza della teoria di Séguéla. Seppure al giorno d’oggi l’approccio
della star strategy sia più che altro romantico, al francese va sicuramente
attribuito il merito di aver spostato l’attenzione sulle componenti
immateriali che ruotano attorno al brand.
Con la fine degli anni ’80 si inaugura un periodo di cambiamenti
socioculturali epocali. Il crollo del Muro di Berlino, le guerre del Golfo e
dei Balcani, i progressi tecnologici, le scoperte scientifiche, le
innovazioni nel campo delle comunicazioni, con la TV satellitare e la
multimedialità, sono le motivazioni più evidenti e che più hanno inciso
sui mutamenti del decennio.
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In questo clima, gli stessi consumi subiscono una totale inversione
rispetto al passato. Il potere d’acquisto inizia un declino progressivo e
costante. La diminuzione dei redditi e la crisi del welfare state pongono
fine alle speranze di sviluppo dei decenni precedenti; inizia a farsi largo
la consapevolezza di un futuro quasi certamente più accidentato.
Parallelamente a queste rivoluzioni, anche se si potrebbe parlare di
involuzioni, avviene un cambiamento nella rete distributiva con la
comparsa di nuove formule: ipermercati, centri commerciali e hard
discount.
Nato in Germania negli anni ’70, il discount si propone di offrire
convenienza al consumatore, agendo su tutte e tre le componenti della
catena del valore distributivo: contenuto, contesto e infrastruttura (Lugli e
Pellegrini, 2002).
Sebbene esistano tre declinazioni, a seconda della convenienza, il
discount che in Italia ha avuto maggior successo sin dagli inizi è stato
quello hard. Con esso trionfano il prodotto “nudo e crudo” (Fabris e
Minestroni, 2004), la convenienza rispetto al prezzo annullando l’ appeal
della marca.
Con il crollo dell’edonismo, l’acquisto torna ad essere funzionale. Non vi
è più nessuna traccia di sensorialità ed emozioni nello shopping.
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1.2 Dal ciclo vita alle marche culto
Parafrasando una delle immutabili leggi sul brand, nessuna marca risulta,
nella sua storia, immortale (Ries e Ries, 2002). Questa teoria sottende
un’inevitabile mortalità del brand. Il destino della marca è quindi,
esattamente come avviene per gli uomini, segnato da una sorta di ciclo
vita, contraddistinto da un declino ed una scomparsa.
La realtà dei fatti palesa invece l’esistenza di marche, dette evergreen,
che non solo hanno saputo mantenere, anche per più di un secolo, la loro
leadership, ma anche innovarsi. Brand come Coca Cola o Levi’s sono
ottimi esempi.
Analizzando, infatti, le strategie di queste marche, è possibile identificare
un denominatore comune: la capacità di mantenere costante il dialogo,
quello che viene definito fine tuning, con il consumatore, la capacità di
comprendere o meglio prevedere i cambiamenti, l’umiltà di mettersi in
costante discussione.
Effettuare quindi correzioni, anche impercettibili, per mantenere costante
il rapporto con il consumatore diviene non più un’opzione, ma una vera e
propria regola di sopravvivenza (Fabris e Minestroni, 2004).
Com’è possibile però conciliare questo continuo adattamento con la
necessità di una marca di mantenere una personalità forte e inalterata nel
tempo?
Attraverso una duplice iniziativa. In primo luogo a livello tecnologico:
ovvero attraverso l’innovazione (Gillette, ad esempio, ha mutato
costantemente il formato e la tipologia delle proprie lamette). A volte
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però gli adattamenti tecnologici non sono necessari e si agisce quindi ad
un secondo livello, ossia sulla comunicazione.
Mantenendo costanti i core values, pena la perdita dell’identità, bisogna
mutare i significati: non solo i codici e i linguaggi usati, ma anche i
media e i canali che veicolano la comunicazione. Mentre la continuità
garantisce la forza della marca, soltanto la sua evoluzione ne assicura la
modernità (Semprini, 1996).
Le marche divengono quindi l’espressione della società dei consumi, ove
stabilità e trasformazione dialogano senza annullarsi a vicenda.
La marca si trova a dover compiere un processo di armonizzazione sia
con il contesto sia con i propri interlocutori: deve scegliere i destinatari,
comprendendone gusti e sensibilità, deve anticipare i cambiamenti
salvaguardando la propria stabilità. La rigidità, la staticità uccidono la
marca. Davanti ad un mercato dinamico la marca che non agisce
criticamente su di sè rischia di morire.
Paradossale però che, di fronte a questa evidenza, gran parte delle marche
non si rinnovi o al massimo lo faccia in maniera troppo semplicistica:
attraverso un upgrading del packaging e un updating del logo.
La marca in sostanza deve rimanere se stessa, mantenendo intatto il
proprio patrimonio genetico, ma deve parallelamente evolversi in sintonia
con il contesto sociale e tecnologico. La marca deve nutrirsi del
cambiamento.
Un brand impegnato a cogliere gli umori del mercato, a percepire le
aspettative e i desideri del pubblico è un brand perenne, una marca di
successo.