Introduzione
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Più precisamente, nel primo capitolo verrà esposto il concetto di
valutazione del rischio e della sua gestione, elementi di vitale
importanza per la messa in atto di opportuni piani di intervento
atti a proteggere e tutelare la vittima, dal maltrattante.
All’interno del secondo capitolo verrà descritto il SARA-S, uno
strumento indispensabile per effettuare una adeguata valutazione
del rischio. A ciò verranno aggiunti una serie di contributi
scientifici atti a sostenere il collegamento tra i fattori di rischio e
la recidiva.
Infine, il terzo capitolo è stato dedicato alla ricerca svolta dal
sottoscritto, che ha avuto come obiettivo proprio quello di
verificare, su un campione di 395 donne e attraverso l’uso del
SARA-S, se i fattori di rischio sono predittivi della recidiva del
comportamento violento a breve termine.
Capitolo I
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Capitolo 1
Un passo avanti nella comprensione
della violenza domestica: la valutazione
del rischio.
1.1 La valutazione del rischio nei casi di violenza
domestica
La valutazione del rischio nei casi di violenza domestica,
rappresenta un problema di una certa rilevanza nella letteratura
scientifica e professionale odierna (Kropp, 2004): in passato
molti studi hanno focalizzato la loro attenzione solo ed
esclusivamente sulla valutazione del rischio dei comportamenti
criminali (Andrews & Bonta, 1995), della violenza in generale
(Douglas, Cox, Webster, 1999) e della violenza messa in atto da
individui con disturbi mentali.
Solo recentemente, c’è stato un crescente interesse per la
valutazione del rischio nei casi di violenza domestica.
Capitolo I
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Sebbene il termine “valutazione del rischio” non venga sempre
usato, dai professionisti del settore (come avvocati, psicologi,
assistenti sociali e forze dell’ordine) viene molto spesso richiesto
di giudicare e valutare la pericolosità di un soggetto, al fine di
sviluppare idonei programmi di protezione per la vittima. In
genere, accanto al termine valutazione del rischio se ne
affiancano altri come valutazione del pericolo (Campbell, 1995),
della letalità (Hart, 1990) e delle minacce (Fein, Vossekuil,
Holden, 1995): l’elemento costante che accomuna queste diverse,
ma seppur simili, terminologie è la protezione della vittima di
violenza dal partner abusante. Il principio su cui si basa la
valutazione del rischio è che la violenza è una “scelta”
influenzata da una serie di fattori personali, sociali ed ambientali:
in questo caso si tratta di capire le motivazioni, ovvero i fattori di
rischio, che hanno spinto quel soggetto a mettere in atto un
comportamento violento, cercando di superare l’approccio
deterministico del comportamento umano. Però al fine di
identificare un fattore di rischio, non è sufficiente individuare le
caratteristiche del maltrattante e le circostanze che lo hanno
spinto ad agire violenza, se poi non si può appurare che la
violenza è stata effettivamente reiterata (Baldry, 2006, pg 65). E’
necessario individuare chi fra i maltrattanti reitererà tali condotte
violente e di capire cosa lo distingue da un altro maltrattante che
non metterà in atto la recidiva.
Capitolo I
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1.2 Cos’è il rischio?
Molti studi sulla valutazione del rischio di violenza e sulla
recidiva definiscono il rischio nei termini “della probabilità che
qualche forma di violenza possa ripresentarsi in futuro” (Dutton,
Bodnarchuk, Kropp, Hart, Ogloff, 1997; Hanson, Fallace-
Capretta, 2000; Rosenfeld, 1992).
In alternativa, lo stato di rischio può anche essere definito come
“la propensione dell’individuo a mettere in atto comportamenti
violenti, frutto di cambiamenti biologici, psicologici e sociali”
(Skeem, Mulvey, 2002; Laing, 2004). La decisione riguardante la
probabilità di rischio deve prendere in considerazione anche
l’imminenza, la natura (emotiva, fisica o sessuale), la frequenza e
la gravità della violenza oltre alla probabilità che l’atto violento
tenda a presentarsi in futuro (Mulvey, Lidz, 1995). Da ciò
deduciamo che la valutazione del rischio è un processo
complesso che deve prendere in considerazione il chi, il cosa, il
dove, il quando e il come della violenza. Per esempio, un
maltrattante potrebbe essere a rischio di compiere atti violenti a
breve termine, ma non a lungo termine: si tratta, in questo caso,
di due scenari completamente diversi che generano, per
l’appunto, due differenti implicazioni sia per i piani di sicurezza
per la vittima, sia per gli interventi delle forze dell’ordine, sia per
il trattamento del maltrattante. E’ da ricordare, inoltre, che il
processo di valutazione è influenzato anche dal contesto in cui
esso viene effettuato (Heilbrun, 1997), nel senso che in alcuni
Capitolo I
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contesti ( come quello giudiziario) si è più interessati alla
probabilità che un comportamento violento ha di presentarsi,
mentre in altri (come quello trattamentale) si è più interessati
all’imminenza e alla natura della violenza. Ricordiamo che
l’intero processo di valutazione del rischio è strutturato in tre
fasi: 1) la raccolta delle informazioni da parte del valutatore in
modo esaustivo e documentato, attraverso un colloquio con la
vittima, con il maltrattante (se possibile) e con altre persone a
conoscenza del caso; 2) codificare la presenza dei fattori di
rischio; 3) strategie di gestione del rischio: dopo aver
determinato se e quali fattori sono presenti, il valutatore dovrà
individuare gli interventi e le strategie più appropriate per
prevenire la recidiva e proteggere la vittima. Le strategie di
gestione del rischio, a disposizione del valutatore, sono quattro:
ξ Monitoraggio del maltrattante, al fine di valutare eventuali
cambiamenti del suo livello di rischio e di mettere a punto
strategie più adatte per la tutela della vittima, una delle
possibili strategie di monitoraggio è la sorveglianza del
caso da parte di diverse figure professionali (assistenti
sociali o forze dell’ordine).
ξ Controllo/Supervisione. Questa è una strategia molto più
intrusiva rispetto alla precedente in quanto va a limitare
fortemente la libertà dell’individuo. Il suo obiettivo è
quello di mettere il maltrattante in una condizione di
maggiore difficoltà di reiterare la violenza, attraverso
opportuni interventi quali la custodia cautelare.
Capitolo I
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ξ Pianificazione di un piano di sicurezza per la vittima,
come ad esempio, l’accoglienza presso una casa-famiglia o
un centro antiviolenza. Questa strategia ha la sua ragion
d’essere dato che la messa a punto di sistemi di controllo e
supervisione non implica che essi vengano rispettati e
proprio per questo motivo è necessario tutelare e
proteggere la vittima.
ξ Trattamento. Sebbene le ricerche non sono concordi
nell’affermare che il trattamento diminuisca la quota di
violenza (soprattutto nel caso della violenza psicologica a
lungo termine) è comunque possibile che esso abbia un
impatto “benefico” sul maltrattante. I trattamenti più usati
sono quelli psico-educativi (il cui obiettivo è modificare
gli atteggiamenti che supportano e/o condonano la
violenza) e la terapia individuale o di gruppo (mira a far sì
che il reo riesca a sviluppare delle competenze per poter
meglio gestire le proprie emozioni e la propria
aggressività).
1.3 Come dovrebbe essere condotta la valutazione del
rischio?
La valutazione del rischio può essere condotta utilizzando
principalmente quattro modelli o metodi (Dolan, Doylem, 2000;
Kropp, Hart, Belfrage, 2005):
Capitolo I
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ξ La valutazione clinica non strutturata è probabilmente
l’approccio più usato per la valutazione del rischio di
violenza proprio perché costituisce uno strumento di facile
utilizzo da parte dei valutatori (Dutton, Kropp, 2000).
Questo è un metodo che non prevede particolari restrizioni
o guide linea per il valutatore: la decisione riguardante la
pericolosità del soggetto dipende dalla discrezionalità del
valutatore e dalle sue competenze. Proprio queste due
caratteristiche rappresentano, in un certo senso, il limite di
questo modello: diversi autori ( Litwack, Schlesinger,
1999; Quinsey, Harris, Rice, Cormier, 1998) lo hanno
criticato proprio per la sua scarsa scientificità e scarsa
attendibilità, definendolo “informale”, “soggettivo” ed
“impressionistico” (Grove, Meehl, 1996). Il limite è
costituito proprio dal fatto che il professionista va ad
indagare quegli aspetti legati a chi ha commesso il reato o
alle circostanze in cui il reato è stato commesso, basandosi
sul proprio modello teorico di riferimento, rischiando così
di omettere fattori importanti e decisivi per la valutazione
stessa. L’unico vantaggio di una valutazione non
strutturata è la possibilità di effettuare un’analisi
ideografica del comportamento e di individuare le strategie
di intervento specificatamente a misura di quella persona,
trattandosi di un’approccio estremamente flessibile.
ξ La valutazione attuariale, metodo designato per predire
specifici comportamenti in uno specifico arco di tempo.
Capitolo I
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Grove e Meehl (1996) la definiscono “meccanica ed
algoritmica” proprio perché fornisce una stima precisa
della probabilità di violenza futura. Tale metodo, dà la
possibilità al valutatore di prendere delle decisioni in base
ad un punteggio ottenuto su una scala preordinata di
fattori, per lo più statici (cioè stabili nel tempo) come
quelli socio-demografici: diminuisce così l’errore
discrezionale umano proprio perché si tratta di una
procedura replicabile in momenti diversi e attuata da
valutatori diversi, che segue una prassi ben precisa
(identificare se determinati fattori sono presenti, al fine di
stabilire un punteggio totale da confrontare con i dati
normativi, per stabilire il livello di rischio). Anche questo
modello, però, è stato criticato per diversi motivi: 1) la
mancanza di un suo uso pratico (Litwack, 2001); 2)
l’impossibilità di garantire una sua validità utilizzando altri
campioni (dato che le procedure proprie di questo metodo,
sono state validate con lo stesso campione con cui è stato
fatto lo studio); 3) l’eccessiva attenzione posta sui fattori di
rischio statici, a scapito di quelli dinamici, ignorando in tal
modo i cambiamenti nel tempo del livello di rischio; 4)
l’esclusione dell’apporto che può dare il professionista,
valutando la qualità e la rilevanza dei diversi fattori di
rischio (soprattutto in presenza dei cosiddetti “item critici”
ovvero quei fattori la cui presenza aumenta notevolmente e
sensibilmente il rischio di recidiva): il rischio, infatti, non è
Capitolo I
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sempre funzione del numero dei fattori di rischio presenti.
Tra gli strumenti attuariali esistenti, ricordiamo il Violence
Risk Appraisal Guide (VRAG) e l’Ontario Domestic
Assault Risk Assessment (ODARA): in entrambi gli
strumenti, sommando i punteggi ottenuti ai singoli item, si
otterrà il punteggio totale che rappresenterà il rischio di
recidiva.
ξ La valutazione professionale strutturata o approccio
clinico (Hanson, 1988) cerca di sopperire ai limiti delle
due precedenti valutazioni, permettendo al valutatore di
individuare i fattori di rischio per la recidiva (prendendo in
considerazione tutti gli studi che hanno dimostrato,
teoricamente ed empiricamente, l’associazione tra ciascun
fattore e la recidiva) nonché pesarli e combinarli in base a
quanto ritenuto rilevante per il caso specifico preso in
considerazione. Tale valutazione è sì il frutto delle diverse
ricerche svolte sul maltrattamento, ma è anche funzione
dell’esperienza professionale maturata analizzando tutti i
casi di maltrattamento. Al momento della valutazione,
l’operatore utilizzerà una sorta di schema, delle linee guida
già preordinate che, per l’appunto, indicheranno quali
informazioni verranno raccolte e come. Lo scopo di tale
approccio è duplice: 1) prevenire la violenza, focalizzando
l’attenzione sui fattori di rischio dinamici, quelli cioè che
tendono a cambiare nel tempo; 2) individuare le più
opportune strategie di intervento al fine di evitare la messa
Capitolo I
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in atto della recidiva. Tra le varie procedure strutturate
ricordiamo il SARA (di cui parleremo approfonditamente
in seguito), il Domestic Violence Supplementary Report
(DVSR) usato soprattutto dalla polizia e il Danger
Assessment (DA) (Campbell, Wolf, 2001), un’intervista
fatta con la vittima sulla storia della violenza a cui si
associa l’uso di una scala strutturata composta da 20 items
con formato di risposta sì/no.
ξ La valutazione anamnestica (Melton, Petrila, Porythress,
Slobogin, 1997; Miller, Morris, 1988; Otto, 2000). In
questo caso, il valutatore dovrà “identificare i fattori di
rischio della violenza attraverso una dettagliata analisi
della storia dell’individuo e del suo comportamento” (Otto,
2000, pg 1241). In questo modo, l’esaminatore cercherà di
identificare le caratteristiche, collegate agli atti violenti,
proprie dell’individuo in questione.
1.4 Quale dovrebbe essere il ruolo della vittima nella
valutazione del rischio?
L’attendibilità della valutazione del rischio, dipende anche
dall’attendibilità delle informazioni su cui essa si basa. Le
informazioni ottenute dal maltrattante non sono molto affidabili:
molto spesso questi soggetti tendono a minimizzare l’accaduto e
di conseguenza il valutatore (inesperto) tenderà a sottostimare il
livello di rischio. Proprio per questo motivo, la valutazione del
Capitolo I
10
rischio deve focalizzare l’attenzione sulla vittima: questa può
fornire all’operatore informazioni cruciali riguardanti i
comportamenti violenti passati del maltrattante, la sua
personalità, i suoi atteggiamenti e altro ancora. Tale valutazione
è, di solito, molto accurata poiché nessuno conosce l’abusante
come la vittima (Hart, 1994). Inoltre, l’importanza delle
informazioni forniteci dalla vittima è stata empiricamente
dimostrata dagli studi di Weisz, Tolman & Saunders (2000),
Whittemore & Kropp (2001). E’ importante ricordare che,
comunque, la percezione del rischio della vittima non è sempre
accurata e non riflette necessariamente lo stato reale di pericolo
(Weisz, Tolman & Saunders, 2000): la donna può anche
grossolanamente minimizzare o sottostimare il rischio a cui è
sottoposta, come dimostrato da Campbell, McFarlane e altri
(2001). Ad esempio, quando una donna crede che rimanere con il
partner sia la cosa migliore per sé e per i suoi figli, usa proprio la
minimizzazione del pericolo, come strategia di coping messa in
atto per sostenere la situazione (Dutton & Dionne, 1991). Il
compito dell’operatore, allora, sarà quello di far prendere
consapevolezza alla donna del rischio a cui è sottoposta. Inoltre,
chiedere alla vittima di “predire” i futuri comportamenti abusanti
del partner, la pone in una posizione difficile, specialmente se
tale predizione verrà poi usata per mettere in atto dei
provvedimenti a carico del partner stesso. La vittima avrà paura e
cercherà di proteggere il proprio partner. I professionisti devono
soprattutto prestare attenzione alla sensazione di paura e pericolo
Capitolo I
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espressa dalla vittima, considerandola come un segno evidente di
aumento del rischio. Ricordiamo, infine, che è molto importante,
ai fini di una esaustiva valutazione del rischio, acquisire
informazioni aggiuntive da persone a conoscenza del caso, come
amici o membri della famiglia.
1.5 Come dovrebbe avvenire la comunicazione e la
gestione del rischio?
La comunicazione del rischio di violenza è considerata una parte
importante nel processo globale di valutazione del rischio
(Heilbrun, Dvoskin, Hart, McNiel, 1999).
Tale comunicazione può e deve prevenire la violenza (Heilbrun,
O’Neill, Strohman, Bowman, Philipson, 2000; Slovic, Monahan,
McGregor, 2000). Le opinioni del valutatore riguardanti il rischio
ed il suo livello devono, innanzitutto, essere supportate in modo
chiaro e conciso: la valutazione deve essere “ragionata” e non
“basata sull’istinto”. A tal fine, l’uso di checklist e di linee guida,
come il SARA o il DA, possono aiutare, in questo senso, il
valutatore a strutturare e supportare le proprie opinioni
riguardanti il rischio. La valutazione del rischio, inoltre,
dovrebbe essere comunicata alla potenziale vittima, al fine di
informarla del rischio che corre: in tal modo potrà prendere delle
precauzioni opportune.
Molti fattori, come l’instabilità lavorativa e l’abuso di sostanze,
infatti non sono visti dalla donna come aventi un ruolo nella
Capitolo I
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genesi della violenza (Kropp, Hart, Lyon, LePard, 2002). Dunque
il processo di comunicazione del rischio può essere, in un certo
senso, “illuminante” per quelle vittime che tendono a
sottostimare o minimizzare la violenza: in tal modo sarà facilitata
la costruzione di un opportuno piano di sicurezza per la vittima
stessa. Il processo finale della valutazione del rischio, prevede la
comunicazione delle strategie di gestione del rischio stesso. La
gestione del rischio (dalla parte del maltrattante) e della sicurezza
(dalla parte della vittima) è un processo che perdura nel tempo: è
inutile riportare il livello di rischio del maltrattante senza
discutere il come gestire questo rischio (Kropp, Hart, Lyon,
LePard, 2002). Come sappiamo, i fattori di rischio sono statici
(non possono cambiare nel tempo) e dinamici (grazie ad
opportuni interventi, possono cambiare nel tempo), ed è proprio
su questi ultimi che le strategie di gestione del rischio
focalizzano la propria attenzione. Per esempio, l’abuso di
sostanze è un fattore di rischio dinamico: in questo caso, la
strategia di gestione del rischio, consisterà nel sottoporre
l’abusante ad un trattamento al fine di far scomparire o attenuare
la sua dipendenza, elemento che poi porterà, indirettamente, ad
una diminuzione dei comportamenti violenti. L’identificazione
dei fattori di rischio dinamici è essenziale ai fini dell’efficacia
dell’intervento (Kraemer, Kazdin, Offord, Kessler, Jensen,
Kupfer, 1997): tali fattori precedono e aumentano la probabilità
di violenza; cambiano spontaneamente o a seguito di un
intervento; quando modificati, predicono un cambiamento nella
Capitolo I
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probabilità di messa in atto di comportamenti violenti. Hanson e
Harris (2000) hanno, inoltre, suddiviso i fattori di rischio o risk
markers (Kraemer, Kazdin, Offord, Kessler, Jensen, Kupfer,
1997) dinamici in stabili e acuti: i primi (ad esempio, i tratti di
personalità impulsivi o ostili) cambiano gradualmente nel tempo,
mentre i secondi (come l’uso di droghe) cambiano molto
velocemente nell’arco di giorni o addirittura ore.
Al fine di effettuare un’adeguata valutazione e gestione del
rischio, l’operatore dovrà quindi rendersi conto della velocità dei
cambiamenti di questi fattori di rischio dinamici e agire di
conseguenza (Douglas, Skeem, 2005; Kroner, 2005; Hanson,
2005, Mills, 2005). Ricordiamo, infine, che come afferma Hart
(1998, 2001b) “l’obiettivo primario della valutazione e della
gestione del rischio è quello di prevenire la violenza, non di
predirla”.
Il paradigma adottato deve essere, perciò, basato sulla
prevenzione piuttosto che sulla predizione. Il concetto di
prevenzione è stato mutuato dall’ambito medico e sta ad indicare
“una serie di programmi organizzati il cui fine è quello di ridurre
l’incidenza (ovvero il numero dei nuovi casi) di una malattia
all’interno di una popolazione” (Caplan & Caplan, 2000, pg
131). Le cose, però, cambiano quando focalizziamo l’attenzione
sul contesto della violenza (Douglas, Kropp, 2000): quest’ultima
non è una malattia o un disturbo ma un comportamento.