2
visioni e la loro congiuntura storica che contestualizzerò, nei prossimi capitoli, il
fordismo, la sua crisi ed il post-fordismo.
Il fordismo rappresenta il momento in cui la realtà urbana e l’industria si “nutrono”
reciprocamente, in cui la città è lo spazio di azione dell’industria, per l’ampio parco di
forza lavoro (soprattutto dequalificata) da cui l’impresa può attingere una massa di
lavoratori. Questi ultimi, d’altra parte, coincidono con lo sbocco di mercato principale,
poiché le famiglie “consumano” i prodotti dell’industria.
La città è funzionale all’impresa: gli spazi e i luoghi vengono “razionalizzati”
all’esigenza di produrre, nello stesso tempo, l’industria di massa è la base città,
trainando l’economia urbana (e nazionale) e gestendo, persino, i ritmi di vita e la
quotidianità della società..
In seguito, il sistema fordista della crescita (economica) illimitata comincia a
saggiare i propri limiti con le due crisi petrolifere degli anni ’70 e la violenta
conflittualità tra operai e “padroni” (coi sindacati a guidare le rivendicazioni delle “tute
blu”); la globalizzazione, poi, inizia a stagliarsi all’orizzonte, gettando in crisi profonda
lo Stato Nazionale. La crisi del sistema keynesiano di riproduzione sociale conduce alla
deregolamentazione dei mercati, allo smantellamento dello stato sociale e al progressivo
depotenziamento dello Stato Nazionale. Quest’ultimo sancisce, attraverso la riforma
(devolution), il passaggio di gran parte del suo potere ai governi locali; in questo modo
le città, molte delle quali hanno subìto profonde trasformazioni morfologiche (tanto da
costituire sistemi metropolitani) e sociali (con nuovi strati e popolazioni), con l’uscita
dal fordismo, diventano protagoniste, in quanto “assicurazioni di flessibilità” [Bagnasco
e Le Galés 2001]. Esse si trovano coinvolte in un meccanismo di forte concorrenza che
si esprime dal livello internazionale (all’interno della globalizzazione), al livello
nazionale (per accaparrarsi i finanziamenti dello Stato), e ambiscono a diventare i
“nodi” privilegiati delle “reti” di merci, investimenti e persone, è in questo contesto che
nasce il citymarketing (in un primo momento utilizzato solo in termini promozionali).
Per diventare un “nodo” strategico, infatti, le città necessitano di un’immagine positiva
di se stesse, per mostrarsi attraenti al resto del mondo, ma tale immagine deve contenere
valori di verità, senza limitarsi a rappresentare un riuscito spot pubblicitario. Le
amministrazioni locali decidono, quindi, di puntare sullo sviluppo endogeno (così il
citymarketing allarga i suoi orizzonti pragmatici), e, per rendere attraente il proprio
3
ambiente (fisico, antropico, costruito), ha bisogno di nuove infrastrutture, di
riqualificare le zone degradate e, soprattutto, di contare sul capitale sociale (questo è
specifico ed esclusivo del luogo), che diventa una risorsa strategica per influenzare, a
proprio favore, la scelta di localizzazione dei settori terziari delle grandi imprese. La
città è, quindi, “glocale”: un’ibrida espressione che indica la connessione fra la realtà
locale e quella globale.
Il disegno che scaturisce dai processi di sviluppo, è quello della città come un
laboratorio in continua evoluzione, in cui l’instaurarsi, fra gli individui, di dinamiche
cooperative conduce all’aumento generalizzato dell’iniziativa personale e dello spirito
imprenditoriale, i quali si fondano su meccanismi di fiducia e di fruttuoso scambio di
informazioni. Per favorire la coordinazione fra i vari attori (che nella città non può
essere spontanea per la forte differenziazione), vengono create una serie di “agenzie”
(pubblico-private) che hanno il compito di promuovere, attraverso una serie di progetti
finanziati dagli organismi centrali (Stato Nazionale, Unione Europea, ecc…),
l’interazione e la collaborazione tra soggetti pubblici e privati. Alle istituzioni
tradizionali si affiancano, dunque, enti di varia natura, che, per una percentuale non
indifferente, funzionano attraverso finanziamenti privati.
La Pubblica Amministrazione locale ha altresì bisogno di snellirsi e di raggiungere
criteri di efficienza, vengono così attuate le privatizzazioni di molti settori (a cominciare
da quello dei trasporti, dell’elettricità, ecc…), che, in un primo tempo, dipendevano solo
dal Pubblico. Il Comune tende così ad applicare le logiche aziendali alla propria
organizzazione interna, e il cittadino-utente si trasforma in cittadino-cliente; i processi
di governance, inclusivi e partecipativi, tentano così di rispondere, in modo più
soddisfacente, ai bisogni differenziati dei loro “clienti”, che si mostrano abbastanza
lontani dalla partecipazione politica, ma ben più partecipativi su singole issues che
riguardano il loro territorio, con un atteggiamento aperto alla discussione: consensuale o
conflittuale. Il conflitto è, soprattutto, di due tipi: da una parte è insito nella “città duale”
e ha la sua espressione nel gap fra i ricchi e i nuovi poveri, che convivono nello stesso
spazio, e, spesso, sono localizzati in segmenti ben identificabili di territorio; e dall’altra
si esprime coi movimenti (di varia scala), le organizzazioni e i comitati spontanei, che si
oppongono ad una gamma d’interventi che potrebbero danneggiare il territorio e,
direttamente, gli individui che vi risiedono.
4
Torino possiede tutte le caratteristiche per rappresentare il caso empirico di ciò che
ho fin qui esposto, è una città che tenta di uscire dal proprio “guscio” industriale, che
cerca di costruire una nuova immagine, internazionale e dinamica, provando a inserire
nuovi stimoli all’interno proprio tessuto locale. La via che Torino ha scelto, per il
proprio sviluppo, transita attraverso un Mega-Evento, le Olimpiadi Invernali del 2006;
non è detto che sia il cammino giusto da percorrere e sicuramente non rappresenta
l’unica via possibile, ma, se venisse inserito all’interno di un progetto a lungo termine e
di una strategica ben coordinata, potrebbe davvero rappresentare lo slancio di cui la città
necessita per ridefinirse se stessa.
Il presente lavoro nasce da una personale curiosità per la “città che cambia”, ed è
frutto di un’appassionata ricerca di informazioni sull’argomento, nel tentativo di dare
una risposta più completa all’osservazione diretta delle rapide trasformazioni della
realtà urbana in cui sono inserito.
5
CAPITOLO I
CITTA’ E SOCIETA’: DAL FORDISMO AL
POSTFORDISMO
1.1 Il fordismo
1.1.1 La diffusione del fordismo: alcune città piuttosto che altre
Trattando del fordismo e della città fordista, è bene presupporre che ci si deve riferire
solo a determinate realtà urbane del mondo occidentale e nord-americano, e non a un
fenomeno che ha investito direttamente ed in toto la morfologia e l’identità di ogni
città
1
, il cerchio va ristretto ai numerosi contesti urbani più facilmente individuabili, e di
conseguenza, distinguibili da altri, tenendo fede alle caratteristiche dell’etichetta
fordista che illustrerò più avanti. E’ opportuno, inoltre, differenziare i contesti europei
da quelli nord-americani: nei primi, infatti, sono presenti forme di maggiore resistenza
agli assetti urbanistici razionali dettati dalle esigenze di localizzazione delle industrie
all’interno dello spazio cittadino; inoltre, sul piano sociale, in Europa, l’urbanizzazione
si presenta come un fenomeno più graduale e meno violento.
Come sostiene Magnaghi [1994, p.23]: “L’occupazione del territorio da parte del
sistema industriale non è riuscita totalmente: la città storica (insieme a pochi altri
luoghi) ha resistito, pur assediata dalla dirompente conurbazione metropolitana, alla
distruzione e alla sua totale sostituzione col territorio artificiale delle funzioni produttive
e riproduttive auspicato dalla Carta d’Atene
2
”. Vi sono, poi, altre realtà urbane che non
legano indissolubilmente il loro destino al sistema produttivo, ma si sviluppano secondo
altre direttrici: si tratta di centri imperniati sulle attività di governo o di
amministrazione, come le capitali o alcuni capoluoghi, oppure deputate a funzioni
particolari, per esempio religiose, universitarie, militari, ecc… [Mela e Davico 2002,
p.51]. A queste vanno ad aggiungersi quei centri che hanno goduto del turismo come
risorsa prioritaria, vivendo di un’immagine storicamente consolidata e, quindi, inerziale,
1
Nel quadro dello Stato nazionale l’esperienza fordista della produzione di massa è, invece, risultata il
traino dell’economia nazionale in senso lato e ha influenzato per certi versi anche i centri metropolitani
che non ne sono venuti direttamente a contatto.
2
Della Carta d’Atene parlerò più diffusamente nel successivo paragrafo.
6
meno necessitante di ulteriori spinte economiche e soprattutto di fonti di sviluppo così
radicali e poco connaturate al proprio background.
Nelle città storiche europee, dunque, non si può parlare di mera sovrapposizione fra
l’entità urbana e l’industria: la congruenza, infatti, si presenta diversamente graduata a
seconda dei casi e alle relative congiunture storiche; contemporaneamente è doveroso
sottolineare che il fordismo ha rappresentato una linea guida per molte realtà urbane
europee (anche storiche) negli anni successivi al secondo dopoguerra e che la
condizione favorevole all’assunzione del paradigma fordista-taylorista è stata tanto più
garantita quanto più si è dimostrato sinergico il legame fra la città e la rivoluzione
industriale del XVIII-XIX secolo (avvenuta in Italia con un ulteriore ritardo) fatta
eccezione per alcune “neopoli” (molto più rare in Europa rispetto alla realtà nord-
americana) di fresca creazione. In questa fase storica, si deve, dunque, mettere in risalto
come industrializzazione e urbanizzazione si alimentino reciprocamente, mutando, più o
meno radicalmente, gli assetti delle città.
Alla base di una distinzione storico-morfologica fra le città europee e quelle nord-
americane, Bagnasco e Le Galès [2001, p.12] osservano che “contrariamente alla città
americana organizzata a partire da una griglia geometrica, the grid, la città europea si
caratterizza prima di tutto per la concentrazione, intorno a un centro, dei luoghi di
potere, delle chiese, dei monumenti, di spazi di commercio e di scambio e per uno
sviluppo radio-concentrico”. La morfologia della città europea sembra, dunque,
possedere un significato minuziosamente costruito nell’arco di numerosi secoli, il quale
trae origine dalle quattro innovazioni della città medievale: la formazione di strade e
piazze per l’avvicinamento di edifici pubblici e privati che creano uno spazio pubblico
dove gli abitanti si riconoscono; la complessità dei diversi poteri che si fronteggiano e si
manifestano negli edifici, e la formazione di diversi quartieri; la chiusura dell’abitato
con mura e porte e la concentrazione, l’agglomerazione all’interno di questo spazio
chiuso; il dinamismo delle città che cambiano progressivamente [Benevolo, 1993].
Successivamente vengono meno le mura e la città tende a espandersi verso l’esterno alla
ricerca del proprio spazio vitale dopo le vigorose ondate di conurbazione.
Le realtà nord-americane, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sono
caratterizzate invece da una più irrazionale ricerca di spazio nel territorio urbano,
accentuata dal boom demografico e dalle dirompenti ondate migratorie extra-
7
continentali, a ciò si aggiunge l’esaurimento della grande spinta espansiva verso il
West. “Chicago - dove, tra l’altro, si svilupperà la più importante scuola sociologica
americana
3
dell’epoca - vede crescere vertiginosamente il numero dei propri abitanti,
dai 112.000 del 1860 ai 3.400.000 del 1930” [Mela e Davico 2002]. La popolazione di
Detroit, che nel 1900 era composta da circa 700.000 abitanti, cresce sino ai 2.670.000
del 1930
4
. Un’ulteriore differenza, fra le città nordamericane e quelle europee, è
riscontrabile nel diverso ritmo di crescita; quest’ultime, infatti, hanno assorbito i
cambiamenti in modo progressivo crescendo con un ritmo abbastanza regolare; di
contro, le città nord-americane, vittime di una forte crescita di popolazione, causata da
un lato dalla forte mobilità interna e dall’altro dall’immigrazione, hanno dovuto subire
la conseguenza di un intensificarsi dei conflitti sociali e della marginalizzazione dei
gruppi più vulnerabili, fenomeni mai effettivamente superati col New Deal; i casi di
ghettizzazione (soprattutto etnica) delle categorie più svantaggiate diventavano così la
regola, l’altra faccia della medaglia della crescita numerica e dello sviluppo economico
delle megalopoli americane
5
.
Rinunciando a ulteriori divagazioni sulle peculiarità delle specifiche zone europee e
sulla eterogeneità dello sviluppo industriale, un’ultima precisazione va fatta in relazione
al fenomeno urbano italiano.. In Italia, il paradigma fordista trova la sua localizzazione
naturale nelle regioni nord-occidentali, già toccate, in modo decisivo, dalla precedente
rivoluzione industriale ed in particolare nel triangolo Milano-Genova-Torino; invece,
certe zone del centro e del nord-est, come verrà esposto successivamente, utilizzano
altri modelli di sviluppo industriale, per così dire, “alternativi”. Permane, di contro, un
forte divario con le regioni meridionali, vittime di un ritardo storico, già formalizzato
all’inizio del secolo scorso con l’espressione: “Questione meridionale”. Il patto di
“benessere” sancito dall’alleanza fra industria e welfare non è, infatti, esente da
squilibri, in ogni nazione dell’Europa avanzata si presentano squilibri interni più o meno
intensi, molte volte ereditati dal passato, e dovuti a fenomeni di rafforzamento
3
La scuola di Chicago e la sociologia dei social problems trovarono un terreno di ricerca ideale nel
contesto estremamente conflittuale che andava maturando in quegli anni. Lo schema teorico si incentrava
sul concetto di ‘ecologia umana’, ovvero: studiare il sistema sociale come come se fosse un ecosistema
attraverso una metodologia di ricerca empirica esplorativa con strumenti tendenzialmente aperti e
partecipativi.
4
Fonte U.S. Census Bureau.
5
Questo non esclude la presenza di quartieri poveri e di classi segregate nel contesto europeo
semplicemente ne indica una minore intensità rispetto al fenomeno americano.
8
polarizzato di alcuni territori rispetto ad altri che tendono a spopolarsi, diventando ancor
più deboli
6
.
Avendo, così, delimitato i confini della tipologia di città che intendo approfondire,
cercherò di tratteggiare, nei successivi paragrafi, le caratteristiche principali del
paradigma taylorista, esaminando, poi, come le città fordiste ridisegnano il proprio
territorio, con l’obbiettivo di renderlo funzionale all’industria.
1.1.2 Le caratteristiche del modello taylorista-fordista
L’individuazione degli elementi cardine del fordismo riconduce forzatamente alla
disamina della dottrina di riferimento e al tema della riorganizzazione scientifica del
lavoro, elaborata dal suo massimo teorico: Frederick Winslow Taylor. Per Bonazzi
[1997, p.29] “il motivo storico che spiega il sorgere di un movimento per la rivoluzione
manageriale sta nella percezione di una non più tollerabile contraddizione fra le
potenzialità produttive di una industria ormai alle soglie della produzione di massa e i
metodi ancora arcaici della sua conduzione”.
Nel 1911 Taylor pubblica “Principles of scientific management”, in cui elabora una
serie di leggi necessarie per il funzionamento scientifico-razionale dell’industria. L’idea
di Taylor è incentrata sul surplus, egli afferma che il conflitto per la sua spartizione è
superabile soltanto se le parti sociali, classi operaie e classi dirigenziali, distogliendo
l’attenzione dalla sua divisione, si preoccupano della sua concentrazione aumentandone
l’entità, finchè la sua abbondanza non sarà tale da condurre inevitabilmente alla fine dei
conflitti sociali. La via (one best way) è quella dell’organizzazione scientifica del lavoro
(Osl), attraverso cui il maggior benessere verrà prodotto dal maggior rendimento della
manodopera, superando quei difetti, che Taylor collega alla natura umana, di
rallentamento intenzionale del lavoro. I rimedi rigorosamente scientifici si basano su
una specializzazione funzionale ed integrata della varie fasi di produzione con una forte
gerarchia all’interno dell’impresa. Il lavoro (task), secondo una logica di inversa
proporzionalità, acquista in razionalità e perde in qualità, trasformandosi in un insieme
di gesti standardizzati, scomponibili e ricomponibili a tavolino, scientificamente
misurabili.
6
Lo squilibrio può essere analizzato a più livelli: all’interno di una nazione o di un territorio regionale,
sino ad essere collocato in una cornice mondiale con il centro sviluppato vs la periferia sottosviluppata.
9
Il primo tentativo di applicazione del taylorismo
7
su larga scala è opera di Henry
Ford, fondatore dell’omonima fabbrica di automobili, negli anni ’20. In questo periodo,
negli Stati Uniti, si afferma, per l’appunto, il “fordismo” [Gramsci 1975] oppure, con
un’ulteriore sfumatura, “fordismo presindacale”
8
[Gambino 1997], fenomeno che trova
nell’industria automobilistica una delle sue più fedeli espressioni. Ford introduce la
cosiddetta “produzione in linea”, in cui ogni operaio ripete infinite volte la stessa
operazione grazie ad un nastro trasportatore che gli fa giungere il pezzo sul quale
lavorare. Si tratta di un nuovo tipo di produzione che necessita di manodopera
dequalificata: ciò fa risparmiare all’azienda i costi legati alla formazione, immettendo,
fin dall’inizio, operai non specializzati nel sistema produttivo. Le conseguenze sociali di
questa politica aziendale sono facilmente intuibili: arbitrarietà nei licenziamenti pur
controbilanciata da un aumento dei salari, allargamento del parco di manodopera da cui
attingere facilmente per il ricambio, annullamento della mobilità verticale a favore di
una dequalificata mobilità orizzontale. L’espressione ‘fordismo presindacale’ indica,
appunto, quella particolare situazione in cui si trova l’industria di Ford sino al 1941
9
(e
dalla quale altre industrie americane, anche automobilistiche - come la General Motors
e la Chrysler – erano già uscite da anni, accettando l’apertura verso la neonata realtà del
sindacato industriale), nella quale coesistono il centralismo e l’unidirezionalità nei
rapporti di potere dall’alto verso il basso e l’incapacità di azione di una classe operaia,
non istituzionalmente coordinata all’interno della fabbrica, e ridotta a semplice
macchina esecutrice, nonché la possibilità di contare su un potere di ricattabilità da
contrapporre agli interessi di vertice.
7
Taylorismo e fordismo sono spesso considerati, per ragioni storiche, dei surrogati. Assumono una
sfumatura differente considerandoli: l’uno a monte, l’altro a valle, del processo. Il primo è così
individuabile in un insieme di leggi scientifiche messe in pratica da una èlite manageriale e trova la sua
miglior collocazione nel terreno dell’organizzazione del lavoro, intesa nella sua veste gerarchica; il
secondo fa maggior riferimento all’aspetto produttivo, legato ad un’industria di massa che risponde alla
domanda poco differenziata di un mercato omologato.
8
Gambino introduce, attraverso un’ottica marxista-conflittuale, l’espressione ‘fordismo presindacale’ con
l’intento di comporre un quadro maggiormente realistico di quello elaborato dalla Scuola regolazionista
francese, che egli etichetta, appunto, come ‘fordismo regolazionista’ L’attributo ‘presindacale’ sta ad
indicare il violento autoritarismo, che si esprimeva anche in forma di vera e propria repressione (per
esempio col categorico rifiuto della presenza dei sindacati, oppure, in altri termini, nell’impossibilità di
comunicazione verbale tra gli operai e tra questi e i superiori, o nel piano di controllo degli operai e delle
loro famiglia, messo in atto dall’azienda) nel “sistema-Ford”, privo nelle fondamenta di un reale “patto
sociale”.
9
Anno della contrattazione collettiva alla Ford
10
1.1.3 L’intervento dello Stato e la diffusione del fordismo in Occidente
Il modello fordista presindacale “si dissolve quando, a fronte dell’attacco delle
guardie armate, i picchetti degli scioperanti invece di diradarsi si ingrossano e le
disperdono. E’ il momento che si può forse rammentare con le parole di Emil Mazey,
uno dei principali organizzatori dello Uaw
10
: <<era come veder prendere
improvvisamente vita degli uomini che erano stati semimorti>>” [Gambino 1997].
Le forme più violente del fordismo cominciano ad attenuarsi (paradossalmente con
un ritardo da parte della Ford) già col New Deal, intervento statale di reazione alla
grande crisi depressiva mondiale del ’29, che ha, appunto, la sua culla negli Stati Uniti
quando le imprese si mostrano inadatte a trainare da sole il paese fuori dalla fase
depressiva. Col New Deal lo stato diventa, dunque, l’attore decisivo nella regolazione
del mercato attraverso un’economia keynesiana volta all’espansione della spesa
pubblica e al sostegno della domanda. Gambino [op.cit.], fornendo un quadro
cronologico dell’interpretazione della Scuola Regolazionista
11
, ci dice che il fordismo
“regolazionista” “sarebbe alla base dell’espansione della keynesiana domanda effettiva
negli Stati Uniti, dove assicurerebbe un regime di welfare e quindi di stabile
riproduzione sociale complessiva… Negli anni Cinquanta, tale sistema produttivo si
irradierebbe dagli Stati Uniti verso i paesi dell’Europa occidentale e il Giappone… può
poi affermarsi concretamente alla fine degli anni Cinquanta e durare sino alla fine degli
anni Sessanta, quando entra in crisi irreversibile. A quel punto si aprirebbe il periodo –
nel quale saremmo tuttora immersi – del postfordismo
12
”.
Lo sviluppo del fordismo in Europa, dalle fasi post-belliche in poi, è dovuto
all’enorme spinta propulsiva delle grandi fabbriche, dotate di un raggio d’azione sempre
maggiore e sempre più internazionale; è un vero e proprio circolo virtuoso che si
autoalimenta. Il settore della grande industria aumenta la propria produttività, anche
grazie all’inserimento nel processo delle innovazioni tecnologiche; l’aumento di
produttività permette un abbassamento dei costi dei prodotti, favorendo un ampliamento
dei mercati, e consentendo l’acquisito di beni, come l’auto, prima accessibili soltanto a
10
Sindacato dell’auto.
11
Dall’enciclopedia Garzanti dell’Economia, per questa scuola: “Concetto chiave è il modo di
regolazione” ossia l’insieme delle regole e delle procedure (norme, consuetudini, leggi) che assicurano
l’unità e il funzionamento del processo di accumulazione capitalistica. Contemperando in un unico
sistema coerente il comportamento di soggetti diversi”. Questa scuola analizza il Fordismo e la sua crisi
nell’ottica della regolazione equilibratrice da parte degli Stati nazionali.
12
Termine coniato, oscuramente, dalla Scuola Regolazionista.
11
chi aveva redditi elevati. Per fronteggiare l’allargamento dei mercati, le imprese sono
costrette ad aumentare la propria produzione, questo genera un aumento
dell’occupazione e dei salari, che conduce all’aumento della domanda di beni industriali
da parte delle famiglie dei lavoratori. Lo Stato ha così la possibilità di aumentare il
gettito fiscale potenziando il welfare e aumentando l’occupazione nel settore pubblico
[Mela 2002]. Come ulteriore conseguenza si verifica la creazione di nuove infrastrutture
(ferroviarie, autostradali, ecc…) che ridisegnano il territorio e i collegamenti fra i
luoghi.
1.1.4 La nascita della città-fabbrica
I beni prodotti dall’industria di massa sono standardizzati, volti ad un mercato di
massa, molte delle piccole aziende che basavano il loro commercio sui prodotti
artigianali sono costrette, già nei primi decenni del XX secolo, alla chiusura o alla
trasformazione in imprese complementari. “In breve, si pongono le basi di quello che
diventerà un efficiente sistema produttivo fortemente polarizzato, con al centro la
grande impresa dominante (o motrice) e con relativo corredo di imprese minori:
complementari a monte (fornitori) e a valle (distributori, concessionari)” [Mela e
Davico, 2002]. La relazione laterale
13
che si instaura fra le varie imprese trova vantaggi
localizzativi all’interno della città, che tende sempre più a coincidere col sistema
industriale, in base al verificarsi di “economie esterne”
14
o esternalità positive, ovvero
alla presenza o alla costruzione di infrastrutture (nelle città già parzialmente esistenti)
che consentano la creazione delle condizioni basilari perché l’impresa possa
massimizzare i vantaggi e minimizzare i costi di funzionamento, e che si esprime in
termini pecuniari nella “rendita urbana”, la quale attribuisce al suolo un valore
posizionale, relativo alle infrastrutture e, quindi, ai vantaggi, che esso può offrire a chi
vi si insedia.
Quali sono le caratteristiche del nuovo contenitore spaziale? L’equazione fra la
programmazione economica e la pianificazione territoriale riscontra i suoi più saldi
principi teorici e normativi nella Carta d’Atene del 1933, vero e proprio manifesto
dell’urbanistica contemporanea, secondo cui l’organizzazione del territorio deve essere
13
Intesa come sistema di fornitura di componenti o servizi, da parte di una serie di imprese minori,
destinati a raggiungere l’impresa motrice per l’assemblaggio.
14
Concetto introdotto da Marshall nel 1890.
12
razionalizzata al pari di quella delle imprese. Il suolo viene così slegato dai suoi vincoli
storico-naturali piegandosi alla razionalità del sistema di fabbrica. Le città storiche, in
particolare, considerate troppo delicate, vengono a rappresentare un mero ostacolo alla
ridefinizione funzionale della città, così come le loro specifiche identità e reti regionali,
giudicate inadatte alla nuova razionalità. “Il sistema produttivo richiede che tutte le
attività umane siano sezionate e riordinate a partire dalla scomposizione della giornata
sociale in segmenti disposti in sequenze lineari: lavorare, trasferirsi, abitare, ricreare e
curarsi. Ad ogni funzione, organizzata per grandi masse di lavoratori, spetta una
porzione di spazio, un sito esclusivo da razionalizzare ad uso di quella funzione”
[Magnaghi 1994, p.22]. La razionalità nell’organizzazione del processo produttivo
dell’industria trova i suoi corrispettivi nella razionalità urbanistica e nella razionalità
sociale. La città, diventando motore e sede del meccanismo produttivo, assume le vesti
di una meta da raggiungere e di un’ambizione lavorativa per molti individui, si verifica,
così, dal periodo post-bellico e con maggiore intensità rispetto alle fasi precedenti
15
, una
violenta urbanizzazione, più massiccia nelle aree di forte sviluppo industriale, recante in
sè i germi di una nuova, e più burrascosa, conflittualità sociale.
1.1.5 La struttura sociale della città fordista
Nella città fordista, soprattutto quella incentrata intorno a una grande industria
“motrice”, la complessità strutturale tende a ridursi attraverso l’identità di classe. Da
una parte si scorge, in questo modo, un’alta borghesia industriale e finanziaria, che
controlla le imprese multinazionali e i flussi finanziari, e che orienta gli atteggiamenti
della classe borghese (piccoli e medi imprenditori, liberi professionisti molto qualificati,
ecc…); dall’altra si crea la ben più folta classe operaia, che fornisce manodopera
dequalificata all’industria di massa.
Con l’intervento dello Stato nell’economia, e col conseguente aumento della spesa
pubblica, si aggiunge un’ulteriore classe: quella dei dipendenti pubblici “… che, per
quanto internamente stratificati, sono caratterizzati - almeno in alcuni contesti - da
interessi specifici e da peculiari forme di comportamento sociale” [Mela 2002]. Quelli
del fordismo sono anni di conflittualità anche aspra, ma coincidono col periodo in cui i
15
In Italia, per esempio, le popolazioni di Torino e Milano, dal 1951 al 1961, crescono, rispettivamente
da circa 710.000 a 1.020.000 abitanti e da 1.270.000 a 1.580.000 (fonte ISTAT)
13
rapporti fra lo Stato e l’industria si fondano su un solido patto fra le parti che si fa
garante della riproduzione sociale. I conflitti si esprimono soprattutto nella forma di una
continua contrattazione, in cui la mediazione dei sindacati risulta un elemento decisivo,
tanto che questi incrementano notevolmente il loro peso politico, diventando, in molti
paesi, il fulcro dell’equilibrio.
La differenza di classe spesso trova riscontro nella diversa disposizione abitativa
nello spazio cittadino, nascono così veri e propri quartieri operai periferici, mentre i
quartieri residenziali tendono a localizzarsi nelle zone centrali. Un caso atipico, rispetto
al panorama europeo, è quello inglese, nel momento in cui le classi privilegiate
scelgono di risiedere nelle zone esterne alla città, lasciando il centro alle classi popolari,
così: “abitandoci e lavorandoci, gli operai danno un volto alla città, politicamente,
culturalmente e socialmente” [Oberti 2001].
Non mancano, poi, i fenomeni di marginalizzazione degli immigrati, che, in certi
casi, portano ad una stratificazione professionale. A proposito del caso torinese, anche
la Fiat ha prodotto la stratificazione professionale nelle unità produttive per molto
tempo, con gli operai immigrati, soprattutto meridionali, relegandoli allo strato
inferiore, ovvero quello delle mansioni più dequalificate [Gallino 1990].
Le città non sono, dunque, soltanto i territori dove differenza e multiculturalità
convivono e si influenzano, esse rappresentano anche lo spazio di quella conflittualità
che si esprime più violentemente in epoche di improvvisa e drastica urbanizzazione, in
cui il sistema sociale subisce radicali trasformazioni. I casi di Torino e Milano fra gli
anni ’50 e ’60 sono decisamente esemplificativi e situazioni ancora più drammatiche
hanno avuto luogo nelle metropoli statunitensi (si pensi al caso prima citato di Chicago
e ai quartieri-ghetto).
1.2 La crisi del paradigma fordista e le sue conseguenze
Alcuni autori evidenziano come le radici della crisi del fordismo, i suoi limiti,
fossero già presenti nel suo paradigma, le critiche e le discussioni sul suo superamento
si sono, infatti, spesso intrecciate con gli anni del suo maggiore successo. Fatto sta che
le circostanze basilari del circolo virtuoso del benessere economico cominciano a
vacillare e venire meno già alla fine degli anni ’60 quando il modello fordista inizia a
14
destabilizzarsi. Seppur non si possa ancora parlare della sua fine, che avverrà
gradualmente nel decennio successivo, si può, così, iniziare a discutere della sua crisi .
1.2.1 Le cause del collasso
Una serie di fattori segnano la graduale sostituzione del fordismo con nuove forme
produttive. Se ne possono riscontrare almeno quattro principali, tutti significativi:
l’aumento dei conflitti sociali e il rifiuto sempre maggiore degli operai di lavorare alle
condizioni dettate dalla catena di montaggio; la tendenziale saturazione dei mercati; il
verificarsi di una serie di contingenze storiche, negative per l’economia (fra cui le crisi
petrolifere del 1973 e del 1979); l’insediamento prepotente nella scena internazionale di
nuove potenze economiche come il Giappone ed il loro impatto sulla cultura industriale
occidentale.
L’aumento dei conflitti sociali alla fine degli anni ’60 può essere considerato un
primo utile indicatore della crisi del modello fordista, il caso italiano è particolarmente
significativo. Qui la presa di coscienza di una classe operaia, costretta ad occupazioni
dequalificate, sostenuta dal movimento studentesco e da un’èlite di intellettuali di
stampo marxista, si manifesta nel cosiddetto autunno caldo del ’69. I sindacati,
rinforzati da una nuova verve, capeggiano la lotta operaia sino ad assumere il ruolo di
fulcro per l’equilibrio sociale, entrando direttamente nelle aziende, coi consigli di
fabbrica e nella sfera politica attraverso i partiti; nella primavera del ‘70 il parlamento
approva lo Statuto dei lavoratori.
In secondo luogo, la supposta illimitatezza del mercato viene definitivamente negata
dalla progressiva saturazione dei mercati dell’Ocse
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dei beni di consumo durevoli,
mentre i beni non tipicamente fordisti si scontrano con la limitatezza dei nuovi segmenti
di mercato. Si prospettano nuovi scenari di produzione, per competere all’interno dei
nuovi mercati, non più fondati sulla produzione di massa, ma sulla risposta flessibile
alla domanda differenziata.
Il terzo punto riguarda le contingenze storiche di rilievo per l’economia, individuabili
soprattutto nella sospensione, nell’agosto del 1971, della convertibilità del dollaro in oro
da parte degli Stati Uniti, che costituiva uno dei pilastri degli accordi di Bretton
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E’ un'organizzazione internazionale che aiuta i governi a far fronte alle sfide economiche, sociali e
ambientali all’interno di un'economia mondializzata. Essa raggruppa attualmente 30 paesi industrializzati.
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Woods
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(1944), e che rappresenta un segnale del declino dell’economia americana,
traino di quella occidentale. In seguito, nel ’73, ha luogo la crisi petrolifera, successiva
al conflitto arabo-israeliano, che conduce a effetti devastanti, colpendo tutti i paesi
importatori di petrolio e mettendo in luce l’incapacità di auto-sufficienza del sistema,
accentuata dalla destabilizzazione dell’assetto economico mondiale e del regime dei
cambi monetari. La seconda crisi petrolifera del 1979 ha effetti ancora maggiori,
producendo una spinta inflativa di notevole entità, che porta, attraverso una serie di
fattori concatenati, alla crescita insostenibile del debito di molti paesi sotto-sviluppati.
Infine irrompe sulla scena il Giappone, che viene a pieno titolo accreditato come la
potenza economica nascente e possibile antagonista degli Stati Uniti, fondando le
proprie politiche industriali su una gamma di nuovi principi d’organizzazione che
assumono l’etichetta di toyotismo
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. Questi si caratterizzano per una maggiore
sensibilità nella produzione in risposta alla domanda differenziata. Tutto ciò si
contrappone perentoriamente ai concetti di produzione di massa e di consumo di massa
che avevano caratterizzato il regime fordista, la parola chiave diventa, d’ora in poi:
“flessibilità”.
1.2.2 Il toyotismo e i “distretti”, diverse forme organizzative per nuovi mercati
Anche il Giappone ha assunto il modello di produzione fordista nel periodo della sua
propagazione verso l’Europa, ma anticipandone la crisi si produce alla ricerca di un
nuovo modello di produzione, più elastico verso la domanda differenziata. Questo
anticipo non è il frutto di qualche mistica preveggenza, è piuttosto la conseguenza del
parziale insuccesso che ottiene l’industria fordista in terra nipponica e, anche, nel
quadro delle esportazioni internazionali. Si profilano, dunque, le basi per una ricerca di
nuove strategie nell’organizzazione di produzione, atte a superare la mancanza di
competitività.
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Rappresentavano il primo tentativo di creare un sistema monetario internazionale, composto dai 44
paesi dell’ONU, capace di mettere i paesi che ne facevano parte al riparo da rovinose speculazioni
finanziarie. Sancivano il valore del dollaro come moneta di riferimento internazionale e la sua
convertibilità in oro. Gli accordi di Bretton Woods decretarono, inoltre, la nascita dell’FMI (Fondo
Monetario Internazionale), della Banca Mondiale e del GATT (General agreement on tariffs and trade).
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Il termine deriva dalla Toyota, industria giapponese che per prima scelse la nuova strada volta alla
flessibilità produttiva.