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L’adulto si narra ogni volta che parla ad altri, tutto lo racconta in ogni aspetto
della sua persona.
La coerenza sui contenuti presentati e la congruenza verso le persone che ci
ascoltano, la coscienza del proprio stile, la consapevolezza del comunicare, il
senso della quantità e qualità degli argomenti trattati nella formazione, sono gli
elementi fondamentali dell'organizzazione formativa, ovviamente con il giusto
equilibrio e significato affinché possa esistere un' identità di riferimento.
Azioni, strategie, credenze, valori, sapere come portare dei contenuti e
soprattutto perché portarli, avere ben chiaro il proprio obiettivo e poi lasciarsi
condurre dal piacere di esserci, credo che in questo si possa riassumere l'identità
del formatore.
Lo sviluppo della propria identità si incontra/scontra inevitabilmente con quella
che si può chiamare sfera emotiva.
Per poter condurre gli altri e il contesto verso il cambiamento è quindi necessario
affrontare prima di tutto la dimensione della conoscenza e conduzione di sé.
E’ così che si può sviluppare la propria maturità professionale: con la
consapevolezza di poter raggiungere un equilibrio tra la conoscenza di sé e le
immagini che gli altri in quanto “mondo esterno” riflettono.
A questo si aggiunge però il fatto che compito del formatore è anche quello di
mantenere un costante aggiornamento e una forte curiosità, tenendo sempre in
considerazione il fattore “cambiamento”.
La formazione come strumento di costruzione della propria identità è perciò da
intendere come luogo in cui tutti coloro che vi partecipano, possano scorgere il
7
cambiamento, del quale il principale mezzo è la relazione, con se stessi e con gli
altri.
E quindi necessario partire dall’esperienza per muovere i primi passi verso la
costruzione della propria identità; si deve poi considerare la “cura di sé”, intesa
come la considerazione di tutti gli aspetti dello sviluppo emotivo e
antropologico, fondamentali per un giusto governo di sé.
L’obiettivo finale della formazione è quello di condurre un individuo a fare in
modo diverso ciò che faceva prima o fare ciò che prima non faceva.
Ciò vale prima di tutto per il formatore, che per primo si mette in gioco.
Questo fa capire perché per ogni adulto è importante pensare alla costruzione di
una vera e propria identità personale e professionale.
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CAPITOLO 1
Primi passi per la costruzione dellùidentitÊ:
esperienza e riflessione
Fino a pochi decenni fa, il processo di costruzione dell’identità personale, era
concepito come un percorso, segnato da riti di passaggio precisi, che vedeva il
suo compiersi, per molti soggetti, con l’ingresso nel mondo del lavoro, e con la
conseguente assunzione di un ruolo, che si presupponeva abbastanza stabile.
Da qui la concezione di un’identità forte, data, caratterizzata dalla stabilità degli
ambiti di vita e della rete di relazioni professionali e non, in cui il soggetto si
muove.
Identità professionale e sociale caratterizzata, anche, da un accumulo di
conoscenze, dall’adesione e dall’identificazione con riti, storie, simboli, cioè con
quella cultura d’appartenenza che sembra garantire alla persona una certa
continuità, saldi punti di riferimento, strumenti con cui muoversi nel mondo.
Oggi, i paradigmi di riferimento, appaiono però mutati.
I cambiamenti sociali ed economici degli ultimi decenni, portano a rivedere i
capisaldi attorno a cui si costruirebbe l’identità sociale e professionale, a
riconsiderare il processo di costruzione dell’identità, e a rivedere il concetto
secondo cui l’identità giungerebbe a stabilizzarsi con l’acquisizione di specifici
ruoli in età adulta.
La globalizzazione dei mercati, l’aumento delle “reti” attraverso cui il soggetto
fa esperienza, si sperimenta e si costruisce, portano a parlare di pluralità di
9
mondi, molteplicità di culture, stimoli, opportunità con cui il soggetto entra in
contatto e della conseguente frammentazione dei mondi di vita1.
Anche il valore ed il significato del lavoro per la vita del singolo appaiono
modificati.
Un tempo, il lavoro era considerato come fattore chiave per la costruzione di
un’identità solida e duratura, negoziata anche con l’ambiente di riferimento e con
gli altri soggetti con cui quotidianamente ci si relazionava.
Parola d’ordine per le organizzazioni odierne sembra essere, invece, flessibilità.
Flessibilità nei tempi-luoghi-modi di produzione, una flessibilità che non si
ripercuote solo ed esclusivamente sulle modalità di organizzazione del lavoro,
ma anche sulle modalità di gestione del personale e sui lavoratori stessi, da cui ci
si attende capacità di adattamento a situazioni e contesti mutevoli, grande
disponibilità ad apprendere nuove modalità di lavoro e a padroneggiare nuovi
strumenti.
Non è difficile immaginare, quindi, l’ambivalenza che deriva da questo
mutamento di scenario: da una parte aumentano le opportunità e le risorse di cui
il soggetto può avvalersi per fare esperienza, per “crescere” e costruire la sua
identità professionale, dall’altra parte, sembra facile “perdersi” in questa rete
complessa, farsi inghiottire da un senso di incertezza e precarietà.
Da qui, deriva anche per gli studi sociologici2, la necessità di riparlare di
socializzazione adulta, caratterizzata oggi dalla mutevolezza dei contesti
lavorativi, dalla continua ri-negoziazione dei ruoli da parte dei soggetti.
1
Jeremy Rifkin “L’era dell’accesso, la rivoluzione della new economy”, Oscar Mondadori, 2000
2
Marco Depolo “L’ingresso nel mondo del lavoro, i comportamenti di individui e
organizzazioni.”, Carocci, Roma, 1998
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Per il mondo della formazione, il mutamento di scenario subito dalle
organizzazioni, implica la ricerca e l’individuazione di strumenti idonei ad
accompagnare i soggetti nel mondo del lavoro, a facilitare la loro socializzazione
di ruolo, a sostenerli nei momenti di cambiamento impellenti, dettati dalle
logiche economiche della globalizzazione.
Qui entra in gioco il formatore.
Un’identità professionale, quella del formatore, che appare già complessa e
difficile da definire.
Diversi, infatti, sono i percorsi che portano a svolgere questa professione, tanti
sono gli ambiti in cui la formazione ha un rilievo e le competenze richieste.
L’identità del formatore sembra per sé sfuggevole o sfuggente; la professionalità
del formatore appare caratterizzata da notevole apertura e dalla capacità di
confrontarsi con contesti organizzativi diversi e complessi (se teniamo conto dei
processi di cambiamento in atto) e con persone (i soggetti dell’azione formativa),
che si trovano sempre più spesso nella situazione di doversi ripensare, di dover
apprendere e dover gestire situazioni lavorative contemporaneamente
caratterizzate dall’incertezza e da quasi infinite possibilità.
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1.1 Il bagaglio personale tra esperienza e vissuto
Nell'educazione dell'adulto ha un ruolo essenziale l'esperienza, sia come attività
di apprendimento sia come pregresso talvolta negativo che costituisce una
barriera di pregiudizi e abiti mentali che fa resistenza all'apprendimento stesso.
Solo l’esperienza mobilita le risorse per il cambiamento.
Solo l’esperienza mobilita tutta la persona.
L'esperienza precedente dell'adulto costituisce allo stesso tempo una base sempre
più ampia a cui rapportare i nuovi apprendimenti.
In altre parole il nuovo apprendimento deve integrarsi in qualche modo con
l'esperienza precedente.
L'esperienza porta le persone ad essere sempre più diverse l'una dall'altra:
perfino lo stile cognitivo cambia per effetto delle esperienze fatte.
"Qualsiasi gruppo di adulti sarà più eterogeneo (in termini di background, stile
di apprendimento, motivazione, bisogni, interessi e obiettivi) di quanto non
accada in un gruppo di giovani.
Ciò significa che in molti casi le risorse di apprendimento più ricche risiedono
negli adulti stessi.
Di qui la maggiore enfasi posta nella formazione degli adulti sulle tecniche
esperienziali, tecniche che si rivolgono all'esperienza dei discenti, come
discussioni di gruppo, esercizi di simulazione, attività di problem solving,
metodo dei casi e metodi di laboratorio, rispetto alle tecniche trasmissive.
E’ evidente quindi che è necessario per uno sviluppo completo dell’identità
personale e professionale, considerare come fondamentale l’esperienza.
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Propongo a questo riguardo delle riflessioni che partono da una prima
differenziazione tra esperienza come Erlebnis (una esperienza interiore
insignificante, che si oppone a Beziehung - la relazione autentica che interviene
tra due esseri umani): esperienza vissuta, puntuale, separata da ciò che precede e
segue; ed esperienza come Erfahrung: se intendiamo l'esperienza (ex - per - ire:
venire da, passare attraverso) come attraversamento della vita, allora “fare
esperienza” è un processo attivo che attribuisce senso e continuità al vissuto.
L'esperienza come Erfahrung ha quindi a che fare con la sedimentazione e
l'elaborazione di “vissuti” piuttosto che con l'acquisizione “dati”; se le
informazioni non si depositano, non si elaborano, restano mute.
E’ importante quindi evidenziare che l'esperienza è essenzialmente un processo
attivo, che non si identifica con il semplice percepire la realtà ma neppure con la
sola riflessione (o meta-riflessione).
E' un processo in larga misura inconscio, che comprende il tentare quanto il
sottostare.
E' un processo di adeguamento all'ambiente, nel quale gli uomini tentano vie e
formulano ipotesi, il cui successo dipende dal grado di adeguatezza che
presentano rispetto ai problemi che l'ambiente pone.
In generale, nel nostro tempo, si offrono spesso frammenti di “esperienze
vissute” che non danno luogo a nessuna esperienza.
Il sapere che viene dall’esperienza non prende forma come semplice
conseguenza del partecipare ad un contesto esperienziale, ma presuppone
l’intervento della ragione riflessiva, cioè l’essere pensosamente presenti rispetto
all’esperienza.
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Ciò che bisogna fare è imparare ad apprendere dall’esperienza, perché è così che
si possono acquisire gli strumenti per poter lavorare su sé stessi tramite un’auto-
formazione riflessiva, per poi interagire con l’esterno e aiutare l’altro.
E’ possibile quindi ricavare dall’esperienza una buona fetta di quella che si può
dire identità personale, se adeguatamente rielaborata.
Il sapere che viene dall’esperienza, infatti, non prende forma come semplice
conseguenza del partecipare o del ripensare.
Perché dall’esperienza si possa costruire una buona base di sapere, occorre
l’abitudine e l’impegno a pensare su ciò che accade o è accaduto.
E poi occorre lasciarsi assorbire col pensiero nelle situazioni.3
Il valorizzare l’apprendimento che viene dall’esperienza non implica rinunciare
al confronto con la teoria quanto, invece, il costruirla sulla base di altri
presupposti: messa tra parentesi l’idea che la pratica sia il mero campo di
applicazione della teoria, ma anche quella secondo la quale la pratica sia
autosufficiente e non necessiti della teoria, si tratta di concepire il sapere come
elaborabile a partire da un collegamento dialogico fra il lavoro della
problematizzazione teoretica e l’analisi dell’esperienza.
A questo scopo occorre ripensare in tutta la sua valenza epistemologica la tesi
deweyana circa il rapporto che dovrebbe intercorrere tra la pratica formativa e il
processo di elaborazione della teoria, secondo la quale l’esperienza deve
costituire sia il punto di avvio per l’elaborazione della teoria sia il punto di
arrivo, perché la vera validazione di una teoria della educazione presuppone il
confronto criticamente condotto con l’esperienza.
3
Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, Fi, 1961, cit. p.200
14
“Questa infatti incontriamo per prima e per ultima e rappresenta l’inizio e la
chiusura.
L’inizio perché pone i problemi che soli conferiscono all’indagine qualità ed
espressione educativa; la chiusura perché solo la pratica è in grado di provare,
verificare, modificare e sviluppare le conclusioni di queste indagini” 4.
Risulta, però, essere un compito difficile quello di guadagnare sapere a partire
dall’esperienza, perché nel tempo moderno la capacità di fare esperienza tende a
sparire.
Per comprendere tale affermazione è necessario distinguere tra “esperienza” e
“vissuto”.
Con il termine esperienza intendo indicare non il semplice fare, l’essere coinvolti
in qualche forma di attività, l’esperienza non coincide con il mero vissuto, che
identifica quel tessuto di eventi che si snodano in una condizione preriflessiva,
dove si vive l’accadere delle cose in una condizione di muta immediatezza.
Il vissuto è il modo diretto e naturale di vivere nell’orizzonte del mondo.
L’esperienza prende forma quando il vissuto diventa oggetto di riflessione e il
soggetto se ne appropria consapevolmente per comprenderne il senso.
C’è quindi esperienza quando si attribuisce senso a ciò che accade; perché ci sia
esperienza è perciò necessario un intervento del pensiero che muta in parola al
vissuto, dandogli un senso simbolico.
Come per gli altri pragmatisti, anche per Dewey il punto di partenza è l'
esperienza .
4
J.Dewey: Le fonti di una scienza dell’educazione, La Nuova Italia, Fi, 1984
15
Ma, come Peirce e James, egli non riduce l'esperienza al concetto che di essa
formulò l'empirismo classico e che fu generalmente condiviso dalla filosofia
tradizionale, anche quando questa si attestò su posizioni lontane dall'empirismo.
Innanzi tutto, l'esperienza non si colloca per Dewey sul piano della conoscenza,
ma su quello dell'azione pratica.
L'esperienza è data, infatti, dall' interazione tra l'organismo e l'ambiente in cui
esso opera: è un sentire che è sempre anche un reagire.
Esperienza è camminare in una strada, consumare un pasto, parlare con un
vicino, costruire qualcosa o innamorarsi.
Di conseguenza l'esperienza è attività non meno che passività: l'organismo che
esperisce qualcosa da un lato, riceve uno stimolo in una risposta (è qui
particolarmente evidente l'influenza della psicologia di James).
L'esperienza non è quindi, semplice registrazione di dati che, quando vengono
percepiti sono ormai passati, ma è una risposta proiettata verso il futuro.
Inoltre, se per l'empirismo classico, il materiale dell'esperienza era costituito da
dati isolati e indipendenti l'uno dall'altro, l'esperienza pragmatistica coglie
soprattutto le relazioni tra le cose, sia quelle che riguardano i nessi tra gli oggetti
della realtà naturale e sociale, sia quelle che concernono il rapporto tra
l'organismo che esperisce e la realtà esperita.
Inoltre si deve anche considerare che l'ambiente sociale agisce sull'individuo in
parte favorevolmente, in parte sfavorevolmente.
La nostra esperienza è quindi anche esperienza di disagi, di errori, di mancanze,
di disordine, in ogni caso di una insufficiente capacità dell'organismo di adattarsi
all'ambiente.
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E' così possibile anche l'esperienza di cose puramente negative, come la morte,
in risposta alla quale l'individuo reagisce in maniera diversissima,
dall'indifferenza alla disperazione, dal rifugio nella religione alla stipulazione di
un'assicurazione sulla vita.
L'esperienza è però precedente ad ogni intellettualizzazione.
L'empirismo classico ha commesso qualche errore ritenendo che essa mi dia, ad
esempio, la sensazione del blu.
La mia "sensazione" del blu è infatti già il risultato di una successiva riflessione
sull'esperienza, in realtà, l'esperienza consiste nel fatto che io scrivo una lettera
con una penna blu o sono infastidito da una luce blu.
Analogamente, l'esperienza non è ancora riflessione consapevole sugli aspetti
problematici dell'esistenza, che pure ci vengono dati da essa.
Soltanto quando portiamo alla coscienza questi aspetti problematici, cominciamo
a riflettere su di essi: e qui si inizia la conoscenza , che deriva dall'esperienza, ma
non è identica con essa.
Se non si presenta alcuna situazione di disagio, l'esperienza può non
concettualizzarsi e non diventare conoscenza.
Il fare esperienza dunque, va inteso come il movimento dello stare in contatto di
sé, il disporsi in un atteggiamento di ascolto pensoso rispetto al divenire della
propria presenza nel mondo.
E’ qui il punto in cui entra in gioco la costruzione dell’identità: l’esperienza
richiede ascolto, ascolto di sé, dei propri vissuti emotivi e cognitivi.