L’interpretazione della disposizione dell’art. 2320 c.c. pone difficoltà in ordine
all’individuazione dei comportamenti vietati e di quelli consentiti
all’accomandante. La trattazione, quindi, è proseguita analizzando, nel secondo
capitolo, tutti gli aspetti caratterizzanti la posizione del socio accomandante.
Si è concentrata l'attenzione sull'analisi di numerosi casi giurisprudenziali, i quali
hanno specificato di volta in volta gli atti di amministrazione vietati e i limiti entro
i quali la procura per specifici affari opera. E' soprattutto la giurisprudenza che
stabilisce, per ciascun caso specifico, se gli atti debbano essere molteplici o se sia
sufficiente anche un solo e sporadico atto per rientrare del divieto.
Il fulcro centrale della questione è quindi chiarire in quali condizioni, a seguito di
quali condotte l'accomandante assume responsabilità illimitata per tutte le
obbligazioni sociali.
Inoltre, l’assunzione della responsabilità illimitata a seguito della violazione del
divieto imposto dall'art. 2320 c.c espone il socio accomandante al fallimento, a
norma dell'art.147 l. fall..
In base all'art. 147 l. fall. “la sentenza che dichiara il fallimento di una società
appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro
quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone
fisiche, illimitatamente responsabili”. E' proprio sulla possibilità di includere, tra
tali soci illimitatamente responsabile, il socio accomandante che si è sviluppato il
terzo capitolo. Si è cercato di fare chiarezza su molteplici interrogativi. Ci si è
chiesti se, l'accomandante ingeritosi nella gestione, possa essere assoggettato a
procedura fallimentare solo nei casi in cui la sua ingerenza presenti carattere di
4
continuità e generalità oppure se ciò accada anche se ha compiuto un solo atto di
gestione. Ancora, se ciò possa accadere solo in presenza di prove evidenti,
inconfutabili e sufficienti ad equiparare la sua posizione a quella
dell'accomandatario o se tali prove non siano necessarie.
L'argomento trattato offre numerosi spunti di riflessione circa le caratteristiche
particolari dell'accomandante, i casi di possibile ingerenza nella gestione sociale e
quindi, in caso di fallimento della società, l'estensione a tale socio della procedura
concorsuale.
Chiarisco che, data la delicatezza della materia e la quasi totale mancanza, per
alcuni aspetti trattati, di riferimenti dottrinali, quello che si va ad esporre non è
indicazione di un'unica strada percorribile, ma di un ragionevole percorso indicato
dai numerosissimi casi giurisprudenziali.
5
Capitolo primo
EVOLUZIONE STORICA DELLA FIGURA DEL SOCIO
ACCOMANDANTE
1. Accomandante semplice apportatore di capitale: dalla commenda
all'associazione in partecipazione.
Nel diritto vigente la società in accomandita semplice è caratterizzata dalla
necessaria coesistenza di due distinte categorie di soci: i soci accomandatari, i
quali sono illimitatamente e solidalmente responsabili per le obbligazioni sociali
ed hanno correlativamente il potere di amministrare la società, e i soci
accomandanti, i quali sono responsabili nei limiti della quota conferita e sono
esclusi dall'amministrazione pur avendo poteri di controllo sulla gestione1.
Per capire come si è affermata la figura del socio accomandante bisogna
analizzare le varie fasi che ha attraversato l'accomandita, dapprima semplice
associazione in partecipazione per poi essere definita società.
E' dalla commenda, originariamente definita contratto di mutuo, sviluppata nel
diritto marittimo, che deriva l'associazione in partecipazione e, secondo una tesi
1V. BUONOCORE, Istituzioni di diritto commerciale, Torino, 2006, 126.
6
diffusa in dottrina2, l'accomandita. Termine che addirittura nella Roma antica
indicava la raccomandazione di candidati agli elettori, dall'undicesimo secolo in
poi il termine indicò un tipo di contratto commerciale di tipo fiduciario.
Di commenda si parlava già nel medioevo, soprattutto nel linguaggio proprio
degli ambienti ecclesiastici. Nel diritto canonico la commenda era l'affidamento a
un chierico o a un laico di un beneficio vacante.
In commendam alla lettera, “in affidamento” era un'espressione latina con la quale
si soleva indicare essenzialmente l'affidamento dei redditi di un'abbazia ad un
abate commendatario, che in tal caso aveva giurisdizione senza però esercitare
alcuna autorità sulla disciplina monastica interna, o anche ad un laico.
L'espressione deriva dalla prima parola del testo di affidamento del vescovo di
Milano dei suoi redditi di un'abbazia: “Commendo tibi, fili, Ecclesiam quae est ad
Forum Cornelii... donec ei ordinetur episcopus”.
In pratica, soprattutto agli inizi, era il modo di concedere a vescovi che risultavano
cacciati da invasioni o guerre, di mantenere il proprio tenore di vita, senza tuttavia
abbracciare lo stato monastico.
Nel mondo commerciale medioevale la commenda ebbe notevole sviluppo, e per
distinguere le due tipologie di soci già venivano usati i termini di accomandatario
e accomandante, ma con un significato più caratteristico. Accomandante poteva
essere addirittura un parente o un amico.
Ad esempio, quando un mercante partiva per una impresa commerciale per terre
lontane, raccoglieva presso parenti e amici somme di denaro necessarie per
2T. ASCARELLI, Lezioni di diritto commeciale, Milano, 1955, 9; FIERLI, Della società chiamata
accomandita e di altre materie mercantili, Macerata, 1840, cit. 44.
7
l'impresa: chi dava il danaro si chiamava “accomandante” e rispondeva solo nei
limiti del capitale investito, chi lo riceveva si chiamava “accomandatario”,
amministrava l'impresa, ma rispondeva illimitatamente o, come si diceva, ultra
vires.
La commenda per la sua diffusione in vasti strati della popolazione, anche fra
persone estranee agli affari come donne e minori sotto tutela, esercitò
sull’economia la funzione che gli acquirenti numerosissimi di piccoli gruppi di
azioni esercitano sulla nostra economia industriale: in luogo di una grande azienda
di carattere continuativo si creò una grande azienda sociale temporanea ma
periodicamente rinnovatesi e in condizione di potere esercitare un commercio
vastissimo.
Sull’origine medievale della società in accomandita semplice il Galgano3
ribadisce le analogie esistenti tra questo tipo di società e la commenda o
accomanda. La funzione economica appare riconducibile alle prime forme di
capitalismo.
Sul finire del medioevo, infatti, la ricchezza era in mano all’aristocrazia e al clero,
classi alle quali era interdetto l’esercizio di attività economiche. La commenda era
il contratto attraverso il quale un capitalista affidava denaro ad un mercante in
cambio della partecipazione agli utili che il secondo avesse ottenuto da una
spedizione economica d’oltre mare.
Così come definita la “società” in accomandita, sviluppo della commenda,
presentava la peculiarità dell’apporto del capitalista che non entrava nel
3F. GALGANO, Le società in genere, le società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale,
diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni e Schlesinger , Milano, 1982, 334 ss.
8
patrimonio del mercante; quest’apporto assumeva la stessa condizione giuridica
dei beni conferiti in una società in nome collettivo. Esso formava un patrimonio
autonomo, non aggredibile dai creditori personali di capitalista e mercante e
destinato solo ai creditori dell’impresa.
“L'accomandita semplice non aveva un proprio nome distinto da quello delle parti
che la costituivano, non vi era né fondo sociale né ragione sociale né organismo
proprio, ma vi era solo il nome ed il patrimonio del commendatario in cui erano
coinvolti gli apporti del commendante”4.
L'assenza di una ragione sociale era ritenuta l'indice più significativo per cogliere
la natura giuridica della società in accomandita e per considerarla un'associazione
in partecipazione5.
L'accomandita permise, nel corso dei suoi successivi sviluppi, la partecipazione ai
guadagni offerti dall’esercizio di un’attività commerciale mediante l’assunzione di
un rischio limitato. Gli accomandanti in questo tipo di rapporto erano semplici
creditori degli accomandatari e non acquistavano invece la qualità di soci. Gli
unici nomi spesi erano quelli degli accomandatari, ovvero “i nomi di quelli che
ricevessero in accomandigia” così come riportava lo statuto del 30 novembre del
1408 emanato dalla repubblica fiorentina6.
In sostanza l'accomandita non era una società bensì un'associazione in
partecipazione, un semplice rapporto obbligatorio tra associante ed associato che
non dava mai vita ad un gruppo organizzato7. La presenza o l'assenza di un nome
4SOPRANO, Trattato teorico pratico delle società commerciali, I, Torino, 1934, 228.
5A. SCIALOJA, Sull'origine delle società commerciali, in Saggi di vario diritto, I, Roma, 1927, 238.
6FIERLI, Della società chiamata accomandita e di altre materie mercantili, Macerata, 1840, 10 ss.
7GHIDINI, L'associazione in partecipazione, Milano, 1959, 153.
9
sociale costituiva un elemento significativo per accertare se in una determinata
fattispecie ricorrevano gli estremi della società o dell'associazione8.
Proprio perché era un semplice rapporto obbligatorio tra soggetti non era definita
in nessuno statuto comunale societas. Vi era in tale associazione, però, la presenza
di due categorie di soggetti; l'associato, paragonabile all'accomandante, era
semplice apportatore di capitale.
L'istituto che nelle norme legislative fiorentine veniva designato con il termine di
accomandigia poteva essere soltanto un contratto particolare. Alcuni ritenevano9
che questa accomandigia fosse un sinonimo di deposito. Questa era l'opinione
dell'Arcangeli che però non sembrò condivisibile.
Infatti secondo il Goldschmidt10, ciò comportava una continua confusione tra
accommendacio (accomandigia), depositum e mutuum negli atti di quietanza e
anche negli statuti. Nel linguaggio del diritto la parola commendare venne chiarita
con l'espressione deponere, la quale però, ancora secondo il Goldschmidt , non vi
si accordava bene.
Il deposito vero includeva l' obbligo dei riceventi di restituire il capitale alla fine
del contratto, obbligo, che non poteva esser contenuto, almeno in modo assoluto,
nell' accomandigia, ove coloro che davano un capitale ne assumevano pure il
rischio. In ogni modo gli accomandanti o depositanti, in questo contratto
particolare dovevano apparire sempre come creditori: creditori speciali, forse con
diritti di prelazione, interni della compagnia, che restava però sempre in nome
8BRUNELLI, Il libro del lavoro, in Commento al cod. civ. it., edito da Vallardi, Milano, 1956, 470.
9ARCANGELI, La commenda a Venezia specialmente nel secolo XII , in Riv. it. per le scienze
giuridiche, XXXIII fase. 1-2, Torino, 1902, 1292.
10GOLDSCHMIDT, Universalgeschichte des Handelsrechts , Stuttgart, 1891, 261-268.
10
collettivo, perché le leggi non riconoscevano altro tipo di associazione.
Ad esempio nel Costituto volgare di Siena del 1309-10 si trova un'accomandigia11
e una comandigia12 ma non si allude mai in tal modo ad una compagnia
mercantile, il cui tipo è caratterizzato dalla responsabilità, uguale ed illimitata dei
membri, tra cui alcuno può solo come mandatario distinguersi dagli altri13.
2. La ragione sociale e il divieto degli accomandanti di comparirvi.
E' dalla metà del secolo XVI che analizzando le norme contenute negli statuti
italiani, taluni Autori hanno desunto la prova della mutata natura
dell'accomandigia.
La ragione sociale apparve alla metà del sedicesimo secolo e precisamente nello
statuto di Lucca del 1554; ad esso seguirono lo statuto bolognese del 1583, quello
genovese del 1589 e tutti gli statuti successivi. In questi statuti venne stabilito per
la prima volta il divieto per gli accomandanti di inserire il proprio nome nella
ragione sociale. Contravvenendo a tale divieto, tali soggetti sarebbero incorsi nella
responsabilità illimitata e solidale con gli accomandatari per le obbligazioni
sociali14. La ragione sociale aveva la funzione di indicare l'esistenza di un
patrimonio comune e di un'attività esercitata da più persone. Di queste persone,
11COSTITUTO 1309-10, Dist. II, 59 De la muttita, accomandigia et deposito .
12COSTITUTO 1309-10, Dist. II, 115 Che lo forestiere el quale die ricevere alcuna cosa da li
sottoposti de' mercatanti possa dare le sue ragioni ad alcuno de' consoli.
13COSTITUTO 1309-10, Dist. II, 123 Che neuno compagno o vero fattore possa contrare
compagnia per se con altrui, se prima non rende ragione a li compagni.
14ARCANGELI, La commenda a Venezia specialmente nel secolo XII, in Riv. it. per le scienze
giuridiche, XXXIII fase. 1-2, Torino, 1902, 1292.
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