Esistono dunque altri possibili scopi del contratto sociale oltre lo scopo di lucro.
In primis, lo scopo mutualistico (presente nelle cooperative e nelle mutue
assicuratrici), non espressamente definito dalla normativa civile neanche dal
legislatore della riforma societaria ex D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 (recante
"Riforma organica della disciplina delle societa' di capitali e societa' cooperative,
in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366"), ma solo da quella fiscale.
Il legislatore fiscale stabilisce che per mutualità deve intendersi la capacità di
fornire ai soci beni, servizi o occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di
quelle che otterrebbero sul mercato (cioè un vantaggio economico diretto che
potrà consistere in un risparmio di spesa o in una maggiore remunerazione del
proprio apporto, anche lavorativo).
Si considera altresì esistente uno scopo consortile, tipico dei consorzi istituiti in
forma di società ex art. 2615 ter c.c., che consiste nel supportare le imprese
consorziate nella disciplina o nello svolgimento in comune delle rispettive attività
economiche (al fine di procurare un vantaggio patrimoniale diretto, sotto forma
di maggiori ricavi o minori spese, grazie ai rapporti di scambio tra i consorziati).
In relazione allo scopo di lucro della società consortile, la giurisprudenza ha
sostenuto esplicitamente che la società consortile possa “…costituirsi anche in
assenza del perseguimento dello scopo di lucro; in tal caso, infatti, ai sensi
dell'art. 2602, la causa giuridica del contratto è proprio quella del consorzio…”
2
Elemento comune delle tre categorie esaminate è la realizzazione di un risultato
economico a vantaggio esclusivo dei soci, è comune cioè lo scopo-mezzo (si parla
in questo caso di autodestinazione dei risultati, che nelle società cooperative e
del suo scopo assume imprese di pubblici spettacoli a pagamento, come rappresentazioni teatrali,
corsi carnevaleschi, fiere fantastiche e simili, con agevolazioni pecuniarie per le famiglie dei soci”;
infatti, secondo la Corte “non è possibile disconoscere che più persone, le quali per scopo di
divertimento e ricreazione si uniscono insieme, formino una vera e propria società…allorché
fruiscono di certi vantaggi pecuniari, sia pure modesti, oltre che morali, i quali appunto si
concretano nel divertimento…infatti, la parola guadagno, nel suo lato senso, comprende qualsiasi
profitto e beneficio, tanto materiale che morale, ossia anche quel lucrum boni delectabilis…”.
In senso conforme si era già espressa la Cass. Firenze, 7 luglio 1887, Giur. it., 1887, vol. I, sez. I,
p. 673; infatti discutendo se una società filarmonica fosse o meno da considerare società civile, la
Corte ha optato per la prima soluzione, considerando che “tutto quanto nell’ordine materiale e
morale può giovare al benessere dell’uomo, e così anche la ricreazione onesta e civile con dati
intrattenimenti (nella specie il culto dell’arte musicale) può essere oggetto di contratti di società”.
2
Decreto Corte d'Appello Ancona 10 novembre 1980, in Marasà G., Osservazioni in tema di società
consortile e scopo di lucro (nota a decreto Tribunale Ascoli Piceno, 2 ottobre 1980 e decreto Corte
d’Appello Ancona, 10 novembre 1980), in Giurisprudenza Commerciale, 1981.
nelle società consortili consisterà poi più specificamente nello scopo-fine del
vantaggio patrimoniale diretto, mentre nelle società a scopo di lucro nella
divisione degli utili).
Con l'introduzione della figura giuridica dell'impresa sociale si è infine per la
prima volta data una specifica veste giuridica alle società senza scopo di lucro
propriamente dette e il concetto di imprenditoria è stato definitivamente distinto
da quello di finalità lucrativa, ben potendosi esercitare un’attività economica con
tutti i requisiti dell’impresa di cui all’art. 2082 c.c.
3
pur perseguendo uno scopo
diverso da quello di divisione degli utili ex art. 2247 c.c..
Ciò non toglie che “lo scopo che normalmente anima l’imprenditore è la
realizzazione del profitto e del massimo profitto consentito dal mercato”,
attraverso lo svolgimento secondo metodo economico dell’attività, ovvero
“secondo modalità che consentono quanto meno la copertura dei costi con i ricavi
ed assicurino l’autosufficienza economica”.
4
Il lucro tipico dell’attività imprenditoriale, dunque, alla luce delle riflessioni della
più diffusa dottrina e giurisprudenza, non si pone in una situazione di
inconciliabilità rispetto alla natura degli scopi degli enti, perché esso non è
elemento essenziale dell’impresa, quanto piuttosto elemento naturale.
E’ utile a questo punto distinguere, come la dottrina maggioritaria ha fatto, il
lucro oggettivo dal lucro soggettivo, intendendo per il primo l'attività
oggettiva di conseguimento di un risultato patrimoniale apprezzabile, ottenuto a
mezzo di una ottimizzazione dei costi e dei ricavi; per il secondo la
remunerazione o altro vantaggio patrimoniale per il singolo socio, correlati al
capitale e all’apporto dal medesimo investito nell'attività economica, in pratica il
movente psicologico dell’imprenditore.
Alla luce delle considerazioni esposte, solo il primo elemento deve ritenersi
connotazione imprescindibile di ogni organismo imprenditoriale, non il secondo
(lucro soggettivo), che può anche in tutto o in parte mancare ed essere limitato
da norme di legge o di contratto.
3
Art. 2082 c.c. “E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al
fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi”.
4
Campobasso G., Diritto commerciale – UTET Giuridica, 2006.
Quando si parla di enti “senza scopo di lucro” ci si riferisce propriamente,
pertanto, all’assenza del c.d. lucro soggettivo, ovvero la mancanza di
distribuzione degli utili/avanzi di gestione ai soci di una società o, più
genericamente, ai membri di un’organizzazione.
Gli enti senza scopo di lucro non sono dunque quelli che non realizzano, e non
possono realizzare, utili oggettivi dall’attività che svolgono, ma sono quelli che
non assegnano ai soci gli utili oggettivi eventualmente ricavati.
Un ulteriore problema sorto con il riconoscimento delle imprese senza scopo di
lucro è quello di impedire legislativamente che il divieto sia aggirato mediante
distribuzioni indirette di utili (eccessiva remunerazione del lavoro, eccessivi
compensi agli amministratori, vendite a prezzo di favore, ecc.).
A tal fine è stata elaborata per la prima volta dal D. Lgs. 4 dicembre 1997, n.
460 recante "Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative di utilita' sociale", conosciuto come Decreto ONLUS,
una terza nozione di lucro, e cioè il “lucro indiretto” e il relativo divieto di
perseguirlo per le società che acquisiscano la qualifica di imprese sociali.
5
1.2 - Le cooperative: società senza scopo di lucro o lucro come risparmio
di spesa?
Il discorso si fa ancora più complesso per quanto riguarda le società
cooperative, per le quali il legislatore della riforma societaria di cui alla Legge
Delega n. 366 del 3 ottobre 2001, recante “Delega al Governo per la riforma del
diritto societario”,
6
ha previsto un ulteriore elemento di differenziazione: la
mutualità prevalente e non prevalente.
5
Al comma 6 dell’art. 10 si legge: «Si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili o di
avanzi di gestione: a) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi a soci, associati o partecipanti, ai
fondatori, ai componenti gli organi amministrativi e di controllo, a coloro che a qualsiasi titolo
operino per l’organizzazione o ne facciano parte, ai soggetti che effettuano erogazioni liberali a
favore dell’organizzazione, ai loro parenti entro il terzo grado ed ai loro affini entro il secondo
grado, nonché alle società da questi direttamente o indirettamente controllate o collegate,
effettuate a condizioni più favorevoli in ragione della loro qualità …; b) l’acquisto di beni o servizi
per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore nominale; c) la
corresponsione ai componenti gli organi amministrativi e di controllo di emolumenti individuali
annui superiore al compenso massimo previsto dal d.p.r. 10 ottobre 1994, n. 645, e dal d.l. 21
giugno 1995, n. 336, convertito dalla l. 3 agosto 1995, n. 336, e successive modificazioni e
integrazioni, per il presidente del collegio sindacale delle società per azioni; d) la corresponsione a
soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in
dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di 4 punti al tasso ufficiale di sconto; e) la
corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a
quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche».
6
Attuata dal D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 entrato in vigore il 1 gennaio 2004.
Le cooperative, come tutte le altre società, non possono che svolgere attività
d’impresa e come tali conseguire un lucro oggettivo al quale non pare possa porsi
alcun limite.
Ma al contempo perseguono uno scopo mutualistico e non lucrativo (art. 2511
c.c.
7
), ovvero l’obiettivo di realizzare scambi mutualistici con i propri soci a
condizioni il più possibile favorevoli per questi ultimi.
Occorre precisare, al riguardo, come lo scopo di lucro soggettivo non sia del tutto
assente nelle società cooperative, le quali ben possono realizzare un utile
ripartibile tra i soci nei limiti e nelle forme previste dalla legge, possibilità negata
altresì alle imprese sociali per le quali il legislatore ha dettato invece un divieto
assoluto di lucro, anche indiretto.
Le società cooperative si distinguono dunque dagli altri tipi di società non in
quanto non perseguano un lucro oggettivo, ma per il particolare fine perseguito
ossia lo scopo mutualistico, del quale tuttavia la legge non fornisce a tuttoggi
espressamente alcuna definizione, ma al quale già la Costituzione ha riservato un
trattamento privilegiato e una specifica tutela rispetto al fine lucrativo delle
imprese in genere (art. 45 Cost.
8
).
Le cooperative in tale accezione, si è detto, non sono solo imprese, ma sono
essenzialmente un fenomeno sociale e politico.
9
Nascono nell’Ottocento in Inghilterra originariamente nella forma della
cooperativa di consumo e successivamente di lavoro, fino ad estendersi in tutti i
settori economici e sociali, tra cui il terziario, come strumenti per offrire alle
classi più povere delle società industriali beni o occasioni di lavoro più
convenienti grazie all’assunzione diretta da parte degli interessati dell’attività
d’impresa e dunque l’abbattimento dei costi di intermediazione.
Si è parlato a tal proposito di socio quale imprenditore di se stesso, alla cui figura
può ricondursi il Forderungzweck tedesco o il self-help anglosassone.
7
Art. 2511 c.c. “Le cooperative sono società a capitale variabile con scopo mutualistico.”
8
Art. 45: “ La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e
senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più
idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità…”
9
Così Bonfante G., Imprese Cooperative, Zanichelli, 1999.
Intorno a questo principio essenziale si è prodotta una legislazione cooperativa
estremamente mutevole e variegata, e spesso perfino ostacolata da classi
politiche avverse all’affermazione del fenomeno.
In tale processo di normazione un ruolo fondamentale va riconosciuto all’impulso
delle Associazioni di rappresentanza (riconosciute per legge) nonché dai vari
organismi internazionali che si sono adoperati per una definizione giuridica della
cooperazione.
10
Il complesso quadro di riferimento delle cooperative con scopo mutualistico
risulta dunque dalle norme che si sono succedute nel tempo e dall’accoglimento
delle interpretazioni più diffusamente, ma non unanimemente, accettate da
dottrina e giurisprudenza, che hanno peraltro dovuto fare i conti con le realtà
politiche, economiche e sociali dei vari stati.
In Italia, come per il passato, nonostante il riordino giuridico della cooperazione
operato dal D. Lgs. 6/2003, stante l’oggettiva difficoltà di predeterminare il
fenomeno in tutti i suoi aspetti, il legislatore della riforma continua volutamente
(così appare) ad omettere una definizione dello scopo mutualistico nel timore che
questa possa limitare lo sviluppo del fenomeno cooperativo.
Occorre pertanto far riferimento ancora alla definizione contenuta nel testo della
Relazione del Guardasigilli al Codice Civile, che individua lo scopo mutualistico
“nel fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri
dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul
mercato”.
La Relazione fa rientrare altresì nello schema cooperativo una serie di regole
democratiche inderogabili quali il voto per testa, la limitazione delle quote
possedibili per ciascun socio, la porta aperta e quindi la variabilità del capitale, la
solidarietà, oltre la limitazione ai dividendi e la indivisibilità delle riserve.
Il vantaggio attribuito dalle cooperative ai soci, non consiste, dunque, come nelle
società lucrative, nella remunerazione del capitale conferito (lucro soggettivo)
generalmente in proporzione alle quote possedute, ma nella maggiore
remunerazione rispetto al mercato della prestazione fornita dal socio alla
10
Il primo organismo, sorto nel 1895 per iniziativa del movimento cooperativo inglese, è l’Alleanza
Cooperativa internazionale, cui hanno aderito via via le organizzazioni cooperative di tutto il mondo
e che ha ricevuto dall’O.N.U. il riconoscimento di organismo consultivo di prima categoria.
cooperativa o, per quanto riguarda le cooperative di servizi, nel minore costo
della prestazione fornita dalla cooperativa al socio.
E’ nello scopo-fine che si colloca la distinzione e, quindi, l’originalità di questo
tipo sociale, nel quale i soci non svolgono un’attività di impresa per conseguire
utili da dividersi in proporzione alle quote possedute, bensì l’autogestione
(improntata al principio di democraticità e della porta aperta) è volta a fornire
direttamente ai soci beni, servizi od occasioni di lavoro a condizioni più
vantaggiose di quelle che i soci stessi otterrebbero sul mercato.
Il perseguimento dello scopo mutualistico viene raggiunto, dunque, attraverso il
conseguimento di un vantaggio differenziale del socio che ottiene un risparmio di
spesa (nelle cooperative di utenza) o un maggior corrispettivo per i beni o servizi
apportati (nelle cooperative di conferimento) o una migliore remunerazione delle
prestazioni lavorative fornite (nelle cooperative di produzione e lavoro), rispetto
alle condizioni praticate sul mercato.
Il che, in definitiva, equivale al margine che nelle imprese lucrative percepisce
l’imprenditore.
1.3 - La mutualità pura, prevalente e non prevalente
Nel silenzio del legislatore in merito ad una precisa definizione dello scopo
mutualistico, la dottrina ha ritenuto di distinguere la mutualità in “esterna”,
rivolta a terzi, e “interna” (o “egoistica”), rivolta esclusivamente ai soci.
La mutualità esterna viene realizzata prevalentemente attraverso:
· il riconoscimento a terzi del vantaggio mutualistico
11
;
· la destinazione a terzi degli utili, al fine di promuovere e sviluppare la
cooperazione (mutualità “altruistica” o “di sistema”).
11
Concetto che sembra oggi trovare legislativa conferma nel 2° comma dell’art. 2520, che
riconosce legittimità a determinate cooperative disciplinate da norme speciali «destinate a
procurare beni e servizi a soggetti appartenenti a particolari categorie anche di non soci» -
Bonfante G., Imprese cooperative, ricorda come già Vivante, nel 1886, teorizzava l’esistenza di una
cooperativa che distribuisse i suoi vantaggi agli utenti e non solo ai soci. In quest’ottica la c.d.
mutualità esterna, contrapposta a quella contrattuale in senso stretto, assegna alle cooperative lo
scopo di soddisfare i bisogni non solo dei soci ma anche della categoria sociale cui gli stessi
appartengono: l’essenza del fenomeno è da ravvisare, secondo Verrucoli P., Le società cooperative,
nel «collegamento funzionale tra la società cooperativa ed un gruppo sociologico» o
nell’«attivazione della categoria di un determinato settore economico».
Il riconoscimento a terzi del vantaggio mutualistico è stato raramente applicato
nella pratica (si veda ad es. l’articolo 9, R.D. 12 febbraio 1911, n. 278 –
“Approvazione del regolamento relativo alla concessione di appalti a Società
cooperative di produzione e lavoro e alla costituzione dei Consorzi di cooperative
per appalti di lavori pubblici”
12
).
Tuttavia il concetto di mutualità esterna ha un significato più generico rispetto a
quello desumibile dalla legislazione citata sugli appalti.
Si tratta invero di una funzione correttiva della distribuzione della ricchezza
propria dello spirito cooperativo.
In effetti negli ultimi decenni si è assistito ad una espansione di tale significato
attraverso il perseguimento degli interessi di soggetti estranei alle compagini
sociali, in particolare le categorie di consumatori e lavoratori.
Su tale estensione interpretativa le grandi cooperative di consumo italiane hanno
previsto fra le proprie finalità la tutela dell’interesse generale dei consumatori
accanto a quella dei consumatori soci.
13
Sono state così raccolte le spinte dottrinali ed economiche all’affermarsi di un
diverso ruolo delle cooperative rispetto alla mera gestione di servizio: il
perseguimento di interessi quasi pubblicistici riguardanti i cosiddetti
stakeholders, cioè i soggetti esterni interessati alle attività delle cooperative in
termini di accesso a prodotti di qualità a prezzi competitivi o favorevoli condizioni
di lavoro o di servizi.
E’ ovvio che tale orientamento risponde alla necessità di garantire la
prosecuzione delle attività alle cooperative che si trovano ad operare in
un’economia forte, e costrette altrimenti ad essere confinate in attività marginali
e meno evolute.
Allo stesso tuttavia si sono contrapposti i fautori di un ritorno alla mutualità
vergine intesa come gestione di servizio, seppure con effetto limitante del
fenomeno cooperativo, preoccupati del rischio di una snaturalizzazione delle
12
Art. 9. Quote degli utili degli ausiliari. – “Le cooperative le quali adottano il riparto degli utili
indicato nell'art. 7 lettera a), se assumano operai ausiliari e se non li ammettano a partecipare agli
utili alle stesse condizioni dei soci, devono accantonare una quota di utili corrispondente a quella
che ad essi competerebbe se fossero soci, e versarla al fondo di riserva od eventualmente ai fondi
destinati per gli scopi di cui all'art. 7 lettera b).”
13
Bonfante G., Imprese cooperative, Zanichelli, 1999.
caratteristiche peculiari di tali tipi di società conseguente all’imbarbarimento della
platea sociale destinataria dei servizi.
14
La mutualità altruistica (o “di sistema”) ha trovato applicazione con
l’istituzione dei fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della
cooperazione, previsti dagli articoli 11 e 12 della L. 31 Gennaio 1992, n. 59
recante “Nuove norme in materia di società cooperative”.
Infatti, le società cooperative sono obbligate a concorrere al finanziamento del
sistema cooperativo sia durante la vita della società, destinando parte degli utili
d’esercizio realizzati ai predetti fondi (ovvero, ove non aderiscano ad alcuna
associazione di categoria, al Ministero dello Sviluppo economico), che al
momento del loro scioglimento o dell’eventuale trasformazione in ente non
cooperativo, devolvendo agli stessi soggetti il patrimonio sociale, detratti i
dividendi maturati ed il capitale versato e rivalutato.
La mutualità altruistica, oggetto di alcune norme contenute nel Codice Civile, ha
dunque l’obiettivo della promozione e del rafforzamento dell’intero settore
cooperativo, attraverso l’apposita destinazione di risorse finanziarie accumulate
in seno alle singole società cooperative.
Gli interventi legislativi che hanno preceduto la riforma del diritto societario del
2003 hanno privilegiato la mutualità altruistica, mentre il legislatore della riforma
ha tenuto massimamente in considerazione la mutualità interna, e cioè il
vantaggio rivolto ai soci.
Con riferimento a quest’ultima, è stata disciplinata la distinzione tra società
cooperative a mutualità prevalente e società cooperative diverse,
distinzione che rileva sostanzialmente, come vedremo, solo sul piano dell’accesso
alle agevolazioni tributarie.
La società a mutualità prevalente, rappresenta infatti solo una categoria della
società cooperativa: la Relazione al disegno di legge di riforma ne ha dato
conferma riferendosi “ad una visione fondamentalmente unitaria del fenomeno”
che è corrisposta ad una medesima normazione in merito alle forme di
organizzazione e amministrazione, riservando diverse disposizioni
esclusivamente alle cooperative che vogliono accedere ai regimi agevolati previsti
14
Buonocore V., Diritto della cooperazione, Il Mulino, 1997.
per la mutualità prevalente e per gli aspetti connessi al riconoscimento di tale
qualità.
La circostanza che la società cooperativa che rispetti la prevalenza, di cui meglio
si dirà in seguito, sia considerata meritevole dell’accesso ai benefici fiscali è,
comunque, un chiaro incentivo al perseguimento della mutualità “interna”,
esplicitato dal legislatore fiscale nelle forme di esenzione o sgravio della
tassazione sugli utili, sulle riserve e sui ristorni, nonché nella inapplicabilità di
determinati istituti tributari, quali gli studi di settore, per le cooperative a
mutualità pura, che operino cioè esclusivamente con i soci (art. 2 D.M. 30
marzo 1999, recante “Approvazione in base all'articolo 62-bis del Decreto Legge
30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre
1993, n. 427, degli studi di settore relativi ad attività economiche nel settore del
commercio”
15
).
Il legislatore, infatti, in attuazione della legge delega, ha valorizzato il rapporto
mutualistico rispetto al rapporto sociale riconoscendo una particolare
meritevolezza sotto il profilo del vantaggio fiscale solo alle cooperative a
mutualità prevalente, cioè a quelle che operano prevalentemente con i soci,
circostanza che dovrebbe attenuare quelle distorsioni delle regole concorrenziali
che di per sé le agevolazioni tributarie determinano a favore delle cooperative (e
rilevate più volte dagli organismi dell’U.E.).
Le cooperative a mutualità prevalente presuppongono una duplice scelta
statutaria e gestionale, che costituisce il presupposto per il godimento delle
agevolazioni tributarie: la limitazione del lucro soggettivo dei soci (art. 2514 c.c.
15
Ai sensi dell'art. 2, lettere d) ed e), D.M. 30 marzo 1999, gli studi di settore non si applicano:
"nei confronti delle società cooperative [...] che operano esclusivamente a favore delle imprese
socie o associate";
"nei confronti delle società cooperative costituite da utenti non imprenditori che operano
esclusivamente a favore degli utenti stessi".
Nella circolare del 21 maggio 1999, n. 110/E, punto 6.5, si legge che "le cause di inapplicabilità
fanno riferimento alle cooperative di imprese e quelle di utenti che non operano per conto terzi e
che non seguono le ordinarie regole di mercato. Tali cause di inapplicabilità operano in presenza di
attività svolte esclusivamente a favore dei soci o associati e degli utenti".
“Qualora ricorrano i requisiti mutualistici e le condizioni di prevalenza, gli uffici devono valutare di
volta in volta gli elementi di riferimento per la determinazione dei ricavi, adeguandoli alla
situazione locale, alla tipologia di attività svolta, nonché alle particolari "situazioni di mercato
influenzate dal perseguimento di fini mutualistici che possono incidere in maniera anche rilevante
sui ricavi conseguiti (ad esempio, qualora si sia perseguito l'obiettivo di ridurre le spese dei soci
attraverso lo strumento cooperativo, come potrebbe avvenire nel caso di cooperative edilizie che
costruiscono alloggi per i soci)".
16
) e l’impegno ad operare in prevalenza con i soci stessi (artt. 2512–2513 c.c.)
17
.
Il regime di limitazione del lucro soggettivo dei soci cooperatori si traduce in un
tetto assoluto ai dividendi e nel regime di assoluta indivisibilità delle riserve tra i
soci cooperatori nonchè, infine, nella rigida regola secondo la quale, in caso di
scioglimento dell’ente, ai soci spetterebbe esclusivamente il rimborso del capitale
nominale e dei dividendi maturati, mentre l’intero residuo dell’attivo di
liquidazione verrebbe destinato ai fondi mutualistici (istituiti dall’art. 11 della
Legge 31 gennaio 1992, n. 59).
Si rileva che le clausole squisitamente non lucrative previste per le cooperative a
mutualità prevalente ex art. 2514 c.c. sono meno rigorose di quelle già dettate
dall'art. 26 della Decreto Legislativo del Capo Provvisorio dello Stato 14 dicembre
1947, n. 1577 (più noto come "Legge Basevi", dal nome di Alberto Basevi, figura
storica del movimento cooperativo - norma formalmente non abrogata che
rimane in vigore per le particolari cooperative alle quali non si applica la riforma
societaria del 2003 - consorzi agrari; banche di credito cooperativo).
In particolare viene garantito maggiormente il lucro soggettivo dei possessori di
strumenti finanziari, e stabilita la possibilità di distribuire a questi ultimi le riserve
divisibili; ai soci cooperatori è possibile restituire la quota di capitale derivante da
aumento gratuito mediante imputazione dei ristorni.
La riduzione delle limitazioni alla distribuzione di dividendi ha evidentemente
raccolto l’esigenza delle cooperative di risolvere l’annoso problema della
sottocapitalizzazione, incentivando la patrimonializzazione grazie alla possibilità
di accogliere nella platea sociale finanziatori non cooperatori che perseguano uno
scopo di investimento a lucro comunque contenuto e dunque non confliggente
con lo scopo antispeculativo della società, e destinando parte del proprio
vantaggio mutualistico ad incrementare il capitale sociale.
16
Art. 2514 c.c. “Le cooperative a mutualità prevalente devono prevedere nei propri statuti:
1. il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali
fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato;
2. il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in
misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi;
3. il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori;
4. l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società dell’intero patrimonio sociale,
dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la
promozione e lo sviluppo della cooperazione….”
17
Racugno G., La società cooperativa. I profili generali, Dircomm.it , IV.11 – novembre 2005.
La sottocapitalizzazione è stata spesso, infatti, a giudizio di parte della dottrina,
una delle più incisive cause di impedimento al perseguimento da parte delle
cooperative di politiche di espansione nel mercato, nonché all’adeguato
svolgimento della loro stessa funzione mutualistica
18
.
Il legislatore ha peraltro posto una particolare attenzione a che la cooperativa
stabilisca in sede statutaria con estrema precisione le regole relative ai rapporti
con gli eventuali soci finanziatori, compresi i diritti amministrativi e di
partecipazione alla gestione della società, al fine di non snaturare il principio del
voto capitario e della autogestione tipici del sistema cooperativo.
Sarà comunque responsabilità dei soci cooperatori, cui in ogni caso viene affidata
la governance dell’impresa, oltre che la redazione delle regole societarie,
consentire o meno che lo scopo lucrativo possa diventare prevalente rispetto a
quello mutualistico.
Peraltro, laddove la cooperativa non possegga i requisiti fiscali della mutualità
prevalente né operi prevalentemente con e per i soci e dunque non rientri in
alcuno dei regimi agevolati (c.d. cooperative diverse), i vincoli di indivisibilità e
indisponibilità del patrimonio tra i soci che caratterizzano le cooperative a
mutualità prevalente risultano ampiamente attenuati: ad esse è riservata infatti
autonomia statutaria in merito alle modalità di remunerazione e ripartizione di
utili e riserve
19
, oltre ad una maggiore libertà di trasformazione, potendo, a
differenza di quelle a mutualità prevalente, trasformarsi in società lucrative (art.
2545-decies c.c.).
Accanto alla limitazione del lucro soggettivo, il codice descrive all’art. 2512 come
società cooperative a mutualità prevalente quelle che, in funzione del
rapporto mutualistico:
1) svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o
utenti di beni o servizi;
2) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle
prestazioni lavorative dei soci;
18
Bonfante G., in “Il nuovo diritto societario” Commentario Cottino, Bonfante, Cagnasso,
Montalenti, 2004 – sul ruolo di democratizzazione e apertura del mercato a nuovi soggetti e sulla
cooperativa come stockholders society.
19
Art. 2545-quinquies c.c.
3) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli
apporti di beni o servizi da parte dei soci;
quelle cooperative cioè la cui caratteristica strutturale è costituita dalla doppia
veste, di socio - utente, che assumono i suoi componenti.
L’art. 2512 fonde così lo scambio mutualistico con i settori di attività cooperativa:
la qualificazione della prevalenza è in funzione del diverso modo di scambio e
acquisizione del vantaggio mutualistico, secondo che si tratti del settore della
cooperazione di consumo, del settore della cooperazione di produzione e lavoro,
e del settore della cooperazione di servizi.
La novità consiste nel fatto che la condizione di prevalenza deve essere valutata,
non con riguardo al mero raffronto numerico fra soci e terzi, bensì con
riferimento a quelle voci del conto economico nelle quali si concretizza e si
esprime il rapporto di scambio mutualistico con i soci.
Gli amministratori nella nota integrativa ed i sindaci nella relazione al bilancio
devono documentare la condizione di prevalenza in modo da fornire un’adeguata
informativa.
20
L’art. 2513 stabilisce i criteri per la definizione della prevalenza indicando i
parametri quantitativi, riferiti al valore degli scambi con i soci che riassumendo
schematicamente sono di seguito indicati:
Tipo di società
cooperativa
Parametro di
riferimento
Requisiti della prevalenza
Cooperativa
di consumo o
di utenza
Ricavi delle vendite
I ricavi dalle vendite di beni e dalle prestazioni
di servizi a favore dei soci sono > 50% dei ricavi
totali aziendali (voce “A1” del conto economico).
Cooperativa
di lavoro
Costo del lavoro
Il costo del lavoro dei soci è > 50% del costo
totale del lavoro (voci “B9” e “B7” del conto
economico)
Cooperativa
di conferimento
di servizi
Costo dei servizi
Il costo dei servizi erogati ai soci è > 50% del
costo totale per servizi (voce “B7” del conto
economico).
Cooperativa
di conferimento
di beni
Costo delle merci e
delle materie prime
acquistate
Il costo dei beni apportati dai soci è > 50% del
costo totale delle merci e delle materie prime (voce
“B6” del conto economico).
Cooperativa
agricola
21
Quantità o valore dei
prodotti agricoli
conferiti
La quantità o il valore dei prodotti conferiti dai
soci sono > 50% della quantità o del valore totale
dei prodotti
20
Unione Giovani Dottori Commercialisti – Commissione Società Cooperative – Documento n. 1
“Mutualità: determinazione della prevalenza e definizione dei requisiti”, ottobre 2005, in
www.ungdc.it.
21
Per queste cooperative il legislatore, al criterio generale del valore dei prodotti, ha affiancato
quello della quantità.