5
futuro possibile e migliore (ancora oggi siamo quotidianamente testimoni di simili aberranti
situazioni).
La nostalgiva, il “dolore del ritorno”, è, per altro, da sempre uno dei sentimenti più struggenti
dell’umanità. Ce lo ricorda la letteratura, rifugio di tanti celebri esuli, a partire dall’eroe per
eccellenza della lontananza, Odisseo, che “il giorno, seduto sopra le rocce e la riva, / con
lacrime, gemiti e pene il cuore straziandosi, / al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere
lacrime /… Solo la patria piangeva, / trascinandosi lungo la riva del mare urlante”
8
.
Similmente, con profonda malinconia, ma anche con crudo realismo Dante si faceva
profetizzare amaramente l’esilio:
«Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l'arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale»
9
.
E non meno noti sono i versi con cui Ugo Foscolo, con disperazione esule volontario,
rimpiangeva l’amata terra natale:
«Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque.
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
8
Omero, Odissea, (a cura di Rosa Calzecchi Onesti), Einaudi, Torino, 1963, V, vv. 156-158 (p.136); XIII, vv.
219-220 (p.364)
9
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Le Monnier, Firenze, 1979, vol.III, Paradiso XVII, vv. 55-60 (pp.287-
288)
6
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura»
10
Tanti altri se ne potrebbero ricordare, di tempi e luoghi molto diversi: da Alceo ad Ovidio, da
James Joyce a Gabriel Garcìa Màrquez a Milan Kundera. Gli scrittori meglio di altri sono stati
in grado di dare voce alla propria condizione, ma, come loro, milioni di individui hanno
vissuto il dramma dell’allontanamento dalla patria, in particolare in conseguenza di
sanguinosi conflitti. Ogni guerra, infatti, ha provocato e provoca trasferimenti più o meno
forzati di individui, anche là dove non sia sancito dalla diplomazia uno spostamento dei
confini. Il XX secolo è ricco di esempi in tal senso: deportati, fuggiaschi, profughi, rifugiati,
che in alcuni casi hanno messo fine ad insediamenti secolari. Si calcola che la sola
risistemazione dei confini avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale abbia portato al
trasferimento forzato di oltre quindici milioni di persone.
11
In certi casi perfino i trattati di
pace, per assurdo, non sono stati per la popolazione civile la fine dell’incubo, bensì il suo
inizio. In questa cornice trova posto la vicenda dell’esodo giuliano - dalmata. Simile a molti
altri, ma caratterizzato da alcune sue peculiarità: innanzitutto, perché ha riguardato noi
Italiani, sebbene la stragrande maggioranza della popolazione non ne abbia mai sentito
parlare. Quindi perché, pur essendo l’Istria, la Dalmazia e i Balcani in generale, terre abituate
a spostamenti massicci di popolazione, in quel caso a sparire fu una componente nazionale
pressoché intera. La cesura fu netta, in quanto esularono contadini, operai, artigiani, piccoli
commercianti e amministratori pubblici, che ricoprivano le cariche indispensabili al
funzionamento della società. Peculiare fu il modo in cui l’episodio venne raccontato (o non
raccontato) negli anni successivi. A lungo in tanti hanno taciuto, per ignoranza, per
disinteresse e forse anche per paura di passare per nazionalisti. Al contrario, chi s’è preso la
briga di parlarne lo ha fatto, spesso, per riattizzare l’odio, per poter sbattere in faccia
all’avversario politico le “proprie” vittime. Così “rimozione” e “strumentalizzazione” sono
corse a braccetto, contribuendo a incendiare gli animi e intorbidire le acque. Non stupisce che
in questo clima avvengano episodi come quello accaduto lo scorso maggio, quando davanti
alla Sapienza di Roma un gruppo di giovani è venuto alle mani: “Collettivi” versus “Forza
Nuova”; il pretesto una conferenza sulle foibe. Ed ecco che il desiderio, di cui ho tanto sentito
parlare, di “memoria condivisa” diviene tremendamente attuale. Episodi come quello di Roma
10
U. Foscolo, A Zacinto, in Storia della letteratura italiana (a cura di E.Cecchi, N.Sapegno), Garzanti, Milano,
1973, vol.VII (L’Ottocento), p. 141
11
G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, p. 99
7
lascerebbero pensare che l’istituzione del tanto auspicato Giorno del Ricordo non abbia fatto
altro che innescare nuove micce. Ma in una società che si è soliti definire “globale”, dalla
chiara vocazione “multietnica” e “multiculturale” e dove le frontiere fisiche cadono più
rapidamente dei pregiudizi, sarebbe forse opportuno evitare di fomentare i contrasti, cercando
piuttosto di effettuare un’analisi ragionata sugli accadimenti storici e sulle loro conseguenze,
sui fallimenti e sugli errori di progetti politici che non hanno risolto, bensì accentuato, le
tensioni fra gruppi sociali e nazionali.
La mia analisi prende inizio dai lavori della Commissione mista italo-slovena che analizzò i
rapporti fra i due stati dal 1880 al 1916. La relazione della Commissione evidenzia una serie
di punti fondamentali per capire le dinamiche che condussero all’esodo: i rapporti fra le
diverse etnie prima dell’avvento del fascismo, le violenze nazionaliste da esso scaturite, le
drammatiche conseguenze, per la Venezia Giulia, del vuoto di potere causato dal suo crollo,
l’avvento di Tito e dei partigiani jugoslavi, le sommarie rappresaglie perpetrate. Esaminate le
“ragioni di un esodo”, nel secondo capitolo mi soffermo su quanto avvenuto in seguito: un
inserimento difficile nel complicato tessuto sociale dell’Italia post-bellica, un’accozzaglia di
associazioni che per molti anni hanno conservato, in maniera quasi esclusiva, la memoria
storica dell’esodo stesso. La stampa di queste associazioni è stata, ed è ancora oggi, il mezzo
principale utilizzato per conservare e divulgare tale memoria. Fra i tanti periodici nati con
questo intento, ho scelto di esaminare “L’Arena di Pola”, non con la pretesa di farne il
simbolo della stampa giuliano - dalmata, ma per via dell’impossibilità di svolgere questo
lavoro su tutti i periodici in questione. Per completare l’indagine ho, infine, ritenuto
opportuno gettare uno sguardo sulle vicende della minoranza che, per svariate ragioni, non
scelse l’esodo, preferendo rimanere in Jugoslavia. Comprendere i rapporti fra le due anime
della vicenda, gli esuli e i rimasti, è fondamentale per capire come la conflittualità che li ha
caratterizzati per decenni, possa essere assurta a simbolo dei contrasti che ancora oggi
incendiano gli animi, allorché si parla di esodo e soprattutto di foibe.
8
CAPITOLO I
Le ragioni di un esodo
1.1 Dal silenzio all’istituzione della Commissione mista italo - slovena
La questione dell’esodo degli Italiani di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, è stata a lungo
ignorata dall’opinione pubblica italiana o, quantomeno, è rimasta confinata a livello locale,
per essere sbandierata nelle lotte politiche di città coinvolte, come Trieste e Gorizia.
Nonostante l’esistenza di una vasta produzione di pubblicazioni sul tema, questa si limitava
perlopiù a riprodurre la memoria delle vittime, così come era stata conservata dalle
organizzazioni della diaspora istriana, senza un adeguato intervento di analisi; inoltre, le
opere pubblicate avevano una circolazione quasi esclusivamente locale, limitata all'area
giuliana, che non permetteva un vero dialogo con la storiografia nazionale. Il risultato di
questo filone di studi non è stato pertanto sufficiente a colmare l’assenza dell’esodo istriano
dalla coscienza storica diffusa nel nostro paese. Raoul Pupo
12
, autore di diversi saggi
sull’argomento, parla in proposito di un “uso politico della storia”, riferendosi in particolare
alla duplice necessità, da parte delle forze politiche di sinistra, di “non dare fiato alle forze
anticomuniste in Italia”
13
e di mantenere stabili i rapporti con la Jugoslavia, optando quindi
per una sorta di silenzio-assenso.
Non a caso, il dibattito sul confine orientale è esploso solo negli anni ’90, dopo il crollo del
muro di Berlino, la conseguente dissoluzione dei regimi comunisti dell’Europa orientale e
l’emergere dei terribili conflitti etnici in Jugoslavia, inaspriti dalla grave crisi economica che
sprofondò il paese nel baratro. Proprio in questi anni si cominciò a chiedere, da più parti, di
fare finalmente chiarezza sulle gravi questioni avvenute al confine, così da mettere la parola
fine all’interminabile dopoguerra italiano. Fu questo il senso della mozione approvata
all’unanimità il 24 settembre del 1990 dal consiglio comunale di Trieste, per istituire una
commissione di storici e di esperti, in grado di dare risposte finalmente soddisfacenti. La
“Commissione mista storico-culturale italo - slovena” fu istituita nell’ottobre del 1993 su
indicazione dei Ministri degli Esteri dei due paesi (Andreatta - Rupel). Da parte italiana,
l'incarico fu affidato a storici, politici ed esperti di diritto internazionale, quali i professori
12
Docente di Storia Contemporanea e Storia del Venezia Giulia a Trieste, presso la facoltà di Scienze politiche,
è stato uno dei primi a riprendere in maniera sistematica, negli anni Novanta, gli studi sull’esodo e sulle foibe.
13
R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: Le persecuzioni, le foibe, l’esilio. BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano
2006, p.18
9
Sergio Bartole (poi sostituito da Giorgio Conetti), Fulvio Tomizza (alla sua morte, gli
subentrò lo stesso Pupo), Elio Apih (in seguito sostituito da Marina Cattaruzza), Fulvio
Salimbeni, Angelo Ara, Maria Paola Pagnini e il senatore Lucio Toth. Nella controparte
slovena un ruolo di primo piano ebbero Milica Kacin-Wohinz e Nevenka Troha.
Collaborarono anche Boris Gombac (sostituito successivamente da Alexander Vuga), Branco
Marusic, Boris Mlakar e Andrei Vovko. La Commissione terminò i lavori nel luglio del 2000
e la Relazione che ne derivò fu pubblicata l’anno seguente. Data la sua doppia natura, italo-
slovena, la Relazione dovrebbe essere considerata la testimonianza dei rapporti fra i due stati
meno inficiata da politiche di parte. Infatti, a seguito dei risultati raggiunti dalla commissione,
le pubblicazioni e i lavori incentrati sul tema del confine orientale (con tutte le sue
implicazioni) si sono susseguiti numerosi. A questi ho attinto per cercare di formare un
quadro esauriente degli avvenimenti che hanno preceduto e causato l’esodo. Nella
suddivisione per periodi mi sono ispirata alla temporizzazione utilizzata dalla stessa Relazione
della Commissione mista italo-slovena, con la divisione in:
1. Periodo 1880-1918
2. Periodo 1918-1941
3. Periodo 1941-1945
4. Periodo 1945-1956
A questi ho aggiunto un paragrafo a parte, intitolato “foibe” e collocato al termine del periodo
terzo, e un altro, in chiusura, dedicato al Trattato di Osimo, che chiuse il contenzioso sul
confine.
10
1.2 Periodo 1880-1918
Il rapporto fra le popolazioni italofone e slavofone ha origini antiche, risalenti al crollo
dell’impero romano d’Occidente sotto l’ondata delle invasioni barbariche, che portò a un
ampio rimescolamento di popoli, da cui progressivamente nacque la separazione fra i due
gruppi. Nei secoli seguenti le due presenze si consolidarono, mentre la regione adriatica
accentuò la propria peculiarità di “regione ai margini”, confine fra mondo latino e mondo
slavo. E’ con queste caratteristiche che la regione giuliana fu ceduta all’impero asburgico
(Trattato di Campoformio del 1797). Talvolta la separazione fra i due popoli era delineata in
maniera chiara anche sul piano geografico (come nel Goriziano, lungo la linea Nord-Sud),
mentre in molti altri casi la disposizione appariva a macchia di leopardo, con gli Italiani
maggioritari in città e gli Sloveni nei centri rurali (il che avrebbe reso difficile, se non
impossibile, tracciare un confine netto).
L’origine del conflitto fra i due mondi è individuato dalla Commissione nella seconda metà
del XIX secolo, quando la monarchia asburgica si mostrò “incapace di dare vita a un sistema
politico che rispecchiasse compiutamente nella struttura sociale la multinazionalità della
società”
14
. In quegli anni il predominio italiano nel mondo della cultura e
dell’amministrazione cominciò ad essere conteso da Sloveni, nell’Istria settentrionale, a
Gorizia e a Trieste, e Croati, nell’Istria centro-meridionale e a Fiume. Nel tempo si stava
infatti consolidando una classe borghese slava che, invadendo il terreno delle élites
tradizionali italiane, rivendicava diritti, quali l’uso dello sloveno nell’amministrazione o
l’educazione in lingua slovena, e che puntava a conquistare l’egemonia all’interno delle
istituzioni. Ne scaturì un contrasto fra quanti, italiani, rivendicavano uno “stato di possesso
politico-nazionale ed economico-sociale”, e quanti, sloveni, puntavano a “ribaltare la
situazione esistente”, grazie alla presenza, intorno alla fine del XIX secolo, di basi ormai
consolidate per “un’autonoma vita politica ed economica in tutte le unità politico-
amministrative austriache nelle quali essi vivevano”
15
. La rapida espansione demografica
degli Sloveni nelle città fu anche dovuta “all'azione dell'autorità governativa che avrebbe
attuato una politica di sostegno all'elemento sloveno (ritenuto indubbiamente più leale di
quello italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austriache), per contrastare
14
Relazione della “Commissione mista storico-culturale italo-slovena”, consultabile sul sito:
www.storicamente.org/commissione_mista.pdf, cap.I, par.2
15
Ibid., par. 3
11
l'autonomismo e il nazionalismo italiano.”
16
L’Impero spinse, di fatto, la comunità italiana
verso l’isolamento politico, organizzando la suddivisione dei collegi elettorali in modo da non
consentire ai rappresentanti italiani di essere eletti al parlamento di Vienna e consegnando, di
fatto, le amministrazioni comunali nelle mani dei Croati. I provvedimenti austriaci colpirono
anche Trieste, dove fu revocata la facoltà di conferire licenze industriali e molti dipendenti
comunali di origine italiana furono licenziati. Inoltre, fu ostacolata in ogni modo l’istituzione
dell’università italiana, considerata una pericolosa fucina di idee in cui avrebbe potuto
ribollire il sentimento italiano.
Complice dunque l’atteggiamento dell’Impero, dai primi anni del ‘900 i partiti slavi
iniziarono a competere con le forze politiche italiane, non solo a Trieste, ma anche in altri
centri urbani, come Gorizia e Pola. Come sottolinea Tullia Catalan
17
, la sempre maggiore
diffusione del movimento nazionale sloveno portò alla quasi totale cessazione del fenomeno
di assimilazione della popolazione di origine slava, trasferitasi nei vari centri cittadini. Nel
capoluogo friulano la presenza di uno slavismo urbano raggiunse dimensioni notevoli:
secondo il censimento del 1910
18
, vi risiedevano quasi 60.000 Sloveni, corrispondenti a circa
un quarto della popolazione complessiva. Questi potevano contare su una vasta rete di
istituzioni culturali, affiorate a partire dalla seconda metà dell’800 e che, “affiancandosi alle
imprese economiche e commerciali, alle banche, alle cooperative, alle associazioni ginniche e
sportive, testimoniavano di una comunità estremamente vivace, ideologicamente ormai
frazionata tra liberali, cattolici, e socialdemocratici, ma nazionalmente sempre più determinata
e cosciente”
19
.
Gli Italiani cominciarono ad avvertire un senso di accerchiamento, di “assedio”
20
. Su questo
sentimento fece leva la propaganda irredentista. Senza entrare nel merito, si può accennare
all’opera di Ruggero Timeus (1892-1915), giovane collaboratore de “La Voce” e “L’Idea
nazionale” e convinto sostenitore della tesi della superiorità della civiltà latina su quella
germanica e, soprattutto, slava. Nei suoi scritti Timeus auspicava il conflitto contro Sloveni e
Croati, senza mezze misure: “nell'Istria la lotta è una fatalità che non può avere il suo
16
Ibid., par. 11
17
T. Catalan “I conflitti nazionali fra italiani e slavi alla fine dell’impero asburgico”, in Pupo-Spazzali, Foibe,
Mondadori, Milano 2003, p. 37
18
In un primo momento fu fondato sulla base della “Umgangssprache”, la lingua parlata. Quindi, vi fu una
revisione, richiesta da esponenti slavi per la sola città di Trieste, basata sul cognome. Risultarono circa 20.000
sloveni in più (e altrettanti italiani in meno) rispetto al dato precedente.
19
M.Kosuta La letteratura e la cultura slovene nel Friuli-Venezia Giulia in AA.VV. Storia d’Italia – Le
regioni. Il Friuli-Venezia Giulia, Tomo II, Einaudi, Torino 2002, p.1189
20
M. Cattaruzza, Trieste nell’Ottocento. Le trasformazioni di una società civile, Del Bianco, Udine 1995, pp.
119-65
12
compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono”
21
. Il
topos diffuso fra gli irredentisti della superiorità della civiltà italiana, rappresentò il
prerequisito all’odio razziale che sarebbe esploso in tutta la sua violenza durante il periodo
fascista.
Tornando alla Relazione, essa sottolinea che “Italiani e Sloveni guardavano prevalentemente
alla loro identità nazionale e si rivelavano scarsamente capaci di sviluppare un senso di
appartenenza comune alla terra nella quale entrambi i gruppi nazionali erano radicati.”
22
Appare chiaro che la prima guerra mondiale sarebbe stata cruciale per gli sviluppi seguenti e
avrebbe rappresentato il passaggio, indicato da Pupo, da una “lotta per il potere locale”, finché
durò l’impero asburgico, a una “lotta per l’inserimento in uno Stato nazionale esclusivista”
23
dopo il suo crollo.
21
R. Timeus, Trieste, Gaetano Garzoni Provenzali, Roma 1914, p. 9
22
Relazione della “Commissione mista storico-culturale italo-slovena”, op. cit. cap.1, par. 18
23
R. Pupo, op. cit., p.17
Tab. 1.1: i dati in percentuale del censimento austriaco del 1910 per la città di Trieste
(revisione)
52%
5%
1%
17%
25%
Italiani
Sloveni
Tedeschi
Serbo‐Croati
Altri
Tab. 1.2: percentuale delle componenti etniche in Istria, Fiume e Zara nel 1910. Della
Dalmazia è considerata la sola città di Zara senza il suo entroterra, che, analogamente a
quello di Fiume è sempre stato croato con presenze trascurabili dell’elemento italiano. (Da
“La Ricerca”, bollettino del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno n° 33-34, aprile 2002)
4%
11%
4%
3%
3%
35%
37%
Italiani
autoctoni
Croati
Sloveni
Italiani
immigrati dalla
V.G.
Tedeschi
Regi
altri
13
14
1.3 Periodo 1918-1941
A seguito della vittoria nel primo conflitto mondiale, l’Italia raggiunse i sospirati confini
strategici e vide scomparire l’antico Impero Asburgico. Il nuovo confine inglobava “oltre agli
Sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti
interamente sloveni”
24
, strappando dal ceppo nazionale un quarto della popolazione.
L’impreparazione da parte dell’amministrazione italiana a gestire una situazione tanto rovente
fu alla base di una serie di enormi contraddizioni nei confronti degli Sloveni che
manifestavano il bisogno di unirsi alla madrepatria. Da una parte si registrarono infatti
numerosi provvedimenti restrittivi, quali “sospensione di amministrazioni locali, scioglimento
di consigli nazionali, limitazioni della libertà di associazione, condanne dei tribunali militari,
detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali.” D’altra
parte, però, i governi liberali italiani “furono generosi di promesse nei confronti della
minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue rappresentanze nazionali, il riavvio
dell'istruzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni
indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno”
25
. La Conferenza di Pace di
Parigi segnò una tappa fondamentale nel rapporto fra i due popoli. La dissoluzione
dell’Austria-Ungheria, infatti, pose una serie di questioni non previste al momento del Patto
di Londra, che stabiliva che la Dalmazia (a prevalenza slava) fosse annessa all’Italia, mentre
Fiume sarebbe rimasta all’impero austro-ungarico. La delegazione italiana a Parigi chiese
l’annessione di Fiume, sulla base del principio di nazionalità e in aggiunta ai territori
promessi nel 1915. Tali richieste incontrarono l’opposizione degli Alleati, in particolare di
Wilson. Da parte sua la Jugoslavia rivendicava tutta la regione giuliana fino all’Isonzo.
Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza di pace per protesta, ma non ottennero alcun
risultato. L’irremovibilità delle posizioni italiane e jugoslava non fece altro che ritardare la
stabilizzazione dei territori contesi e fomentare le tensioni fra i due popoli. L’impresa di
D’Annunzio a Fiume e il mito della “vittoria mutilata” divennero così il terreno più fertile per
il precoce affermarsi del cosiddetto “fascismo di frontiera”, la cui violenza sfociò a partire
dall’incendio, nel luglio del 1920, del “Narodni Dom” presso l’Hotel Balkan, casa della
nazione e simbolo della presenza slava a Trieste, che stava a testimoniare “come gli Slavi
avessero ormai abbandonato le vesti dei contadini rozzi e incolti per affermarsi come
borghesia ricca, istruita e multinazionale, in quanto composta da Sloveni, Croati, Serbi e
24
Relazione della “Commissione mista storico-culturale italo-slovena”, op. cit. cap.2, par. 1
25
Ibid., par. 5
15
Cechi”
26
. «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la
politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone... I confini dell'Italia devono essere: il
Brennero, il Nevoso e le Dinariche... Io credo che si possano sacrificare 500.000 Slavi barbari
a 50.000 Italiani»
27
. Così Mussolini commentò “il provvidenziale incendio del Balkan” un
paio di mesi dopo, durante il suo passaggio in Friuli e Venezia Giulia tra il 19 e il 22
settembre (ancor prima della presa di potere). La violenza fu legalizzata quando il fascismo
andò al potere nel 1922. Secondo Raoul Pupo, il fascismo di frontiera avrebbe voluto
cancellare l’identità nazionale croata e slava, ma riuscì solo a decapitarne gli strati superiori,
lasciandone intatta la presenza. Lo scioglimento di partiti politici, circoli, associazioni e
giornali, l’abolizione dell’insegnamento della lingua (sancito con la riforma Gentile del 1923)
e l’italianizzazione forzata di toponimi e nomi propri non furono di fatto sufficienti a
eliminare la componente slava. E neanche servì una politica repressiva brutale, condotta
anche contro la Chiesa locale, punto di riferimento per la coscienza nazionale slovena.
Vescovi e sacerdoti filo-sloveni furono rimossi e sostituiti da altri, più inclini ad applicare le
“direttive romanizzatrici” del Vaticano. “Questi provvedimenti comportavano in via di
principio l'abolizione dell'uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi […]. Gli
Sloveni e i Croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di
fatto collaborando con il regime a un'opera di italianizzazione che investiva ogni campo della
vita sociale”
28
. L’opera di snazionalizzazione fu giudicata dalla storiografia più accorta come
fiacca e brutale al tempo stesso, traumatica ma mancante di coerenza e organicità, anche a
causa della penuria di mezzi finanziari e di quadri politici sufficientemente preparati. Di fatto
la difficile situazione politica, accompagnata alla crisi economica degli anni Venti-Trenta,
portò all’emigrazione, secondo fonti jugoslave, di oltre 100.000 Sloveni e Croati, e al
consolidamento “agli occhi degli Sloveni, dell’equivalenza fra Italia e fascismo”
29
. La
resistenza slovena si raccolse intorno all’organizzazione Tigr, un movimento nazionalista
clandestino (la cui sigla riprende le iniziali di Trieste, Istria, Gorizia e Rjeka), che rispose alla
repressione con svariati atti terroristici. Nel frattempo si fece più chiara la posizione del
partito comunista italiano, in seno al quale maturò il riconoscimento come alleato del
movimento sloveno, specie negli anni Trenta. Nel 1936 i due movimenti stipularono un patto
che avviò la formazione di un ampio fronte antifascista.
26
R. Pupo, op. cit. p.32
27
www.osservatoriobalcani.org
28
Relazione della “Commissione mista storico-culturale italo-slovena”, op. cit. cap.2, par. 17
29
Ibid., par.18