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anche società della riflessività, della costruzione significante, della
reciprocità; una società nella quale imparare è la condizione per vivere,
per essere individui capaci di progettualità, responsabilità, autonomia.
Queste premesse rendono inevitabile una riflessione importante sulla
necessità di non interrompere mai il processo di apprendimento e di
considerarlo come un aspetto strutturale e permanente nella vita dei
singoli e della collettività. Nel nostro percorso esplorativo cercheremo
di illustrare il cammino attraverso il quale hanno trovato dignità e
riconoscimento le teorie che si sono occupate e si occupano
dell’educazione degli adulti, valorizzandone il ruolo per lo sviluppo
delle persone. Si è partiti da un impianto altamente formalizzato, alla
ricerca continua di punti fermi, di schemi affidabili e ripetitivi, ma col
passare del tempo ci si è potuti accostare con maggiore facilità ad una
nuova frontiera dell’educazione, quella che propone lo straordinario
impatto di un modo di sentire, di insegnare e di imparare, di vivere e
procedere che sa riconoscere le potenzialità dell’informale. Superando i
modelli di apprendimento autofondanti (in cui il processo di
apprendimento si giustifica in sé e per sé), si pongono le basi per
modelli di apprendimento che potremmo definire di contesto, situato, della
conoscenza condivisa, ecologici della cognizione quotidiana. Si tratta di modelli e
strategie in cui il processo di apprendimento – mediato dagli strumenti
culturali “storicamente rilevanti nel contesto” – si realizza come
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relazione, comunicazione, condivisione di esperienze, in contesti più o
meno arricchiti ai fini dell’apprendimento stesso.
Il filo conduttore dell’intero lavoro è la ferma convinzione dell’esistenza di
una funzione e di effetti educativi latenti in ogni relazione sociale, anche in
assenza di scopi formativi espliciti. Questo concetto, alla base della
rivalutazione dell’educazione informale, si fonda sull’idea che la conoscenza
sia una pratica sociale situata, congiunta e distribuita e che l’apprendimento
sia un processo di partecipazione sociale: un apprendimento non più visto
come un’acquisizione mentale individuale e decontestualizzata, bensì come
un processo sociale e situato di partecipazioni a specifiche comunità di
pratiche che perseguono scopi, svolgono attività e usano strumenti
specifici. Ambito privilegiato di indagine è il mondo delle esperienze
quotidiane, luogo esclusivo dei rapporti interpersonali informali e della
conversazione, intesa come processo di costruzione della realtà. Infatti,
attraverso il linguaggio, principale manufatto culturale, l’individuo esercita
la sua capacità di narrare e di narrarsi e quindi di collocarsi nel mondo
dando ad esso un significato. Questo processo di interazione valorizza
l’apprendimento reciproco nei più diversi contesti di vita e l’aspetto
informale della formazione, poco prevedibile e poco oggettivabile, ma non
per questo casuale o privo di intenzionalità.
Come dare, dunque, forma e rilevanza a questa parte sommersa ma
sostanziale e basilare dell’educazione nella prospettiva del lifelong learning?
Questo lavoro valuta l’esistenza, nell’ambito delle scienze umane, di metodi
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e strumenti interpretativi, auto-conoscitivi e trasformativi, di “luoghi” e
occasioni per ripercorrere momenti, aspetti e situazioni della propria vita,
analizzandone significatività e potenzialità formative. Un percorso difficile,
che spesso si svolge con modalità asincrone, mediate e disturbate da fattori
emotivi, che la riflessione teorica ha spesso sottovalutato. E in questo senso
il nostro non può che essere un lavoro in itinere, tutto da scoprire e da
verificare sulla base dei nuovi e non prevedibili apporti che verranno dalla
lettura e dalla meta-lettura di tali spunti. E’ questa l’essenza dell’informalità,
è questo il nostro riferimento.
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PARTE PRIMA
La Piramide Sommersa.
Apprendimento e Informalità
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1. Apprendere: Teorie e Pratiche a confronto
1.1 Teorie dell’apprendimento
L’apprendimento implica un cambiamento come risultato dell’esperienza.
Comporta l’acquisizione di abitudini, conoscenze e atteggiamenti. Consente
agli individui un adattamento personale e sociale. Questa la possibile
definizione che ne darebbero teorici come Crow, Burton, Cronbach,
Gagné, che concepiscono l’apprendimento come un processo attraverso il
quale il comportamento viene modificato, controllato, modellato.
Autori come Bruner preferiscono definirlo in termini di crescita, sviluppo
di competenze e realizzazione di determinate potenzialità, collocandolo
maggiormente nel contesto dello sviluppo di competenze.
Secondo Maslow, scopo dell’apprendimento è la realizzazione di sé, «il
pieno utilizzo dei propri talenti, capacità, potenzialità, ecc» (Maslow, 1970).
Sidney Jourard ha sviluppato il concetto di apprendimento autonomo partendo
dalle considerazioni delle scienze del comportamento che ampliano la
percezione delle potenzialità dell’uomo, ne modificano l’immagine che non
si limita più a ricevere o reagire passivamente agli stimoli, ma è un essere
attivo, autonomo, capace di ricerca e riflessione. In quest’ottica
«l’apprendimento non è un compito o un problema; è un modo di essere
nel mondo. L’uomo apprende quando persegue degli obiettivi e dei progetti
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che hanno un significato per lui. Sta sempre imparando qualcosa» (Jourard,
1972, pp. 66-75).
Secondo Smith, il termine apprendimento resiste ad una precisa definizione
perché è usato in molteplici accezioni: per riferirsi all’acquisizione ed alla
padronanza di ciò che è già conosciuto di un argomento; all’allargamento e
alla chiarificazione del significato della esperienza; ad un processo
organizzato e intenzionale di verifica di idee che riguardano determinati
problemi. E’ utilizzato, dunque, «per descrivere un prodotto, un processo o
una funzione» (Smith, 1982).
Ad un’iniziale suddivisione in due famiglie principali, stimolo-risposta e
cognitivistiche, nel 1970, Reese e Overton, due psicologi dell’età evolutiva,
contrappongono un modo di concettualizzazione delle teorie secondo
«modelli più ampi che corrispondono ad una visione del mondo o sistema
metafisico, come insieme delle caratteristiche essenziali dell’uomo e della
realtà» (Reese & Overton, 1970, p. 117).
Due di questi sistemi sono la visione del mondo meccanicistica, la cui
metafora fondamentale è la macchina; e quella organicistica, la cui metafora
principale è l’organismo, sistema vivente e organizzato, presente
all’esperienza in molteplici forme.
Il modello meccanicistico rappresenta l’universo come una macchina composta
di parti discrete operanti in un contesto spazio-temporale. Queste parti –
particelle elementari in movimento – e le loro relazioni costituiscono la
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realtà fondamentale a cui sono riconducibili tutti gli altri più complessi
fenomeni.
Questa visione del mondo dà origine ad un modello di uomo come essere
reattivo, passivo, robotizzato. L’organismo si trova, per natura, in uno stato
di quiete; l’attività è il risultato di forze esterne. Funzioni psicologiche come
il pensare, il volere o il percepire sono considerate fenomeni complessi che
è possibile ridurre a fenomeni più semplici grazie a cause efficienti.
Il modello organicistico rappresenta l’universo come un organismo unitario,
interattivo e in evoluzione. L’essenza della realtà è vista nell’attività,
piuttosto che nella statica particella elementare dell’altro modello. Un
universo pluralistico si sostituisce ad uno monistico; è la diversità che
costituisce l’unità. «La natura del tutto non è la somma delle parti, ma è
piuttosto presupposto dalle sue parti e l’intero rappresenta la condizione
del significato e dell’esistenza delle parti» (Reese & Overton, 1970, p.133).
Questa visione del mondo sfocia in un modello dell’uomo come
organismo attivo spontaneamente e per natura. L’uomo è un organismo
attivo più che reattivo, è fonte di azioni più che ricettacolo di attività
originate da forze esterne.
L’individuo che accetta questo modello tenderà ad accentuare l’importanza
dei processi rispetto ai prodotti e del mutamento qualitativo rispetto a
quello quantitativo; porrà attenzione al ruolo dell’esperienza nel favorire o
inibire il corso dello sviluppo rispetto all’addestramento quale fonte di
sviluppo stesso.
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La prima indagine sistematica sull’apprendimento fu condotta negli Stati
Uniti da Edward L. Thorndike.
Secondo Thorndike gli individui, per quanto concerne l’apprendimento,
sono organismi vuoti che rispondono a degli stimoli più o meno a caso e
automaticamente, per cui una determinata risposta è connessa ad un
determinato stimolo quando viene ricompensata. Questo sistema è stato
chiamato psicologia del legame o connessionismo, e costituisce l’originaria
psicologia dell’apprendimento per stimolo-risposta (o S-R).
Quasi contemporaneamente, il fisiologo russo Ivan Pavlov iniziava i suoi
esperimenti che avrebbero condotto alla nozione di riflesso condizionato e alla
teorizzazione del condizionamento classico o rispondente.
John B. Watson (1878-1958) è generalmente ritenuto il padre del
comportamentismo, teorizzazione secondo la quale la psicologia scientifica
deve fondarsi sullo studio di ciò che è direttamente osservabile: stimoli
fisici, movimenti muscolari e i relativi prodotti ambientali che ne
conseguono. Il suo obiettivo principale è la previsione e il controllo del
comportamento. Elementi essenziali sono il rifiuto della coscienza come
dimensione interna della mente non accessibile e la totale uguaglianza tra
uomo e animale, tanto da poter estendere all’uomo i risultati degli
esperimenti condotti su animali.
Dal condizionamento operante o strumentale di Skinner, che poneva l’accento non
tanto sul concetto di stimolo quanto su quello di risposta (l’organismo non
è passivo nel suo ambiente ma agisce indipendentemente da una specifica
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situazione stimolo), deriva la tecnologia didattica dell’istruzione
programmata e delle macchine per insegnare così popolari negli anni ’60.
Il primo a contestare esplicitamente il modello meccanicistico fu John
Dewey, nel 1896.
L’importanza da lui accordata al ruolo dell’interesse e dell’impegno ed alla
motivazione del bambino a risolvere i propri problemi divenne il punto di
partenza per un orientamento teorico noto come funzionalismo.
In termini di prassi scolastica, il funzionalismo forniva la base concettuale
per l’istruzione progressiva, che, come afferma Hilgard, «nella sua forma
migliore era l’espressione dell’ideale di crescita verso l’indipendenza e
l’autocontrollo attraverso l’interazione con un ambiente adeguato al livello
di sviluppo del bambino» (Hilgard & Bower, 1966).
Tolman rifiuta l’idea che l’apprendimento sia l’associazione di particolari
risposte a stimoli. In contrasto con gli associazionisti, che ritengono che ad
essere appresa sia la risposta o la serie di risposte che hanno portato alla
ricompensa, per Tolman è il procedimento seguito per raggiungere
l’obbiettivo ad essere appreso. Tolman denominò la sua teoria
comportamentismo intenzionale in quanto gli organismi, secondo i rispettivi
livelli di abilità, riconoscono e apprendono la relazione tra i segnali e la
meta desiderata, colgono, dunque, il significato dei segnali. Hilgard l’ha
definita apprendimento per segnali o teoria gestaltica dei segnali e dell’aspettativa.
La rottura più completa con il comportamentismo si verificò con
l’introduzione del concetto di apprendimento per insight della Gestalt da parte di
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Wertheimer, Koffka e Kohler. Contestando la concezione
dell’apprendimento come semplice connessione di determinate risposte a
determinati stimoli, essi sostenevano che l’esperienza è sempre strutturata,
che noi non reagiamo semplicemente ad un insieme di dettagli distinti, ma
ad una complessa struttura di stimoli. Inoltre abbiamo bisogno di percepire
gli stimoli all’interno di unità organizzate, non in parti staccate. Il soggetto,
durante l’apprendimento, tende ad organizzare il suo campo percettivo in
base a leggi definite.
La psicologia della Gestalt rientra nella famiglia delle teorie del campo secondo
le quali è l’intero sistema o campo di forze, stimoli o avvenimenti a
determinare l’apprendimento.
La teoria del campo di Lewin (1890-1947) considera l’individuo immerso in
uno spazio vitale all’interno del quale operano diverse forze. Lo spazio di
vita, definito come la totalità dei fatti che determinano il comportamento di
un individuo in un certo momento, comprende le caratteristiche ambientali
a cui l’individuo reagisce: gli oggetti con cui viene a contatto e che
manipola, le persone che incontra, e i suoi pensieri, tensioni, obiettivi,
desideri. Il comportamento è il prodotto dell’interazione di tali forze, la cui
direzione e forza sono rappresentabili mediante la geometria dei vettori.
L’apprendimento è il risultato di un cambiamento nelle strutture cognitive.
Gli sviluppi più recenti dell’approccio teorico del campo si sono
concretizzati nella psicologia fenomenologica, nella psicologia della
percezione, nella psicologia umanistica e in quella della terza forza.
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1.2 Teorie dell’insegnamento
«Mentre le teorie dell’apprendimento si occupano delle modalità secondo le
quali un organismo apprende, le teorie dell’insegnamento si occupano del
modo in cui una persona influenza l’apprendimento di un organismo»
(Gage, 1972, p. 56).
Rogers sostiene che insegnare e impartire conoscenze sono attività che
hanno senso in un ambiente che non cambia, «ma se c’è una verità
sull’uomo moderno, è che vive in un ambiente in continua evoluzione»,
(Rogers, 1969, p. 104) e perciò lo scopo dell’istruzione deve essere la
facilitazione dell’apprendimento.
Il ruolo del facilitatore di apprendimento si concretizza nella
predisposizione di un ambiente e di un clima favorevoli, nel sostegno alla
scelta degli scopi formativi, nella messa a disposizione della gamma più
vasta possibile di risorse per l’apprendimento, nell’assunzione del ruolo di
risorsa flessibile e integrabile al gruppo.
Il sistema d’idee su un insegnamento efficace e adatto ad una teoria
andragogica che ha avuto maggiore impatto è stato quello presentato da
Dewey nella prima metà del secolo scorso.
«All’imposizione dall’alto viene opposta la possibilità di esprimere e
coltivare la propria personalità; alla disciplina imposta dall’esterno viene
opposta la libera attività; all’apprendere da testi e insegnanti, l’apprendere
dall’esperienza; all’acquisizione di abilità e tecniche isolate mediante esercizi
è contrapposta la loro acquisizione come mezzi per raggiungere dei fini che
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interessano direttamente la vita reale; alla preparazione per un futuro più o
meno remoto viene contrapposto il trarre il massimo vantaggio dalle
opportunità della vita presente; a obiettivi e materiali statici è contrapposta
la conoscenza di un mondo in evoluzione» (Dewey , 1938, pp. 5-6).
Il sistema di Dewey è organizzato intorno a concetti chiave quali:
1. l’esperienza – ogni forma di apprendimento autentica passa
attraverso l’esperienza;
2. la democrazia – un assetto sociale di tipo democratico favorisce una
migliore qualità dell’esperienza umana;
3. la continuità – ogni esperienza riprende qualcosa delle esperienza
precedenti e modifica la qualità di quelle successive;
4. l’interazione – tra i fattori che determinano l’esperienza, condizioni
interne e condizioni esterne.
Una seconda serie di concetti sull’insegnamento che affondano le loro
radici sia nelle idee di Dewey sia in quelle dei teorici del cognitivismo viene
definita come metodo della scoperta, metodo della ricerca, apprendimento
autonomo o per problem-solving o risoluzione di problemi.
Il fautore di questo approccio, Jerome Bruner, basa il suo sistema sulla
convinzione che esista in tutti la volontà ad apprendere che costituisce una
motivazione intrinseca, che trova nel suo stesso esercizio la sua fonte e la
sua ricompensa. «La volontà di apprendere diventa un problema solo in
circostanze particolari, come nella scuola, dove viene stabilito un curricolo,
fissato un percorso, e dove gli studenti sono vincolati. Il problema non è
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tanto nell’apprendimento in sé, ma nel fatto che ciò che viene imposto dalla
scuola spesso non riesce a mobilitare le energie naturali che sostengono
l’apprendimento spontaneo – la curiosità, un desiderio di competenza,
l’aspirazione ad emulare un modello, e un impegno profondamente
avvertito verso la rete della reciprocità sociale» (Bruner, 1961, p. 126).
Per Bruner il modo di insegnamento più efficace è quello ipotetico nel quale
insegnante e studente sono in una posizione di maggiore cooperazione. Gli
atti di scoperta indotti dal modo ipotetico conducono gli studenti ad
aumentare i poteri intellettivi, permettono il passaggio da ricompense
estrinseche a ricompense intrinseche, facilitano l’apprendimento della
funzione euristica della scoperta, rendono il materiale più facilmente
accessibile nella memoria. Gli insegnanti che utilizzano il metodo della
ricerca, secondo Postman e Weingartner, raramente dicono agli studenti
quello che dovrebbero sapere, basano sempre il loro discorso sul porre
domande, difficilmente accettano una sola risposta ad una domanda,
incoraggiano l’interazione studente-studente ed evitano di agire da
mediatore o da giudice delle idee espresse, sviluppano le lezioni sulla base
delle risposte degli studenti e non partendo da una struttura logica
predeterminata, misurano il loro successo sulla base dei cambiamenti
comportamentali negli studenti.
La nozione che lo sviluppo di abilità di ricerca dovrebbe costituire un
obiettivo primario dell’istruzione dei giovani è alla base del concetto di
istruzione come processo permanente, che continua per tutta la vita.
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Teorizzazioni molto recenti sostengono che non è sufficiente che i
programmi per la formazione degli adulti soddisfino i bisogni di
apprendimento identificati negli adulti, nelle organizzazioni o nella società,
ma che dovrebbero piuttosto aiutare i discenti adulti a trasformare il loro
modo di pensare su se stessi e il proprio mondo. E’ ciò che Mezirow (1985)
definisce «un mutamento di prospettiva». Brookfield (1986) suggerisce che
questo risultato si può ottenere mediante lo sviluppo di competenze in
«riflessione critica».
Il loro pensiero può essere sintetizzato nell’idea che l’apprendimento
personale più significativo che gli adulti intraprendono non può essere
previsto in anticipo in termini di obiettivi da raggiungere o comportamenti
da ottenere. Un apprendimento personale significativo è tale quando
l’adulto riflette sull’immagine di sé, cambia il concetto di sé, mette in
discussione ciò che ha già interiorizzato, reinterpreta il suo comportamento
passato e quello attuale secondo una nuova prospettiva.
Il ruolo del facilitatore o del professionista della formazione consiste
nell’indurre il discente a considerare delle prospettive alternative riguardo
alla sua vita personale, politica, professionale e sociale.
Un altro sistema di pensiero che presenta notevoli implicazioni per la prassi
formativa riguarda la possibilità di influenzare la qualità formativa di interi
ambienti. Concetti e strategie di questo sistema derivano dalla teoria del
campo, dalla teoria dei sistemi, dalla psicologia ecologica.