~ III ~
Quegli occhi grandi su quel viso delicato senza neanche ciglia che potessero
proteggere lo sguardo troppo immerso in qualcosa che mi dava l’impressione
di essere sconfinato, mi tormentavano perché proprio non riuscivo a capire
cosa volessero dire. Eppure parlavano, così come le sue poesie che a volte mi
davano l’impressione di essere eccessivamente idilliache, perfette e anche sin
troppo rarefatte, mentre un attimo dopo si scagliavano ruvide, forti, piene di
passione e taglienti.
Mi chiedevo: come può una forma così aulica, di un’evanescenza cerulea,
suscitare delle emozioni così potenti e perturbanti? Tutto mi sfuggiva quanto
più tentavo di capire e di cercare una coerenza netta. Ero spaventata e allo
stesso tempo attratta.
Così, nella pretesa di capire, a lungo ho continuato in vano a cercare di
delineare dei confini in cui potessero rientrare in modo quasi schematico il
suo pensiero, la sua poesia, la sua vita, volendo a tutti i costi trovare il
significato razionale di ciò che scriveva, di ciò che egli era, anche per
individuare le cause precise di quella che fu la sua follia. Ma ciò mi portò
solo a vedere nella sua “schizofrenia” un morbo che come un fulmine a ciel
sereno era caduto inspiegabilmente su di lui.
Volevo trovare una strada dritta e sicura con un percorso già stabilito che
portava, senza buche né svincoli, alla conoscenza. E invece iniziai a
rendermi conto che continuavo a girare in un circolo chiuso come un cane
che si morde la coda. Allora iniziai a capire che non stavo facendo altro che
scacciare via quelle emozioni così perturbanti che in me Hölderlin aveva
suscitato.
~ IV ~
Non serviva a niente cercare di incasellare in uno spazio definito qualcosa
che da questo non poteva essere contenuto. A poco mi aiutava tutto questo
ragionare. Forse era necessario affacciarsi ad una “logica altra” perché “la
vera realtà psichica: nella sua più intima natura è altrettanto sconosciuta a noi come
la realtà del mondo esterno ed è a noi presentata dai dati della coscienza in modo
altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle indicazioni dei nostri organi di
senso”
1
.
Questa logica altra mi sovvenne ripensando a Matte Blanco. Egli sostiene
che nell’uomo e nel mondo sia presente un’antinomia fondamentale
“risultante dalla co-presenza di due modi di essere che sono tra loro
incompatibili e, tuttavia, coesistono e appaiono insieme nello stesso oggetto,
senza mai fondersi in un concetto unitario più ampio che li comprenda
entrambi”
2
. Il primo modo di essere di cui parla è quello eterogenico o
asimmetrico, proprio del pensiero logico-razionale e della coscienza, che
separa e dà ordine attraverso le relazioni spazio-temporali. Ma c’è anche un
altro modo di essere: quello simmetrico, un’unità omogenea immersa nel
profondo della nostra psiche e quindi difficile da cogliere agli occhi della
coscienza apparendo ad essi solo come una massa amorfa in cui vige il caos.
Che sia questo il vero essere, così irraggiungibile perché a noi stessi
sconosciuto?
Così, cosmo e caos, ciò che ha forma e ciò che magmaticamente divampa
senza farsi comprendere in nessuna struttura, si fronteggiano senza fondersi
1
Traggo l’espressione di Freud da Matte Blanco I., “L’inconscio come insiemi infiniti”, cit., p. 123.
2
Matte Blanco I., “Pensare, sentire, essere”, cit., p. 81.
~ V ~
mai e richiedono che “il soggetto sia come su un ponte che li unisce-divide, li
separa-collega, ponte sotto il quale passa l’acqua del vero essere psichico”
3
.
Nonostante avessi sempre considerato estremamente affascinante la teoria di
Matte Blanco perché fa luce su un nostro modo d’essere così lontano e ben
più ampio della finitezza della nostra coscienza, allo stesso tempo guardavo a
questa teoria con occhi diffidenti sospettando che fosse avulsa dalla realtà.
Eppure, fu proprio mentre riflettevo su simmetrico e asimmetrico, finito e
infinito in ogni uomo, che intravidi emergere qualcosa dalle parole dello
stesso Hölderlin:
“Poco, poco ci conosciamo,
Giacchè un Dio impera in noi.”
4
“C’è un Dio in noi, che guida, come un torrente, il destino, e tutte le cose sono il suo
elemento”
5
.
Chi è il Dio in noi? Potrebbe mai essere quell’informe incommensurabile,
caotico e pericoloso che ci spinge nell’infinito da cui proviene? Non lo
sapevo, né lo comprendevo, ma queste parole cominciavano a venirmi in
mente sempre più spesso, in qualsiasi momento.
Risuonavano incessantemente come campane di cui sentivo profondo l’eco.
3
De Risio S., “Derive del narcisismo”, cit., p. 14.
4
Hölderlin F., <<Gli amanti/Die Liebenden>>, in “Tutte le liriche”, cit., p. 131.
5
Hölderlin F., “Iperione”, cit., p. 19.
~ VI ~
Cominciò così il mio vero incontro con Hölderlin, quando smisi di voler
capire a tutti i costi e iniziai ad accompagnarlo nel suo cammino. Fu un
incontro difficile e continuamente tormentato, ma allo stesso tempo con lui
sentiva di essermi calata in un’atmosfera difficile da spiegare anche a me
stessa perché in ogni momento era velante e svelante, vivida con la forza e la
ruvidezza di una scena reale, ma al contempo rarefatta e inverosimile come
le immagini dei sogni. Ma allora stavo realmente sognando? Credo proprio
di sì.
L’ho sognato e nel mio sogno mi sono lasciata guidare da lui: era un
viandante scacciato dalla pace assoluta di un paradiso ormai perduto, che,
come l’eremita Iperione, peregrinava e si affannava per liberare e far rivivere
la sua patria in un tempo in cui ormai il suo popolo si era sfaldato nelle
scissioni più profonde. Ma qual era la patria? Era forse quella del popolo
tedesco? Era nello splendore del popolo greco? O forse era “la divina
unitezza, l’essere nel significato autentico della parola, che doveva essere
perduto per poterlo poi desiderare”
6
? Come un semidio, sospeso rimaneva
quest’uomo a mezz’aria, perché lui, in fondo, una patria non l’aveva per
quanto la cercasse.
Era come l’albatros di Boudelaire lui, che abitava nel cuore della folgore e
s’accampava tra le nuvole, ma che era “esule sulla terra, tra i dileggi del
volgo”
7
, mentre ad ogni passo inciampava nelle sue ali da gigante. Sì, i suoi
elementi erano il calore divampante del fuoco, l’impetuosa corrente dei fiumi
che liberi sgorgano e la celeste purezza dell’etere che lo allevò. Ma la terra
sembrava mancargli sotto i piedi!
6
Hölderlin F., “Scritti di estetica”, cit., p. 55.
7
Boudelaire C., <<albatros>> in “I fiori del male”, cit., p. 11.
~ VII ~
Nella sua purezza sembrava incedere come Apollo, ma quella stessa purezza
lo strappava via dalla vita del mondo, di cui non conosceva il tragitto. Lui
vagava, ma tra gli dei, verso l’infinito.
“Dai gradini d’un tempio invisibile, questi parlava a un’invisibile massa, a
un popolo di sogno, a una nazione di sogno, che doveva ancora nascere da
quella terrena”
8
.
Era “gettato fuori: fuori in quel frammezzo (Zwische), frammezzo agli dei e
agli uomini”
9
. Tra terra e cielo, vagava nella sacra notte, nel tempo di
privazione, “in una doppia mancanza e in un doppio non: nel <<non più>>
degli dei fuggiti e nel <<non ancora>> del dio che viene”
10
. Eppure, con
speranza continuava a incedere “sopra lenti sentieri/ gravi di sogni dorati”
11
. Lui,
il poeta dei poeti, doveva spingersi oltre per essere guida del suo popolo,
dell’umanità; e, per indicare la via, doveva anche essere il primo ad
intraprenderla “dall’alto dell’etere sino all’abisso/ generato dal sacro caos”
12
. Una
via ardua da percorrere, in cui è facile smarrirsi, “ma dov’è il pericolo, cresce/
anche ciò che dà salvezza”
13
. Così, Hölderlin affrontò il suo destino, procedendo
lento e con timore, ossia con “il sapere che dell’origine non si può avere
esperienza immediata…il timore non paralizza, ma…dispone il cammino
sulle vie poetiche…Esso dispone in modo più determinante di ogni
8
Zweig S., “Lotta col demone”, cit., p. 25.
9
Heidegger M., “La poesia di Hölderlin”, cit., p. 56.
10
Ibidem, p. 57.
11
Hölderlin F., <<Rimembranza/Andenken>> in “Tutte le liriche”, cit., p. 341.
12
Hölderlin F., <<Come nel giorno di festa/Wie wenn amFeiertage>>, in “Tutte le liriche”, cit., p. 751.
13
Hölderlin F., <<Patmos/Patmos>>, in “Tutte le liriche”, cit., p. 315.
~ VIII ~
violenza”
14
. Solo in questo modo egli avrebbe potuto compiere la sua
missione poetica, per travolgersi nella scissione tra arte e natura, tra cosmo e
caos, per essere il vate che nomina il sacro facendosi mediatore tra uomini e
dei. Sapeva bene che per giungere alla sorgente doveva prima vagare
nell’estraneo e per sentieri stretti e ardui, mantenendo la misura, la giusta
distanza tra cosmo e caos. Ma un impulso irrefrenabile lo spinse a gettarsi
nel fuoco sacro degli dei. Era il demoniaco quell’impulso: “l’inquietudine
originaria, propria di ogni uomo che lo spinge fuori da se stesso, nell’infinito,
come se la natura avesse lasciato in ogni singola anima un’inalienabile
particella inquieta del suo caos passato e questa volesse ritornare con
impazienza e passione all’elemento sovraumano e soprannaturale…quel
lievito, quel fermento che ribolle, tormenta, eccita e spinge l’essere
solitamente tranquillo verso il pericolo, l’eccesso, la rinuncia a se stesso,
l’autodistruzione…ma di solito gli uomini misurati soffocano in sé l’impulso
faustiano…lo arginano con l’ordine … nemici giurati del caos, non soltanto
nel mondo, ma anche dentro di sé”
15
. Questo non era, però il destino di
Hölderlin e lui, che troppo infinitamente sentiva, lo sapeva bene: abbandonò
la sua egoità limitata e sprofondò nell’abisso dell’oggetto, assumendo forma
aorgica. “Un’impresa immane e drammatica, generatrice di conflitti così
profondi da condurre alla follia per pienezza dello spirito o alla morte nel
cratere dell’Etna (Empedocle) o impiccati in un profondo carcere (Antigone)
per aver contrapposto le divine leggi non-scritte a quelle della polis, la voce
dell’unitezza con tutto ciò che vive alle leggi particolari della cultura”
16
.
14
Heidegger M., “La poesia di Hölderlin”, cit., pp. 157-158.
15
Zweig S., “Lotta col demone”, cit., p. XI.
16
Bodei R., <<Hölderlin: la filosofia e il tragico>>, in “Sul tragico”, cit., p. 37.
~ IX ~
Hölderlin divenne così Empedocle che, volendo esprimere l’inesprimibile, si
gettò nel fuoco dell’Etna perché “egli doveva venire a capo dell’ignoto … il suo
spirito doveva assumere forma aorgica nel senso più alto, strapparsi da se stesso e dal
suo punto centrale, penetrare sempre più il suo oggetto in modo da perdersi in esso
come in un abisso”
17
. Doveva “cercare di abbracciare la natura sopraffattrice, di
intenderla fino in fondo…e lottare per l’identità con essa. Questa identità sognata era
l’abisso cui egli fu chiamato e a cui non riuscì a sottrarsi”
18
.
Ma Hölderlin fu anche Antigone, la senza legge, nella cui anima anarchica
ardeva la dinamica aorgica dell’insurrezione, la donna che scelse “la via più
breve che ritorna al tutto” per “meravigliosa nostalgia dell’abisso”
19
. Era
l’Antitheos per eccellenza che, nel “sacro delirio” si spinse verso il trono
stesso della giustizia divina e provocò la propria tremenda rovina ed
estinzione diventando come un paese “desertico, cui gli effetti della luce solare
hanno troppo accresciuto la rigogliosa fertilità originaria, e perciò è inaridito”
20
.
E, ancora, Hölderlin diventò il re Edipo che aveva un occhio di troppo, che
“interpretò troppo infinitamente le sentenza dell’oracolo e venne tentato al nefas”
21
.
Accade allora che l’affermazione infinita del potere della coscienza,
spingendosi a sapere più di quanto potesse sopportare e capire, sprofondò
nell’accecamento e nella tenebra della follia. Hölderlin, come Edipo, era
spinto dallo “sforzo brutale e quasi spasmodico di diventar padrone di sé, la ricerca
17
Hölderlin F., <<Fondamento dell’“Empedocle”>>, in “Sul tragico”, cit., p.85.
18
Ibidem, p.85.
19
Hölderlin F., <<Voce del popolo>>, in “Tutte le liriche”, cit. p. 739.
20
Hölderlin F., << Note all’“Antigone”>>, in “Sul tragico”, cit., p. 105.
21
Hölderlin F., << Note all’“Edipo”>>, in “Sul tragico”, cit., p. 96.
~ X ~
folle e furiosa di una coscienza”
22
che, al limite estremo del suo sforzo, fu
aggredita dal principio opposto della pulsionalità caotica e immediata.
Ma, Hölderlin fu anche Tantalo “che ricevette dagli dei più di quanto potesse
digerire”
23
e, profanando il santuario, con tracotante orgoglio ruppe l’alleanza
con gli dei e fu gettato nel Tartaro, condannato a patire fame e sete.
Infine, Hölderlin fu Fetonte il bel giovane a cui gli dei permisero di guidare
il carro infuocato del sole. Ma, a causa della sua inesperienza, perse il
controllo del carro, i cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata per la
volta celeste: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo,
quindi scesero troppo vicino alla terra devastando una sua parte che divenne
un deserto. Zeus intervenne per salvare la terra e, adirato, scagliò un fulmine
contro Fetonte-Hölderlin, accecandone lo sguardo e gettando l’audace
nell’abisso del destino.
Empedocle, Antigone, Edipo, Tantalo, Fetonte: tutte queste creature in una
sola si riunirono per urlare l’essenza tragica dell’esistenza umana.
Hölderlin, che sempre fu intenzionato a “trovare il principio che…spieghi le
scissioni all’interno delle quali pensiamo ed esistiamo, il principio in grado anche di
far dileguare il conflitto tra il soggetto e l’oggetto, tra il nostro sé e il mondo, anzi tra
ragione e rivelazione”
24
, riuscì a trovarlo non solo traducendo le tragedie di
Sofocle che obiettivò “l’intelletto dell’uomo vagante in mezzo all’impensabile”
25
,
ma anche e soprattutto attraverso la deriva tragica a cui approdò il suo
destino.
22
Ibidem, p.98.
23
Jaspers K., “Genio e follia”, cit., p. 131
24
Holderlin F. , “Scritti di estetica”, cit., p. 56.
25
Hölderlin F., <<Note all’“Antigone”>>, in “Sul tragico”, cit., p. 103.
~ XI ~
In un abbozzo di prefazione per l’Iperione il poeta scrisse: “porre fine a
quell’eterno conflitto tra il nostro sé e il mondo, ristabilire la pace delle paci che è più
alta di ogni ragione, congiungerci con la natura, con l’unità di un unico, infinito tutto;
questa è la meta di ogni nostra aspirazione, che c’intendiamo o no a questo riguardo.
Ma né il nostro sapere, né il nostro agire raggiungono mai, in nessun periodo
dell’esistenza (Daseyn), il punto dove cessa ogni conflitto, dove tutto è uno; la linea
limitata non si congiunge all’illimitata che in un’approssimazione infinita”
26
.
Quel poeta, che troppo infinitamente sentiva, riuscì più di nessun’altro mai
ad avvicinarsi a quell’infinito tutto e fu allora che la sua parola nominò il
sacro.
Ma si avvicinò così tanto alla dimora del Dio che dal suo bagliore fu accecato
e scagliato nuovamente in terra, come un relitto. “Quello che per altri
quarant’anni galleggia senza coscienza sulle torbide acque del tempo è
soltanto il suo cadavere spirituale, quel profilo deformato e spettrale che lui,
ignaro di se stesso, chiama a volte <<il Signor Bibliotecario>> a volte
<<Scardanelli>>”
27
.
Questo Scardanelli altro non era che una maschera vuota e tragicamente
buffa che, inquietandosi eccessivamente alla vista degli altri, li apostrofava
con inchini, segni di riverenza e parole come “Sua Maestà”, “sua Santità”,
Gentile Signor Padre”.
Hölderlin non c’era più. Di lui sembrava riecheggiare solo il suo canto
divenuto una musica fluente, piena di ritmo, ma che assai poco manteneva il
rigore delle parole. “Intorno a lui fiorirono e appassirono le sue care
26
Queste sono le parole che Hölderlin scrisse in un abbozzo di prefazione per “Iperione”. Attingo lo
scritto da Heidegger M., “La poesia di Hölderlin”, cit., p. 160.
27
Zweig S., “Lotta col demone”, cit., p. 83.
~ XII ~
primavere, lui non le contò più; intorno a lui caddero e morirono gli uomini,
lui non ne seppe niente”
28
.
Questo e molto altro ancora è stato “il mio Hölderlin”, ma se qualcuno
dovesse chiedermi: “chi era in realtà Hölderlin?”, non saprei cosa
rispondergli.
E forse, chi fosse in realtà quest’uomo nessuno lo saprà mai. Ciò che
provava, i suoi dolori, gli affanni, i pensieri più intimi, il suo
sconvolgimento, il dio in lui, tutto ciò a noi non è dato saperlo. Solo il suo
canto getta uno squarcio di luce sulla sua persona, perché quel canto non era
semplicemente uno specchio fatuo, bensì la sua carne, le sue ossa, il suo
sangue pulsante: lui era il suo canto.
Ma quanto a fondo possiamo cogliere il senso di quel canto?
Heidegger, tentando di delucidare alcune delle poesie di Hölderlin, ha scritto
“le poesie sono, nel rumore dei <<linguaggi impoetici>>, come una campana
che sta appesa all’aria aperta: basta una leggera nevicata che le cada sopra a
renderla stonata … forse ogni delucidazione di queste poesie è come una
leggera nevicata che cade sulla campana … per amore del poetato, la
delucidazione della poesia deve cercare di rendersi superflua. L’ultimo passo,
ma anche il più difficile, di ogni interpretazione consiste nel dileguarsi,
insieme alle sue delucidazioni, di fronte alla pura presenza della poesia”
29
.
Credo che l’unico mezzo di cui dovremmo disporre in sua presenza sia la
pura emozione e se, liberandola, riusciamo a farla scorrere dentro di noi,
28
Ibidem, p. 6.
29
Heidegger M., “La poesia di Hölderlin”, cit., pp. 5-6.
~ XIII ~
forse saremo riusciti a fare un passo in più non solo verso Hölderlin, ma
anche verso noi stessi.
Ora l’ultima parola spetta di diritto a lui, al poeta dei poeti, che in una lettera
al fratello Karl scrisse:
<<Ecco come sono. Leggendo questi versi poeticamente insignificanti, tu
sarai stupefatto che una emozione così estranea vi si sia potuta
mescolare. Eppure mi accade di tradurre la vita più bruciante della mia
anima con parole ben piatte, sicché in fondo nessuno, oltre a me, sa cosa
esse significhino>>
30
.
30
Lettera al fratello Karl del 1 gennaio 1799. Attingo lo scritto da Colli L. M., <<L’antagonista. Hölderlin e
l’Empedocle incompiuto>>, in “Interpretazioni della patografia di Friedrich Hölderlin”, p.111.