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IL MITO DI NARCISO
La storia
Al di là delle differenti versioni che ci sono state tramandate, il mito di Narciso
narra la vicenda di un giovane bellissimo e sprezzante. Egli rifiuta di concedersi a
tutti coloro che si innamorano di lui e le diverse versioni si concentrano, di norma,
sull’identità di uno degli amanti respinti1.
Sul giovane si esercita la vendetta degli dèi: specchiandosi nelle acque di una
fonte si innamora dell’imago che vi vede riflessa, non essendo in grado di
riconoscerne l’identità.
Alla fase di innamoramento e di disperazione perché “la persona” nell’acqua non
gli si vuole concedere, subentra la consapevolezza: l’immagine nella fonte non è
altro che la sua. Narciso ha compreso di essersi innamorato del proprio riflesso e
questo lo fa sprofondare in una nuova disperazione, la disperazione di un amore
che non potrà mai essere ricambiato.
Dopo la morte, che avviene come diretta conseguenza della consapevolezza
acquisita, il giovane viene ricordato dal fiore che porta il suo nome.
Gli autori antichi
La più antica tra le versioni giunte sino a noi è quella tramandata da Conone2,
che fa un uso eziologico del mito, volto a spiegare il motivo della nascita del culto
in onore di Eros presso Tespie, in Beozia. Narciso, amato tra gli altri anche dal
giovane Aminia, ne rifiuta l’amore e, anzi, gli invia una spada. Aminia, dopo aver
chiesto vendetta agli dèi, si suicida davanti alla casa dell’amato con la spada che
questi gli ha inviato. Narciso si innamora dunque della propria immagine riflessa in
una fonte e, giudicando giusta la sua punizione per le colpe compiute nei confronti
di Aminia, si suicida con la medesima arma. Dal suo sangue sboccia il fiore del
narciso.
1
Conone, ad esempio, narra la storia di Aminia (cfr. Con., Narr., XXIV [=Fozio, Biblioteca,
186.134b.28-135a.4); Ovidio, invece, quella della ninfa Eco (Ov, Met., III, vv. 339-510).
2
Conone, loc. cit.
3
Pausania3 riprende la versione dell’innamoramento alla fonte, ma giudicandola
assurda, ne propone una alternativa: Narciso ha una sorella gemella, di cui è
innamorato, e quando ella muore il giovane si reca alla fonte perché, vedendo la
propria immagine, gli sembra di vedere quella della gemella e può dunque trovare
un po’ di sollievo. Per quanto riguarda il fiore, invece, l’autore riferisce che questo
esisteva già prima della morte del giovane.
Filostrato4 riporta degli accenni al mito di Narciso nella sua descrizione
dell’immagine del giovane, così come fa Callistrato5 descrivendone la statua.
Quest’ultimo, inoltre, introduce il tema della morte per annegamento6, spiegando
che Narciso muore per essersi voluto ricongiungere con l’immagine.
Il filosofo Plotino7 non fa, invece, esplicito riferimento a Narciso, ma parla di un
mito in cui un giovane «volendo afferrare una bella parvenza sulla superficie
dell’acqua […] s’inabissò giù nella corrente e scomparve»8.
Lattanzio Placido9, infine, riprende la versione ovidiana che sarà oggetto della
nostra trattazione.
La versione ovidiana
Ovidio10 tramanda ai lettori quella che viene considerata la prima versione
prettamente letteraria del mito. Qui il giovane è figlio della ninfa Lirìope e del
fiume Céfiso. La madre interroga l’indovino Tiresia per sapere se il figlio avrà una
lunga vita e ne riceve in risposta un sibillino «Si se non noverit»11.
Il giovane cresce bellissimo, amato dagli altri giovani e dalle ninfe, nessuno dei
quali riesce però ad ottenerne l’amore. Anche Eco si innamora di lui e creca di
convincerlo a contraccambiare il suo sentimento; ad un suo secco rifiuto la ninfa si
3
Pausania, Guida della Grecia, III.31.7-8.
4
Filostrato, Immagini, 23. Narciso.
5
Callistrato, Descrizioni, 5. Sulla statua di Narciso.
6
[…] morì presso le ninfe, perché fu preso dalla brama di congiungersi con quell’immagine
(ibidem – traduzione di E. Pellizer).
7
Plotino, Enneadi, I.6.8 (Sul bello).
8
Ibidem, traduzione e corsivo di E. Pellizer.
9
Lattanzio Placido, Narrazioni Ovidiane III, fab. 5-6.
10
Ov., Met., III, 339-510.
11
Ivi, v. 348.
4
rintana nei boschi e si lascia morire consumata d’amore, fino a che di lei non
rimane altro che la voce.
Uno degli amanti respinti chiede però vendetta e la dea Nemesi accoglie la
preghiera, facendo in modo che anche Narciso provi la sofferenza di un amore non
ricambiato.
Il giovane, avvicinatosi così ad una fonte nel corso di una battuta di caccia,
scorge nell’acqua il proprio riflesso e si innamora all’istante della sua bellezza, senza
comprendere che in realtà si tratta della propria.
Dopo un periodo trascorso a chiedersi il motivo per cui l’imago non si faccia
avanti, Narciso comprende la verità: ama soltanto il suo riflesso e, per questo, il suo
amore non potrà mai trovare appagamento.
Disperato, si lascia allora morire d’amore presso la fonte che l’ha ingannato e che
ha portato a compimento la profezia dell’indovino.
Sopraggiunge Eco, che unisce i propri lamenti a quelli del giovane e a quello
delle di lui sorelle. Quando queste, infine, si apprestano a preparare la pira funebre
trovano, al posto del corpo del giovane, il fiore bianco e giallo che, d’ora in poi,
porterà il suo nome.
Narciso continua a desiderare la propria immagine anche nell’Ade, specchiandosi
nelle acque dello Stige.
La versione medievale
L’altra versione che verrà analizzata è anonima e risale alla metà del XII secolo12.
L’ambiente è in questo caso quello di corte, con un Narciso vassallo e una Eco che
diventa la principessa Danae.
La dama madre di Narciso si rivolge ad un famoso indovino di Tebe, che le
spiega che il figlio vivrà a lungo se non si conoscerà. La dama non crede alla
profezia che, in effetti, non sembra trovare compimento fino al quindicesimo anno
d’età del giovane.
Egli, bellissimo e sprezzante, rifiuta l’amore delle fanciulle che lo desiderano. Tra
esse l’autore concede spazio alla principessa Danae: vedendolo dalla finestra della
12
L’edizione utilizzata è: M. Mancini, Il Lai di Narciso, Carocci, Roma 2002.
5
propria torre, si innamora di lui e decide di andare a parlargli per promettergli il
suo amore e chiedere che egli la ricambi.
L’incontro tra i due avviene durante una battuta di caccia: Danae si avvicina a
Narciso, lo abbraccia e cerca di convincerlo a ricambiare il suo amore, spiegandogli
che sono pari per bellezza e per età.
Il giovane, però, deride la principessa e la allontana in malo modo. Ella, offesa,
chiede l’intervento di Amore, che accoglie la sua preghiera e decide di vendicarla.
Narciso, avvicinatosi ad una fontana, scorge la propria immagine e se ne
innamora, credendola una ninfa a guardia dell’acqua. Dopo vani tentativi di
convincimento, il giovane comprende la verità e rivaluta l’amore di Danae,
pentendosi di averla respinta.
In punto di morte invoca Danae, che lo raggiunge e muore accanto a lui, poiché
non può sopportare di averne causato la morte attraverso la propria richiesta di
vendetta.
Oviidiio
Ovidio, Metamorphoseon Libri, III, vv. 339-510
7
L’AUTORE
Nota biografica
Ovidio stesso fornisce ai lettori
informazioni sulla propria nascita: nei
Tristia1, infatti, scrive che Sulmona, distante
da Roma «nove volte dieci miglia», è la sua
città natale e che l’anno della sua nascita è
quello in cui «i consoli di uguale destino
perirono». L’anno in questione è il 43 a.C.,
durante il quale i due consoli rimasero uccisi
nella battaglia di Modena condotta da
Ottaviano contro Marco Antonio.
Ovidio si recò a Roma per gli studi e qui si distinse per le capacità oratorie:
Seneca il Vecchio, infatti, ci informa che «il suo ingegno prediligeva l’espressione
ornata, leggiadra, gradevole» e prosegue sostenendo che «il suo modo d’esprimersi
sembrava poesia in prosa»2. Completò la propria istruzione ad Atene e, in seguito,
visitò l’Asia Minore e la Sicilia.
Rientrato a Roma, ricoprì magistrature di primo grado per compiacere il padre,
ma la sua vera vocazione rimaneva la poesia, cui infine decise di dedicarsi. È di
nuovo Ovidio a parlarne ai lettori: nei Tristia, infatti, spiega che il padre
considerava la poesia come una perdita di tempo, ma che, per quanto cercasse di
allontanarsene, la sua vocazione tornava ad accendersi3. Entrò così a far parte del
1 Ov., Tristia, IV, 10, vv. 1-8: Ille ego qui fuerim, tenerorum lusor amorum, / quem legis, ut noris,
accipe posteritas. / Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis, / milia qui noviens distat ab urbe
decem. / Editus hic ego sum, nec non, ut tempora noris, / cum cecidit fato consul uterque pari: / si
quid id est, usque a proavis vetus ordinis heres / non modo fortunae munere cactus eques. Nel testo
si utilizza la traduzione di Paolo Fedeli.
2
Sen., Controv., II, 8, traduzione di Paolo Fedeli.
3
Ov., Tristia, IV, 10, vv. 21-26: Saepe pater dixit ‘studium quid inutile temptas? / Maenides nullas
ipse reliquit opes’. / Motus eram dictis, totoque Helicone relicto / scribere temptabam verba solute
modis. / Sponte su Carmen numeros veniebat ad aptos, / et quod temptabam dicere versus erat.
8
circolo di Messalla Corvino e strinse amicizia con Tibullo, di cui compose
l’epitaffio4.
Dopo due matrimoni sfociati nel divorzio, Ovidio trovò la tranquillità con la
terza moglie. Ma tale serenità era destinata ad essere bruscamente interrotta: nell’8
a.C., infatti, Augusto lo relegò a Tomi nel Mar Nero. Non si hanno indicazioni
precise riguardo alle motivazioni di tale decisione: Ovidio accenna ad un carmen e
ad un error5 . Il carmen è probabilmente l’Ars amatoria, considerata licenziosa ed in
contrasto con l’opera moralizzatrice di Augusto. L’error sembra invece collegare
Ovidio agli scandali che videro coinvolta Giulia Minore, nipote di Augusto.
Nonostante le numerose suppliche inviate ad Augusto e al suo successore
Tiberio, Ovidio rimase in esilio fino alla morte, avvenuta nel 17-18 d.C.
Il periodo elegiaco-amoroso
Nella prima fase della sua produzione, Ovidio si dedica alla poesia d’amore.
Dedica a Corinna una raccolta di elegie amorose, gli Amores, pubblicata in cinque
libri e poi in tre. In seguito Ovidio compone le Heroides, lettere di eroine del mito
ai rispettivi amanti.
L’opera più scandalosa e nota di questo periodo è l’Ars amatoria, manualetto
erotico in tre libri sulle tecniche di conquista.
Allo stesso periodo appartengono i Remedia amoris e i Medicamina faciei
femineae.
Il periodo della maturità
Ovidio compone i quindici libri delle Metamorfosi, una sorta di epica
mitologica. Intraprende, inoltre, la stesura dei Fasti, un calendario romano scandito
dalle feste e dai riti religiosi: l’opera, che avrebbe dovuto constare di dodici libri, si
interrompe al sesto a causa della relegazione.
4
Ov., Am., III, 9, 67-68: Ossa quieta, precor, tuta requiescite in urna, / et sit humus cineri non
onerosa tuo.
5
Ov., Tristia, II, 1, vv. 207-208: Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error / alterius facti
culpa silenda mihi.
9
Le opere dell’esilio
Mentre si trova a Tomi, Ovidio compone elegie in cui non perde occasione per
chiedere la revoca del provvedimento: tali opere vanno a comporre i cinque libri
dei Tristia e i quattro libri delle Epistulae ex Ponto.
Sempre durante il soggiorno forzato a Tomi, Ovidio compone l’invettiva Ibis,
scagliata contro uno sconosciuto che lo aveva tradito a proposito dello scandalo di
Giulia Minore.
Le opere perdute e di dubbia attribuzione
Ovidio compone la tragedia Medea, molto apprezzata dai contemporanei:
Quintiliano ritiene che «[…] mostri quanto […] avrebbe potuto eccellere, se avesse
potuto controllare il suo talento anziché lasciarlo sbrigliato»6 e nel Dialogus de
oratoribus si dice che «[…] non esiste libro di Asinio o di Messalla celebre quanto la
Medea di Ovidio […]»7.
Gli viene inoltre attribuito un poemetto sui pesci del Mar Nero, l’Halieutica, di
cui rimangono un centinaio di versi.
La fortuna
Nonostante la relegazione ad opera di Augusto, Ovidio conobbe larga fama già
presso i suoi contemporanei, come dimostrano le riprese dell’Ars amatoria e degli
Amores nei carmi del Corpus Tibullianum. Non mancarono, tuttavia, le critiche, tra
cui spiccano quelle di Seneca retore e di Quintiliano: secondo il primo, Ovidio non
sapeva fermarsi al momento giusto8, mentre nell’opinione del secondo proprio tale
incapacità di controllarsi gli ha impedito di divenire grande poeta9.
Nell’età imperiale Ovidio divenne modello per Seneca tragico, Lucano, Stazio e
la sua fortuna proseguì fino all’età tardo-antica.
Il periodo di maggiore fortuna è il Medioevo, durante il quale Ovidio viene
letto e commentato più degli altri autori classici; non a torto, infatti, il periodo
compreso fra XI e XII viene definito Aetas Ovidiana. In tali due secoli si apprezzano
in particolar modo le Metamorfosi e le opere erotiche. Anche Dante ricorda
6
Quint., Insti., X, 1, vv. 98, traduzione di Paolo Fedeli.
7
Dial. de or., XII, 5, traduzione di Paolo Fedeli
8
Sen., Contr., IX, 5, v. 17.
9
Quint., Inst., X, 1, v. 98.
10
Ovidio, collocandolo fra i sommi poeti, e Petrarca e Boccaccio non nascondono la
loro ammirazione.
L’Umanesimo apprezza particolarmente le Heroides, mentre le Metamorfosi
influenzano in maniera decisiva il teatro elisabettiano, soprattutto la produzione di
Shakespeare, e il Romanticismo riscopre le opere dell’esilio.
Ancora oggi Ovidio è oggetto di studio e di ripresa in campi che spaziano dalla
letteratura alla pittura, dal cinema al teatro.