“Ogni città, in una sua misura, vive dei propri ricordi. Le città mediterranee, probabilmente,
più delle altre. In esse, il passato sempre fa concorrenza al presente. Il futuro si propone più a
immagine del primo che del secondo. Su tutto il perimetro del “Mare Interno”, la rappresenta-
zione della realtà si confonde facilmente con la realtà stessa.
Il discorso sulla città mediterranea si sviluppa prevalentemente in termini di storia e di geo-
grafia, di architettura o di urbanistica, senza in esse esaurirsi. Si nutre di evocazioni di diverso
tipo o di reminiscenze, di approssimazioni. I modi “di approccio” e quelli “di raccontare” non
pervengono a legarsi o ad unirsi. Riprendendo la maniera in cui Marco Polo avrebbe potuto
descrivere al grande Kublai Khan le città incontrate nei suoi viaggi, Italo Calvino racconta “città
invisibili”, e formula a questo proposito alcuni avvertimenti molto preziosi: “Non dobbiamo
confondere la città stessa con il discorso che la descrive, per quanto esista un evidente rappor-
to tra I’una e l’altro”.
L’idea di un Mediterraneo costruito da molteplici rotte, marittime e terrestri, presuppone scali
diversi: punti di partenza e di arrivo, approdi e porti, “una rete di città che si tengono per
mano”, come dice lo storico Braudel. Sono lunghi che cambiano in continuazione, pur conser-
vando i loro tratti più riconoscibili. Le trasformazioni fanno insorgere nostalgie. In tal senso, il
discorso sulla città mediterranea si fa sentimentale. Ciò vale ugualmente per l’immaginario
che l’accompagna.
A Trieste sono arrivato più spesso per terra che dal mare. Venendo dalla parte del mare ve-
devo un grande porto, uno solo, vecchio e nuovo insieme, con una fortezza e un campanile
sovrastanti. Dalla parte di terra, la costa, la periferia e il Carso si collegano in un modo che mi
sembrava inconsueto: la città è tutta marittima, il suo primo retroterra è già continentale.
E’ stato il bisogno a determinare la posizione di Trieste: nel golfo che si stende sotto l’altopia-
no ha cercato riparo alla bora. Dal lato nord-orientale soffiano i torti “venti schiavi”. Dante li
chiamava così nel “Purgatorio” (XXX, 87).
Ho girovagato per Trieste in ogni stagione, all’alba e al tramonto. Scendevo da Opicina verso
il mare, dalle colline di San Giusto e di San Vito fino al Lungomare e al porto; camminavo per
le viuzze della Cittavecchia, dal castello e dalla cattedrale verso il molo Audace, la Porporella,
la Lanterna. Per la prima volta in un paese straniero, a Trieste ho cessato di sentirmi straniero.
Questo non capita spesso in una città, e in una vita. Chi vive qui, annotò un cronista, non è
soltanto Triestino; è qualcosa di più, è un altro. Forse gli possiamo credere.
Nel porto vecchio le bitte sono ormai arrugginite, sembrano più vecchie dello stesso porto. Le
funi con le quali venivano attraccate le navi sono marcite o seccate; le vedo qua e là sistemate
in mucchio. Sul molo, fra le pietre del selciato che lo copre, spuntano ciuffi d’erba: i piedi dei
passanti non riescono a calpestarli, nemmeno i carichi portuali a sradicarli.
Il golfo è vasto, lungo le coste svettano molti pini che profumano, con la vegetazione del Sud
che resiste alla bora. Il mare è qui il medesimo che bagna Pirano o Capodistria, Rovigno o
Pola, Fiume e quasi tutto il Quarnero. “I mari di un mare” sono spesso lontani o diversi.
Il golfo di Trieste non si è quasi mai presentato come un mare particolare; non ricordo di aver
mai letto su qualche antica carta il nome di “Mare Tergestinum”. I triestini sapevano, come i
veneziani, che un golfo può essere posseduto; mentre il mare non si lascia, non si può posse-
dere.”
Predrag Matvejevie
Trieste, Tramonti
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1.0 Trieste e il suo porto
Trieste è sempre stata descritta come una città diversa, e questa sua diversità è stata ora
ostentata ora miscunosciuta, ora affrontata con lucida coscienza ora ignorata con arrogan-
za oppure codificata in un comodo e falco clichè, che è divenuto, a scadenze periodiche,
l’alibi della sua classe dirigente e della sua inadeguatezza politico-sociale. Città “astratta e
premeditata”, come diceva Dostoevskij di Pietroburgo (analogamnte cresciuta per decisione
di un governo anzichè per un processo di sviluppo organico), Trieste è stata e rimane ricca
di contrasti, ma sopratutto ha cercato e cerca la propria ragione d’essere in quei contrasti e
nella loro indissolubilità.
La storia è per questa città uno degli aspetti fondamentali; da essa eredita un sistema inse-
diativo a connotazione complessivamente monumentale, nato da disegni di grande apertura,
sul quale non sempre è lecito intervenire senza un ottica di analoga ampiezza. Proprio al suo
porto, che ne ha determinato in grande misura anche la configurazione architettonico - edi-
lizia, Trieste deve la propria esistenza e il proprio sviluppo. Per cogliere a pieno la portata del
legame città - porto, in termini di sviluppo e decadenza economica, sociale e culturale, oltre
che le implicazioni ed i condizionamenti che ancora esso pone alla città, pare opportuno
darne una diffusa descrizione.
La Trieste moderna era nata - o almeno aveva trovato le condizioni necessarie per la sua
genesi ed il suo sviluppo - prima del 1717, quando l’imperatore Carlo VI aveva proclamato
“sicura e libera la navigazione del mare Adriatico” e poi, a pochi anni di distanza, nel 1719,
quando un diploma imperiale aveva proclamaro Trieste, insieme con Fiume, portofranco.
Motivi che dovevano presto tramontare - la volontà di collegare più strettamente per via ma-
rittima il corpo dei domini asburgici con i nuovi possedimenti austriaci dell’Italia meridionale
e del Belgio - e altri destinati ad una più lunga durata - il desiderio di creare un avanposto
per la politica navale e commerciale austriaca nel Levante - stanno alla base di una decisio-
ne sovrana, come la scelta congiunta di Trieste e Fiume. L’istituzione del portofranco non ha
rilevanti effetti sullo sviluppo della città; il vero salto qualitativo di Trieste è coevo alla nascita
di quell’Austria moderna, appena abbozzata durante il regno di Carlo V: l’azione di Maria
Teresa trasforma la città adriatica nello sbocco al mare per eccellenza e nell’emporio com-
merciale di questo stato. La volontà sovrana sta alla base della grandezza futura di Trieste; il
destino della città si trova ad essere legato alle sorti dell’Austria in maniera ben più incisiva di
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quanto non lo fosse stato per secoli, sin dalla libera dedizione del 1382. La decisione di Carlo
VI viene così a rappresentare per Trieste “il punto saliente della sua evoluzione storica”.
Per Trieste i decenni sucessivi alla nascita del portofranco sono quindi anni di continuità, nel
senso che la città riesce a darsi un’immagine radicata nella sua tradizione, ma sono anche un
periodo di mutamento profondo, che Angelo Vivante ha pregnatamente riassunto, parlando
di trasformazione “da comune chiuso oligarchico in emporio statale cosmopolita”.
Dopo le grandi scosse del 1848, impresse dalla lotta per la formazione dello stato italiano
unito, che erano sembrate metterne in pericolo la stabilità, l’unità e la stessa sopravvivenza,
il nuovo imperatore e il ceto dirigente asburgico imprimono allo stato, uscito integro dalla
tempesta, una svolta decisamente centralistica ed unitaria. Anche Trieste viene ad essere più
strettamente legata al centro dell’impero, tanto più che alcuni dei suoi ministri premono per
una più diretta ed intima saldatura tra Vienna e Trieste: i due poli, politico uno ed economico
l’altro. La sollecitudine per le sorti del Lloyd e, nel 1857, il completamento della ferrovia me-
ridionale sino a Trieste sono le più appariscenti manifestazioni di questo disegno politico ed
economico che, teso a rinsaldare l’unità dello stato e a realizzare una grande area economica
unitaria, assegna alla città adriatica una funzione statale di sempre maggior rilievo. Questa
concezione, che vede in Trieste la proiezione sul mare di tutta la monarchia e che la vuole
quindi priva di una propria fisionomia nazionale, la considera città anazionale, per riconoscer-
ne la specificità, ma ancor più per isolarla dal suo immediato retroterra. Eppure il rapporto tra
lo stato e la classe mercantile e finanziaria cittadina non è privo di attriti e di incomprensioni. I
gruppi triestini premono per una politica ferroviaria più attenta al complesso degli interessi del
porto adriatico, che non può esaurirsi nell’istituzione del collegamento ferroviario tra Trieste e
la capitale della monarchia, che del resto - secondo le voci più critiche - è stato realizzato in
ritardo, dirottando così verso i porti dell’Europa del Nord correnti di traffico che in passato si
erano dirette verso l’Adriatico. La richiesta di un più efficiente e moderno sistema di comunica-
zioni è particolarmente pressante, perchè il porto sta attraversando una fase di stasi, causata
dall’inevitabile declino dell’emporio, che raggiungerà il momento di massima depressione in
coincidenza con la crisi politica del ‘59-60, e sarà superata verso la fine del decennio con il
completamento della trasformazione da emporio in florido porto di transito.