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semplice psicanalisi che scava nella psicologia umana per spiegare le ragioni di
certe azioni o certi stati d’animo. Lo scopo è puramente cinematografico:
descrivere gli aspetti della donna nel cinema di Truffaut, l’impatto che tali
personaggi hanno sui film e sulle storie, il loro modo di agire, comunicare, e
sentire dal quale scaturisce un po’ del Truffaut‐ pensiero, ciò che l’Autore
vuole dirci con quel film e con quei personaggi. Lo stesso Truffaut diceva che
da ogni film si può vedere l’idea che l’autore ha della vita e quella che ha del
cinema.
E’noto che il suo amatissimo Renoir tanto teneva al disegno dei personaggi
che “sacrificava la tecnica alla recitazione dell’attore”
2
e anche le vorticose
flessuosità dei carrelli Ophulsiani erano da Truffaut letti nel senso d’una
disponibilità all’esigenze recitative dell’attore. (“ Le ben note carrellate di
Ophuls – scriveva in un articolo recentemente ripubblicato da Marsilio ‐ hanno
dunque l’obiettivo di costringere l’attore ad uno sforzo fisico, per renderlo
necessariamente antiteatrale.”)
3
In opposizione con il cinema che Truffaut e i suoi amici criticavano, i
personaggi truffautiani hanno caratterizzazioni estreme, che hanno portato
fino all’esasperazione le loro anime e le loro attitudini. Sono capaci nel bene e
nel male di gesti eclatanti e in possesso di psicologie talmente contraddittorie
da non poter essere giudicati troppo bene o troppo male dal pubblico. Nel
cinema di Truffaut i personaggi sono tutte vittime e tutte carnefici, tutti hanno
qualche colpa, tutti sbagliano e fanno del bene, hanno momenti buoni e altri
cattivi, sono umani, sono vivi.
Le donne poi, descritte con acutezza dal regista francese, sono rappresentate
come l’oggetto del desiderio, come ciò che fa andare avanti il mondo, basti
pensare a Bertrand (L’uomo che amava le donne) che per toccare le gambe
della sua infermiera ci resta secco o Louis (La mia droga si chiama Julie)
disposto a mettersi in fuga e a uccidere per una donna che lo ha ingannato, o
Jules e Jim (Jules e Jim) che per l’amore di Chaterine sopportano l’idea di
dividersela. La donna , filmata in tutte le salse, come madre, moglie, amante,
prostituta, figlia, possiede nel cinema di Truffaut (come nella vita?) qualcosa
di magico che l’uomo non ha e non sa cos’è. L’uomo non può scoprire la
donna, la può solo amare e amare non vuol dire necessariamente capire, anzi.
L’amore, bello, ma provvisorio, è qualcosa che lotta contro la vita: l’amore è
sofferenza oppure è morte. Quando l’uomo riesce a capire la donna, qualcosa
succede, c’è la morte, c’è sempre qualcuno che muore.
In questo lavoro saranno esaminati dal punto di vista cinematografico i film di
Truffaut in cui la donna è protagonista, non solo della storia, ma di situazioni e
azioni rilevanti, di sentimenti ed emozioni, enfatizzando gli aspetti più
prettamente cinematografici come lo stile, i movimenti di macchina, le
citazioni e le similitudini con altri film o registi, ma centrando soprattutto un’
2
F.TRUFFAUT, I libri della mia vita, Marsilio, 2003
3
Ibid
5
attenzione critica sui personaggi femminili e del loro ruolo all’interno del film
e più in generale del cinema di Truffaut. E lui, che di donne se ne intendeva
evidentemente, ha voluto lasciarci una filmografia piena di spunti,
presentandoci, oltre a molti tipi di nuovi stereotipi di donne, un grande
quantità di menti e sentimenti: la gelosia, la maternità, la mancanza d’affetto,
la rabbia, l’odio, la solitudine, l’immaturità, la disonestà, la malvagità, la
vendetta, la passione, l’amore, la vitalità e infine anche la morte.
Donne coraggiose e indipendenti come Chaterine che in Jules e Jim cerca di
rompere tutte le regole sociali e di creare un triangolo amoroso che non si
concluderà bene, o come Julie, donna senza scrupoli in “La mia droga si
chiama Julie” che uccide e inganna ed è disposta a tutto pur di avere quel che
vuole, e poi Nicole, la Calda amante così vicina, ma sfuggente, o la Julie de “La
sposa in nero”, accecata d’odio e vendetta che si macchia degli stessi crimini
dei suoi odiati. Per non parlare delle donne di Antoine Doinel, così diverse tra
loro, ma allo stesso modo desiderate, o quelle di Bertrand, gambe più che
donne. Truffat ha deciso di farcela vedere tutte, non esiste la donna perfetta.
La donna è tutto e lui in ogni film ha voluto evidenziarne un aspetto
particolare estremizzandolo. La donna è carne, la donna è cuore, va amata,
rispettata, desiderata. La donna è madre, figlia, è innamorata, irrazionale, ma
sa essere forte e decisa, dolce e passionale, indipendente e insicura,
conservatrice e trasgressiva. L’uomo non lo sa e non può capirlo, neanche
Truffaut, ma lui era cosciente di questo limite. Il suo cinema è anche questo.
La differenza più grande tra l’uomo e la donna, diceva il regista francese, è che
l’uomo vive la storia d’amore, la donna invece la vive e la commenta pure, in
questo modo, enfatizza ed estremizza ogni aspetto, particolari di cui l’uomo
neanche si accorgerebbe, i suoi film e la sua vita si sono nutriti di questo
piccolo dettaglio.
“Per voi può anche essere solo un film, per me invece è tutta una vita”
(F.Truffaut)
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TRUFFAUT, L’UOMO ED IL REGISTA
La vita
François Truffaut nasce a Parigi, vicino Place Pigalle, il 6 febbraio 1932. La
madre è Jeanine de Montferrand, all'epoca appena diciottenne. Il padre è
Roland Truffaut, un architetto‐decoratore che lo riconobbe come suo pur non
essendone il genitore biologico. Il futuro regista nel 1945, leggendo il diario di
Roland, scopre la verità anche se per scoprire la vera identità del padre
naturale dovrà aspettare la fine degli anni '60 ‐ quando, per la realizzazione
del film Baci rubati (1968), il regista contatta un investigatore privato, Albert
Duchenne dell'agenzia Dubly, e ne approfitta per affidargli il compito di
individuare il suo padre biologico. Viene così a sapere che si tratta di un
dentista ebreo, divorziato, che viveva a Belfort. Esita a lungo ma poi decide di
non allacciare i rapporti con il padre ritrovato: era davvero troppo tardi, e poi
non voleva creare dei problemi al padre legale Roland Truffaut.
Le circostanze in cui avvenne il concepimento segnarono l'infanzia del regista.
La madre, appena diciottenne, quando scopre di essere incinta vorrebbe
abortire ma la famiglia (di militari conservatori) si oppone e, per il periodo
della gravidanza, la manda in una sorta di convitto per traviate. Dopo la
nascita il bambino viene dapprima messo a balia e poi mandato in campagna
dalla nonna presso la quale trascorrerà i suoi primi anni di vita.
Dopo il parto la madre trova un lavoro di segretaria al giornale L'Illustration in
cui lavora anche il nonno del futuro regista, l'ex ufficiale Jean de Monferrand.
Appassionata di montagna, Jeanine conosce al Club Alpino Francese, di cui il
padre è socio onorario, un designer industriale, Roland Truffaut. Nel
novembre 1933 si sposano e Roland riconosce il bambino che però andrà a
vivere con loro solo alcuni anni più tardi, alla morte della nonna materna.
Il rapporto con la nonna è stato fondamentale per la nascita di una delle
grandi passioni del futuro regista, quella per la lettura. Di salute gracile, il
piccolo François non frequenta la scuola materna ed è la nonna, autrice di un
libro sul bigottismo (mai pubblicato) e appassionata lettrice, che lo introduce
nel mondo dei libri. È lei che dapprima legge per lui e, poi, gli insegna a
leggere. L'amore per la letteratura e per i libri è una delle costanti della vita
del regista fin da allora. Lui stesso dirà: “mia madre (...) non sopportava i
rumori e m'impediva di muovermi e parlare per ore e ore. Allora io leggevo:
era la sola occupazione a cui potessi dedicarmi senza disturbarla. Durante
l'occupazione tedesca ho letto moltissimo e poiché stavo spesso solo, mi misi a
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leggere i libri degli adulti (...). Arrivato a tredici o quattordici anni comprai, a
cinquanta centesimi al pezzo, quattrocentocinquanta volumetti grigiastri, Les
Classiques Fayard, e mi misi a leggerli in ordine alfabetico (...), senza saltare
un titolo, un volume, una pagina”.
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Alla passione per la lettura non corrisponde però un buon rapporto con le
istituzioni scolastiche. Fino al 1941 frequenta il Lycée Rollin in cui, secondo le
sue parole, si sente un estraneo. Il fallimento dell'esame di ammissione al
sesto anno è l'inizio di un lungo peregrinare tra numerose scuole: “avevo una
pessima condotta, più ero punito più diventavo turbolento. A quel tempo
venivo espulso molto di frequente e passavo da una scuola all'altra”. Ed è
proprio in una delle numerose scuole che frequenta per brevi periodi, quella
sita al n. 5 di rue Milton, che il dodicenne Truffaut conosce Robert Lachenay di
un anno e mezzo più grande. Ne nasce, anche grazie alla comune passione per
la letteratura e per il cinema, un'amicizia che durerà tutta la vita. Lachenay nel
numero speciale che i Cahiers du cinéma dedicheranno al regista nel dicembre
1984, scrive “l'incomprensione che i suoi genitori manifestavano per lui era
simile a quella dei miei. Ciascuno di noi non aveva che l'altro a far le veci della
famiglia (...) Se non ci fossimo incontrati e sostenuti a vicenda, certamente ci
saremmo avviati entrambi su una brutta strada”.
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Il primo film che il giovanissimo François Truffaut vede è Paradiso perduto di
Abel Gance, che gli comunica una forte emozione. Da allora frequenta
assiduamente i cinema, spesso durante le ore di lezione con conseguenze
facilmente prevedibili sulla sua resa scolastica. Bocciato più volte, lascia
presto la scuola e, poco prima della liberazione di Parigi, fugge dalla colonia in
cui lo avevano mandato e trova un lavoro come magazziniere. Dopo aver
perduto il lavoro, fonda un cineclub in concorrenza con quello di André Bazin
che conosce in quest'occasione. Sarà una figura fondamentale per il futuro di
Truffaut.
Lo stesso Truffaut ha raccontato: “Mio padre ritrovò le mie tracce e mi
consegnò alla polizia. Sono stato ospite per molto tempo del riformatorio di
Villejuif da cui mi fece uscire André Bazin. Sono stato manovale in un'officina,
poi mi sono arruolato per la guerra d'Indocina. Ho approfittato di una licenza
per disertare. Ma, dietro consiglio di Bazin, ho raggiunto il mio reparto. In
seguito sono stato riformato per instabilità di carattere”.
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Bazin sarà per
François Truffaut quell'autentica figura paterna che gli era mancata.
Sarà sempre Bazin a trovargli lavoro presso il servizio cinematografico del
Ministero dell'agricoltura e, poi, lo assumerà come critico cinematografico
presso una rivista da poco fondata: Cahiers du cinéma.
4
GILLAIN ANNE, Il segreto perduto, Genova, Le mani, 1995
5
Il romanzo di François Truffaut, Ubulibri, 1986
6
GILLAIN ANNE, Il segreto perduto, Genova, Le mani, 1995
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François Truffaut ha nutrito una grande passione per i film del regista inglese
Alfred Hitchcock. Truffaut, insieme a Claude Chabrol e ad altri amici del
Cahiers du cinema, ha avuto il merito di far rivalutare e apprezzare l'opera di
Hitchcock tanto in Europa quanto in America, dove era da sempre trattato
dalla critica con sufficienza nonostante gli enormi successi di pubblico.
Nel 1955 pubblica sulla rivista Cahiers du Cinéma la prima intervista ad Alfred
Hitchcock, autore a cui Truffaut voleva rendere omaggio e che la critica
americana in quegli anni disprezzava. Questa sorta di appuntamento con il
cineasta americano si ripeterà periodicamente tanto da dar vita nel 1966 al
libro “Il Cinema Secondo Hitchcock”, opera diventata ormai culto che ha
ridisegnato la figura del regista dall’inconfondibile profilo.
Da questo libro emerge il ritratto di un fine regista, attentissimo alla
narrazione visiva e di un uomo assai fragile che si cela dietro un apparente
cinismo nei confronti della vita reale. L'intervista (che diventa man mano
sempre più un dialogo tra un giovane regista e un anziano maestro) tratta
analiticamente ciascun film di Hitchcock e ne mette in luce le innovazioni
tecniche, i particolari più nascosti, le invenzioni di sceneggiatura e, talvolta, i
difetti. Esiste anche un estratto dalla trasmissione televisiva "Apostrophe"
condotta da Bernard Pivot, in cui Truffaut definisce Hitchcock come "un
personaggio alla Henry James, pieno di frustrazioni" e spiega brevemente
alcuni aspetti del suo fare cinema: il filmare la violenza come se fosse una
scena d'amore e viceversa; la scelta delle protagoniste femminili sempre
bionde e sofisticate e la repulsione di Hitchcock nei confronti delle attrici
come Brigitte Bardot e Marilyn Monroe che, per usare le parole di Truffaut,
"avevano il sesso stampato sulla faccia". La trasmissione risale al 1984, pochi
mesi prima che il tumore al cervello uccidesse il grande regista francese.
Nel 1957, testimoni Roberto Rossellini e lo stesso Bazin, sposa la figlia del
distributore Igance Morgenstern, Madeleine, con cui ha due figlie, Ewa e
Laura, che figureranno ne Gli anni in tasca (1976).
Nel 1959 fonda la casa di produzione Les Films du carosse, che gli permetterà
di girare tranquillamente i suoi film, rendendolo uno dei pochi registi che la
storia del cinema ricordi indipendente economicamente.
Nel 1965 divorzia da Madeleine Morgenstern. Nel corso della sua carriera
dirige le attrici più belle (e brave) del mondo, da Jeanne Moreau a Jacqueline
Bisset, Catherine Deneuve, Julie Christie, Françoise Dorléac, alle quali Truffaut
dedica spesso intere sequenze che sono veri e propri atti d’amore. Ma anche
signore sconosciute (L'uomo che amava le donne nel 1977) e donne di grandi,
assolute passioni come Isabelle Adjani (Adele H ‐ una storia d'amore, 1975) o
La signora della porta accanto (1981), interpretata da Fanny Ardant, l'attrice
che sposa nel 1981 e dalla quale nel 1983 avrà un'altra figlia, Josephine. Nello
stesso anno gira Finalmente domenica!, L'ultimo film prima della sua
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scomparsa, avvenuta il 21 ottobre 1984 per un tumore al cervello, in una
grigia domenica a soli 52 anni nell’ospedale di Neully.
Truffaut e il cinema
Francois Truffaut ufficialmente ha smesso di studiare a quattordici anni, ma
precocemente vede il mondo in funzione dei libri e del cinema, e, anziché
chiudersi nel nobile rifugio, lo utilizza quale serbatoio di soluzioni esistenziali.
E, spinto dallo spinoziano imperativo del capire, da lettore bulimico, si
trasforma in pugnace critico cinematografico e, rapidamente, in vulcanico,
limpido e inflessibile scrittore di cinema. Fino a che, per agire in totale
indipendenza, diviene produttore creando Le film de la Carrosse.
“Siccome sono un autodidatta che non si piace(..).andavo al cinema con un
senso di profonda esaltazione, mi attendevano due ore per contraddire la vita.
In fondo sono molto elementare, sono poco colto: e non ne vado per nulla
fiero. La mia unica fortuna è di avere un po’ il senso del cinema e di amarlo”.
In corrispondenza con la poetica di Georges Bernanos, basata sull’elogio dei
‘piccoli uomini’, uomini ‘donne di servizio’ dediti a un lavoro...che chiedono
notizie agli altri, che li aiutano..., che rispondono alle lettere, che hanno in
comune una cosa: si dimenticano facilmente di se stessi e si interessano più di
quel che fanno che di quel che sono e di quel che sembrano, Truffaut coltiva la
benevolenza. Non c’è dubbio che gli anni di vita dell’uomo che ha eletto il
cinema a personale ragione esistenziale, palpitino di atti d’amore, di
sensibilità priva di svenevolezze e di sdolcinature, di squisitezze intuitive. Ce lo
raccontano le numerose lettere, che assumono spessore visivo anche nei film,
scritte (Autoritratto Einaudi ‘89) per avvicinarsi agli altri, scambiare affettività,
e come esercizio etico per riordinare la sintassi esistenziale nonché il dialogo,
forma espressiva prediletta. Infatti risponde anche agli sconosciuti, suggerisce
soluzioni, s’impegna per aiutare. Ne emerge che tratta la vita con familiarità
confidente, che poi è il senso della sua arte, disseminata a ritmo frenetico e
nell’arco di trent’anni. Infatti i suoi film, in cui traspone l’immaginario come
salvezza, sono la migliore testimonianza del modo di osservare le persone e la
contraddittorietà sentimentale che le abita.
E’ un uomo travagliato che vince la propria battaglia contro la disperazione un
film di seguito all’altro. Filmando i sentimenti e la bellezza, attento che le
sceneggiature contengano i medium che reggono l’esistenza: l’amicizia, i libri,
l’amore e il denaro. Con il pudore che trasforma il gesto prosaico in prosa
poetica; con l’humour affettuoso, distante dal sarcasmo. Perché, malgrado la
forte ansietà di raccontare storie, si diverte avendo fatto propria la grande
lezione dell’amato maestro Jean Renoir, perché se sul set non ci si diverte, il
film rischia di fallire.
Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa
prolungare i giochi dell’infanzia, costruire un oggetto che è allo stesso tempo
un giocattolo inedito e un vaso dove si disporranno, come si trattasse di un