4
preterintenzionale con il principio di colpevolezza. Infatti,
dalla soluzione di questo problema dipende lo sviluppo
ulteriore di ogni altra problematica: “il valore
personalistico del principio di colpevolezza è, infatti, un
principio cardine di un sistema liberal-democratico, che
non può sacrificare la libertà individuale per un razionale
orientamento finalistico della sanzione penale
1
”. Quello
che in particolare si vuole qui segnalare è che il
controverso istituto del delitto preterintenzionale
sembrerebbe, ad una prima lettura, essere mantenuto del
tutto distinto, dal nostro legislatore, rispetto alla sfera
normativa della responsabilità oggettiva: “in virtù della
quale un determinato evento viene posto a carico
dell’autore in base al solo rapporto di causalità
materiale
2
”. La Relazione ministeriale al codice recita a
proposito del delitto preterintenzionale: “la conseguenza
più grave non è voluta dall’agente, ma gli è messa a carico
come conseguenza della sua azione od omissione.” Il nostro
1
GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2006, p. 509 .
2
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale. Bologna, 2007, p. 625.
5
codice penale, all’art. 43, 1° co. , stabilisce che “il delitto è
preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione
od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
grave di quello voluto dall’agente” . Sembra così delinearsi
un criterio tripartito di imputazione, al vertice del quale sta
il dolo, criterio soggettivo per eccellenza, la cui sussistenza
importa la punibilità per ogni delitto, cui seguono ulteriori
e distinti criteri di preterintenzione e colpa, la cui
punibilità è possibile per delitti che siano tipizzati come
punibili in presenza di tali coefficienti soggettivi. D’altro
canto, l’art. 42 c.p. differenzia espressamente l’istituto
della responsabilità preterintenzionale dall’universo della
responsabilità oggettiva: mentre il 2° co. colloca la
preterintenzione tra i criteri di imputazione su cui si
fondano le diverse tipologie di responsabilità colpevole, il
3° co. precisa che “la legge determina i casi nei quali
l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come
conseguenza della sua azione od omissione”, dove con
“altrimenti” ci si riferirebbe appunto alla responsabilità
6
oggettiva. È stato osservato, tuttavia, che solo due
sarebbero i coefficienti soggettivi fondamentali, il dolo e la
colpa, e che il delitto preterintenzionale non goda di
un’autonomia tale da potersi atteggiare ad ulteriore ed
indipendente criterio di imputazione: “ tra la volontà e la
mancanza di tale volontà, tertium non datur ”
3
.
L'enunciazione normativa offerta dall' art. 43, co. 2 c.p.
pone in evidenza il rapporto sussistente fra una condotta
umana tipica, un evento voluto ed un evento di maggiore
forza lesiva. Si tratta dunque di una fattispecie complessa
che si sceglie di ricostruire come la sovrapposizione di un
reato di base, caratterizzato da dolo, ed un successivo
evento non voluto, causalmente riconducibile all'azione o
all'omissione dell'agente, e di cui si stabilisce la
rimproverabilità a quest’ultimo.
La dottrina più risalente
4
, accolta da quella attualmente
maggioritaria
5
, facendo leva sul fatto che nella definizione
3
ANTOLISEI, Diritto penale. Parte generale. Milano, 2003, p. 392.
4
ZUCCALÁ, Il delitto preterintenzionale. Palermo, 1952, pp. 42-47.
7
legislativa manca una descrizione della partecipazione
psicologica del soggetto agente alla causazione dell'evento
più grave rispetto al fatto di reato di base voluto ed oggetto
di rappresentazione, ha ritenuto che per il verificarsi di una
fattispecie di natura preterintenzionale fosse sufficiente la
semplice sussistenza del nesso di causalità materiale. La
preterintenzione, secondo tale dottrina, sarebbe da
inquadrare nell’ambito dei casi di responsabilità oggettiva
mista o spuria: il dolo costituirebbe il titolo di imputazione
del reato-base, la responsabilità oggettiva quello per
l’evento più grave. La dottrina ha posto in evidenza come
l’illecito preterintenzionale in generale, e l’omicidio
preterintenzionale nello specifico, siano figure normative
edificate sul canone “qui in re illicita versatur tenetur
etiam pro casu”, per il quale “chi effettua una scelta
deliberata e consapevole di immettersi in una dimensione
criminosa, risponde di tutti gli effetti lesivi ulteriori che ne
5
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale. Bologna, 2007, pp. 625-
628.
8
derivano materialmente”
6
. La presunzione di prevedibilità
porta fatalmente ad una forma di responsabilità oggettiva,
anche se dogmaticamente i due concetti sono distinti”
7
.
L’istituto della responsabilità oggettiva, e di quelli ad esso
riconducibili, ha mostrato nel tempo la sua “permeabilità
rispetto al mutare delle esigenze politico-criminali”
8
.
1. Al criterio “qui in re illecita versatur etiam tenetur pro
casu” vengono attribuite origini canonistico-medievali,
essendo indicativo della tendenza a far coincidere il delitto
con il peccato: il reo-peccatore avrebbe dovuto quindi
rispondere di ogni evento che seguiva le sue azioni, pure se
non fosse stato strettamente collegato ad esse mediante un
nesso eziologico. In realtà tra gli studiosi non vi è accordo
sul punto se il presunto principio non costituisse in realtà
una eccezione o anomalia all’interno della stessa teoria
canonica della colpevolezza. È certo comunque che lo
6
LORETO, I reati contro la persona, in Trattato diretto da CADOPPI,
CANESTRARI, PAPA, 2006, p. 288.
7
BETTIOL, Diritto penale. Padova, 1986, pp. 522 ss.
8
FIANDACA-MUSCO, Op.cit., p. 626.
9
scopo politico-criminale perseguito da un tale principio
fosse di natura repressiva. Successivamente, con
l’affermarsi dell’Illuminismo giuridico, il versari in re
illicita verrà interpretato in una accezione più moderna,
adattata alla concezione individualistica del tempo. In
particolare, l’illuminismo tedesco, con Feuerbach, elaborò
la teoria della culpa dolo determinata, teoria che in realtà
non superava la concezione del versari in re illicita, poiché
finiva semplicemente per affermare il concetto di colpa
presunta
9
. L’illuminismo italiano, invece, la interpretò in
chiave di prevenzione generale, come fattore avente la
capacità di inibire la spinta criminosa. Secondo questa
concezione, il crimine è frutto di un attento calcolo e di una
scelta razionale, il potenziale delinquente soppesa costi e
benefici dell’azione criminale: egli rinuncerà al delitto tutte
le volte in cui la prospettiva di sofferenza connessa alla
pena superi l’attrattiva dei possibili vantaggi derivanti dal
fatto criminoso. La minaccia della pena agirebbe cioè da
9
FIANDACA, contributo in Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a
cura di M. Stile. Napoli, 1989, p. 29-59.
10
controspinta psicologica all’azione criminosa. Ed è da
evidenziare come ancora oggi alcuni Autori sostengano
l’esistenza di una funzione in termini generalpreventivi
della categoria preterintenzionale
10
. La suddetta concezione
di prevenzione generale, però, è da ritenere ampiamente
superata da parte della dottrina oggi maggioritaria
11
, in
quanto attribuirebbe, all’ “uomo medio”, una troppo elevata
conoscenza delle norme penali in materia di sanzioni.
Sostanzialmente infatti, secondo questa tesi, ogni individuo
che progetti un’azione criminosa dovrebbe essere in grado
di distinguere le diverse fattispecie di reato predisposte
dalla legge e le diverse pene, più o meno aspre, comminate:
da qui dedurrebbe la convenienza - o meno - della sua
eventuale azione criminosa. Tale convinzione, ad oggi, non
è stata supportata da nessuna indagine rigorosamente
scientifica che dimostri l’efficacia deterrente della
10
CANESTRARI, voce Preterintenzione in Digesto delle discipline penalistiche,
vol.IX. Torino, 2000, p. 703: “si giustificherebbe l’esistenza di una categoria
normativa- quella preterintenzionale- smarrendo una sua più plausibile funzione
in termini generalpreventivi.”
11
DOLCINI, La commisurazione della pena,Padova, 1979, pp. 252-254.
11
“minaccia” di una sanzione maggiore
12
; tutt’al più ciò
sarebbe ipotizzabile in relazione a particolari tipi di reati,
come quelli riguardanti la criminalità economica, ma questo
è da considerare un caso eccezionale, poiché il potenziale
agente sarebbe in grado di calcolare costi e benefici della
sua azione criminosa in quanto “homo eiusdem professionis
et condicionis”, e non in quanto “uomo medio”. Più di
recente invece, la tendenza a presumere il dolo o la colpa si
è manifestata sul piano processuale, nell’ottica di malintese
esigenze di economia probatoria
13
, in particolare in materia
di illeciti contravvenzionali. L’incertezza sulla
interpretazione del 4° comma dell’art. 42 c.p. per il quale
“nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria
azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa
o colposa” , ha dato vita ad un orientamento
giurisprudenziale secondo cui, per l’imputazione
dell’illecito contravvenzionale, era sufficiente la coscienza
e la volontà della condotta, derogando all’accertamento
12
FIANDACA- MUSCO, Ibidem.
13
GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2006, p. 508.
12
della colpevolezza. Si è dato luogo così a casi di c.d.
“responsabilità oggettiva occulta”, cioè ad ipotesi per le
quali pure è previsto dal dato legislativo l’indagine sulla
sussistenza del dolo o della colpa, ma che in sede
processuale vengono arbitrariamente “degradate” da forme
di responsabilità colpevole a forme di responsabilità
obiettiva
14
. Ma questa concezione, sviluppatasi subito dopo
l’entrata in vigore del codice, è stata superata proprio
dall’obiezione che si trattasse di un’ipotesi di
responsabilità obiettiva “mascherata”. Invero oggi è
pacificamente ammesso dalla dottrina che l’art. 42 c.p. non
escluda l’accertamento della colpevolezza, ma che
piuttosto stabilisca la sufficienza della sola colpa, affinché
il soggetto possa rispondere dell’illecito contravvenzionale;
un’interpretazione diversa andrebbe contro la volontà del
legislatore. Alla luce dell’attuale nostra Costituzione ed in
particolare dell’art. 27, 1° co. Cost., come anticipato,
numerosi sono i dubbi sull’opportunità di mantenere
14
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale. Bologna, 2007, p. 627.
13
nell’ordinamento figure come quella della responsabilità
oggettiva, ed in genere tutte le ipotesi ad essa analoghe.
2. Non si può non tenere conto, in proposito,
dell’orientamento ormai pacificamente affermato della
Corte Costituzionale riguardo alla responsabilità obiettiva.
L’evoluzione della Consulta sì è sviluppata con gradualità:
nelle prime sentenze, che temporalmente si collocano tra il
periodo post-costituzionale fino al 1966 circa, si ravvisa
ancora una interpretazione restrittiva dell’art. 27 co. 1
Cost., per cui esso si sarebbe limitato ad affermare il
divieto per responsabilità altrui: “L’art. 27 co. 1,
affermando il carattere personale della responsabilità
penale, sancisce il divieto di responsabilità per fatto altrui
e non riguarda le ipotesi di responsabilità obiettiva”
15
. In
certi casi la questione è stata elusa cercando di affermare la
estraneità della responsabilità oggettiva rispetto alla norma
impugnata: ad esempio nella sentenza n. 21/1971 si è
15
Corte Costituzionale, 11 maggio 1966, sentenza n. 42, in Giurisprudenza
Costituzionale, 1966, I, pp. 723-737.
14
escluso che nella disposizione sul delitto di rissa, ex art.
588 co. 2 c.p., si ravvisa una figura della responsabilità
oggettiva, in quanto “il soggetto che partecipi
volontariamente ad una rissa non ignora di associarsi ad
una condotta suscettibile di gravi sviluppi per l’incolumità
personale
16
” . La decisione che più si è avvicinata alle
recenti ed importanti sentenze, è la n. 259/1976
17
, con la
quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 116 della legge doganale del 1940 e
dell’art. 301 del d.p.r. n. 43/1973, per contrasto con l’art.
27 Cost., sul rilievo per cui gli stessi “prescindono del tutto
dalla valutazione dell’elemento psicologico nella condotta
del soggetto e comminano la confisca delle cose destinate a
commettere il reato senza tenere conto della loro
appartenenza (omissis). Né può appagare la responsabilità
obiettiva che, ingiustamente posta a suo carico ha dato
causa a provvedimento di confisca di cose che, al
16
Corte Costituzionale 17 febbraio 1971 , sentenza n. 21, in Giurisprudenza
Costituzionale, 1971, p. 132-135.
17
Corte Cost. 29 dicembre 1976, sentenza n. 259, in Giurisprudenza
costituzionale, 1976, II. Parte I, p. 1917-1920.
15
proprietario sottratte, hanno poi formato oggetto di
violazione di norme generali. Infine, sono intervenute le
“storiche” sentenze n. 364/1988 e n. 1085/1988, dalle quali
è ormai imprescindibile lo studio del diritto penale
odierno. La prima di esse ha dichiarato incostituzionale
l’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude
dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale
l’ignoranza inevitabile: in tale sentenza la Consulta, anche
se sotto forma di obiter dicta, afferma: “ove non si ritenga
di restringere la c.d. responsabilità oggettiva "pura" alle
sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal
legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo,
va, di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi
criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi
della fattispecie che non possono non essere "coperti"
almeno dalla colpa dell'agente perchè sia rispettato da
parte del disposto di cui all'art. 27, primo comma, Cost.
relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto.” La
sentenza n. 1085 invece riguarda il furto d’uso, ed ha
16
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 626, 1° co.,
n. 1, c.p. , nella parte in cui non estende la disciplina ivi
prevista alla mancata restituzione della cosa sottratta,
dovuta a caso fortuito o forza maggiore. In essa la Corte è
ancora più esplicita, poiché dichiara: “Perché l'art. 27,
primo comma, Cost, sia pienamente rispettato e la
responsabilità penale sia autenticamente personale, è
indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che
concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie
siano soggettivamente collegati all'agente (siano, cioè,
investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile
che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso
agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente
disapprovati.”. Sempre nella stessa sentenza la Corte
ricollega il comma 1 dell’art. 27 Cost. con il comma 3, per
cui “ Non avrebbe senso la 'rieducazione' di chi, non
essendo almeno 'in colpa' (rispetto al fatto) non ha, certo,
'bisogno' di essere “rieducato”. Questi sono dunque i
principi cui, in materia, dovrebbero attenersi i giudici,