fronte antifascista nell’operare verso il MSI una ribadita
discriminazione. Più il MSI veniva considerato come forza
antisistema, quindi delegittimato e ghettizzato, più si radicalizzava
nella sua ideologia come risposta che ricompattava e rivitalizzava
l’organizzazione. Le sue idee politiche rimanevano schiacciate tutte
sul ventennio fascista. La decisione di dar vita al MSI infatti aveva
avuto origine dalla consapevolezza di quegli elementi più lungimiranti
del neofascismo italiano della necessità di riunire ed organizzare tutte
quelle forze che subito dopo la guerra avevano manifestato, per mezzo
di azioni terroristiche o “bravate folkloristiche” come pure attraverso
un’instancabile attività giornalistica, il loro rifiuto verso un nuovo
sistema politico e la nuova classe dirigente che si era insediata al
potere con il crollo di Mussolini. Pertanto quando nacque il MSI, vi
confluirono elementi molto diversi fra loro per esperienze, obiettivi e
metodi, che avevano in comune il rifiuto dei partiti antifascisti e
l’esaltazione del recente passato dell’Italia, ma con l’intento ognuno di
plasmare il giovane partito secondo il proprio particolare programma.
Il primo capitolo di questa tesi dunque è dedicato alle vicende del MSI
dalla nascita al 1956, con particolare attenzione alla sua collocazione
nel sistema partitico e al dibattito interno che si svolse nei congressi
nazionali fra le tre correnti: quella rivoluzionaria dei socializzatori
reduci di Salò; quella moderata corporativista e quella tradizionalista -
spiritualista di Julius Evola dal primo congresso che si svolse a Napoli
nel 1948 al quinto che si tenne a Milano nel 1956 dove la conflittualità
del dibattito fra le componenti raggiunse il culmine. La corrente
radicale dei socializzatori e quella moderata infatti si diedero battaglia
aperta per il controllo del partito e conclusero il congresso milanese
dividendosi a metà i consensi, mentre gli spiritualisti di Ordine Nuovo
decisero di abbandonare il partito.
Un partito dunque «bicefalo - come lo definisce Marco Tarchi - che al
proprio interno continuava a celebrare il richiamo diretto al fascismo,
con tutta la svalutazione dei principi democratici che ovviamente ne
derivava, mentre all’esterno tendeva ad un sempre maggiore
inserimento nell’area della rispettabilità» democratica.
I successivi tre capitoli sono dedicati alla politica estera analizzando le
posizioni del MSI attraverso l’analisi sistematica degli atti
parlamentari e dei giornali di area.
La polemica sulla politica estera italiana divenne il terreno privilegiato
dal MSI per smontare il paradigma dell’antifascismo posto alla base
della nascente Repubblica e della conseguente stabile discriminazione
del partito. Per il MSI la guerra, la sconfitta e la pace non erano stati
accadimenti superati né tantomeno accettati, furono al contrario
motivi di vivacissime requisitorie per ribaltare dalle fondamenta i
giudizi e le posizioni dei loro avversari politici. I punti fermi della
requisitoria missina, riproposti ogniqualvolta l’attualità offriva
l’occasione per ridiscutere della pace imposta erano: l’umiliazione
subita con la spoliazione delle colonie, il trattamento riservato in tema
di armamenti e il mancato rispetto dell’italianità di Trieste. Dei tre il
più caratterizzante era il primo, perché rivelatore di una concezione
della politica estera di piena identificazione con il fascismo e quindi in
totale rotta di collisione con l’orientamento dei partiti democratici. Il
secondo capitolo pertanto è dedicato all’opposizione del MSI in
Parlamento al Trattato di pace, in particolare alla perdita delle colonie
italiane in Africa; mentre il terzo capitolo è dedicato al Patto
Atlantico.
La decisione sull’ingresso dell’Italia nell’Alleanza atlantica fu presa
dal Governo poco più di due anni dalla nascita del Movimento
Sociale: la questione atlantica fu così al centro di questa fase iniziale
della storia del MSI ed ebbe un ruolo di primo piano nella lotta che si
sarebbe svolta tra le diverse correnti per il controllo del partito.
Naturalmente i reduci del passato regime sostenevano posizioni che
rispecchiavano le caratteristiche della politica estera fascista, come un
acceso nazionalismo, una visione prettamente utilitaristica delle
alleanze e una violenta repulsione per le nazioni anglosassoni con la
conseguenza in un primo tempo di una netta opposizione all’ingresso
dell’Italia nell’Alleanza. L’opposizione al Patto tuttavia era una
pregiudiziale solo per la sinistra interna e per il gruppo evoliano,
mentre per la corrente moderata non esistevano motivi di fondo che
obbligassero i missini a non aderire.
Il quarto capitolo infine è dedicato alla questione di Trieste.
La questione di Trieste funse innanzi tutto da volano di partecipazione
e di mobilitazione sul terreno «di un sentimento politico elementare,
ben più ampiamente condiviso dei postulati ideologici del passato
regime». Trieste permise quindi al MSI di realizzare nella società
civile quello che ad esso era rigorosamente precluso nella società
politica. I missini infatti indossarono i panni di italiani fortemente
impegnati a difendere la nobile causa della Patria vilipesa e dei
profughi giuliani e dalmati vittime dei soprusi del governo jugoslavo
nonché della «insipienza» del governo italiano. Per Trieste il MSI
mise in campo il destino dell’Occidente incalzato dall’avanzata
comunista, attribuendosi il ruolo di sentinella posta a guardia del
confine e operando una forte saldatura fra sentimento nazionale e
anticomunismo.
CAPITOLO PRIMO
PROFILO STORICO DEL MSI DAL CONGRESSO DI NAPOLI
AL CONGRESSO DI MILANO.
Il Movimento Sociale Italiano nacque dopo una serie di riunioni ed
incontri clandestini «il 26 dicembre 1946 a Roma, nell’ufficio di
Arturo Michelini, per iniziativa di un gruppo molto ristretto di
persone»
1
tra le quali: Giorgio Almirante, capo di Gabinetto del
Ministro della Cultura Popolare Fernando Mezzasoma nella RSI;
2
Pino Romualdi, vice segretario del Partito Fascista Repubblicano
(PFR), condannato a morte per le rappresaglie nell’oltretorrente a
Parma; Cesco Giulio Baghino, ufficiale della Decima e direttore fino
al 27 aprile 1945 de “Il Veneto” di Padova, condannato a morte in
contumacia; Giovanni Tonelli; Giorgio Bacchi; Mario Cassiano e
Biagio Pace che presiedeva la riunione.
3
Le riunioni erano state necessariamente segrete in quanto la maggior
parte di loro era ancora imboscata sotto falso nome, ricercati come
criminali di guerra o sospettati di ricostruzione del PNF; e poi a quei
tempi gli ex fascisti, soprattutto al Nord, se osavano mettersi in
mostra, rischiavano di essere uccisi. «Nel Nord cadevano in tanti. -
scrive Caprettini - Ma Roma era diversa !
». A Roma c’era stata
pochissima Resistenza, e, c’era il Vaticano con le sue proprietà
immobiliari dotate tutte di extraterritorialità. E fu qui che cominciò la
prima riorganizzazione dei nostalgici, anzi Caprettini afferma che «il
neofascismo nacque nei conventi romani, tra il ’45 e il ’46, dove
parecchi rifugiati, sotto falso nome, cominciarono a tessere il filo che
portò alla creazione del MSI».
4
Erano dunque dei veri e propri
professionisti della politica a prendere in mano il movimento
neofascista coagulando intorno alla loro organizzazione
5
la galassia di
gruppi e movimenti
6
che, insieme alla proliferazione di giornali e
riviste di area, in particolare “Rivolta Ideale”, sorsero spontaneamente
in varie parti d’Italia dopo il crollo della Repubblica Sociale Italiana e
la morte del Duce.
7
E nella primavera del ’46, con il referendum istituzionale alle porte, si
formò per primo il “Senato”, una sorta di summit clandestino che
comprese i più prestigiosi sostenitori della ripresa politica del
neofascismo, alla cui guida si posero particolarmente Romualdi e
Michelini.
8
Vi era la consapevolezza che quel voto poteva divenire un
grimaldello per rientrare in gioco. Sapevano che per i partiti del CNL
«la posta in ballo era alta e il risultato incerto». Chi avrebbe rifiutato
di trattare con gli ex fascisti che assicuravano di controllare un’ingente
massa di preferenze e dei quali avevano ancora paura a causa di quelle
bande armate che affermavano di avere alle spalle? E poi, i reduci di
Salò avevano un altro più importante obiettivo da raggiunge:
l’amnistia.
9
Si vide così Romualdi dialogare con alcuni rappresentanti della DC e
del PLI, i “sinistrosi” Concetto Pettinato e Giorgio Pini parlare con i
comunisti ed Ernesto Massi trattare con Umberto II, il quale riferì che
avrebbe concesso l’amnistia, nel caso avesse prevalso la causa
monarchica. In questi incontri gli esponenti neofascisti lasciarono
intendere che in cambio di una rapida ed ampia amnistia, avrebbero
garantito sia allo schieramento monarchico che a quello repubblicano
l’accettazione del verdetto delle urne. La neutralità in cambio del
perdono.
10
E il 28 giugno 1946 sopraggiunse l’amnistia, firmata da Togliatti,
Guardasigilli nel primo governo De Gasperi. Senza dubbio il
referendum istituzionale del 2 giugno 1946 aveva offerto un primo
accertamento delle opinioni del mondo fascista. I neofascisti tuttavia,
erano divisi e non indifferenti, come in realtà sostenevano,
sull’argomento istituzionale. I reduci di Salò non volevano sentir
parlare di monarchia e soprattutto di casa Savoia e perciò davano il
loro sostegno alla Repubblica; tra i conservatori e i nazionalisti
prevaleva invece la posizione anticomunista e perciò caldeggiavano
per la causa monarchica. Allo stesso modo, i giornali di area
spaziavano da posizioni di assoluto agnosticismo all’appoggio
monarchico in chiave anticomunista e, al sostegno repubblicano
contro i traditori “venticinqueluglisti”.
In ogni modo questa amnistia, data in pegno al comportamento
agnostico del mondo nostalgico e che rifletteva allora il diffuso timore
di un alto potenziale sovversivo e antisistemico dell’estrema destra,
aprì effettivamente una nuova fase della politica neofascista.
11
La
«componente più direttamente legata all’ethos guerriero salotino,
animata da una forte carica anti-istituzionale anti-sistemica»,
12
fu
quella che ebbe un peso maggiore nella nascita del nuovo movimento;
tanto che i primi due documenti ufficiali sottoscritti dal MSI il 29
dicembre 1946, quali “L’appello agli Italiani” e gli “Orientamenti
programmatici”, e che costituirono l’atto di nascita del movimento,
portavano i segni di tale influenza.
13
In essi si riscontrava una volontà
di riscatto e di rivincita dopo quella che si riteneva fondamentalmente
«una sconfitta figlia del tradimento».
Ne “L’appello agli Italiani” i missini chiamarono «a raccolta tutti
coloro che, al di là delle diverse origini e particolari appartenenze
politiche, [intendevano] superare ogni tentazione di rancore e di
rivincita per riconoscersi solidamente servitori probi e fattivi della
ricostruzione della Patria»; in polemica con i socialcomunisti
filosovietici, manifestarono l’idea che «all’infuori di coloro che la
Patria nega[vano], o ne subordina[vano] la missione e i legittimi
interessi agli interessi e alla missione di qualunque comunità straniera,
ogni altra esclusione intesa a dividere i cittadini fra reprobi ed eletti
[doveva] essere superata» e «perciò» infine, «a fondamento delle
nuove fortune della Patria, [doveva] porsi la restaurazione di una
comunione ideale tra i Morti e i Vivi . . . ».
14
I 10 “Orientamenti programmatici” redatti nella prima stesura da Pino
Romualdi e da Ezio Maria Gray, ma poi rivisti e rielaborati dall’intero
gruppo dirigente, furono fonte di accesi contrasti tanto che, in attesa
che le diverse istanze trovassero un equilibrio all’interno del partito,
preferirono rimanere nel generico. Si limitarono a parlare di «unità e
indipendenza dell’Italia», di una «politica estera che [doveva] essere
ispirata solo da interessi concreti e contingenti della Nazione,
auspicando la formazione di una unione europea su piede di parità e di
giustizia», e di «una autorità dello Stato» da ristabilire. E ancora, si
invitò a lasciar perdere «le leggi eccezionali» e a «garantire assoluta
indipendenza della magistratura dal potere politico» nonché, «entro i
limiti del costume morale», libertà di associazione e di stampa. Si
chiese poi che la religione di stato fosse quella cattolica apostolica
romana, lasciando che i rapporti tra Stato e Vaticano restassero
stabiliti dai Patti Lateranensi del 1929. Si invocò «il riconoscimento
del diritto al lavoro», una «compartecipazione dei lavoratori alla
gestione delle aziende e al riparto degli utili» e una «collaborazione tra
i fattori della produzione»; infine «la possibilità ad ogni cittadino, che
ne [avesse] la capacità, di accedere a qualsiasi ordine di studi, a spese
dello Stato»; «piani organici per potenziare le attività fondamentali del
Paese, con particolare riguardo a quelle del Mezzogiorno e delle Isole
indispensabili per l’autonomia economica della Nazione».
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Al suo sorgere l’impianto ideologico del MSI o, per meglio dire la sua
«dimensione antropologico-culturale» fu legata principalmente
all’esperienza di Salò più che a quella del fascismo-regime. La cultura
politica del Movimento Sociale infatti si fondava su un intreccio di
argomenti spiritualisti e socialisteggianti, di volontarismo e di
pessimismo storico. E fu certamente dal fascismo crepuscolare di Salò
che nacque «quell’anticapitalismo etico, a-classista e anticapitalista»
16
che segnò fortemente l’identità del partito alle origini. I dirigenti
infatti avevano più volte richiamato nei loro discorsi, i principi
affermati nel Congresso di Verona (novembre 1943), in cui fu
approvato un manifesto programmatico di sinistra.
17
Tuttavia col
passare del tempo, la fisionomia del MSI andò gradualmente
definendosi come quella di un partito che intendeva «essere il
continuatore di tutto il fascismo»,
18
che mirava cioè, a raccogliere i
consensi degli ex fascisti, i quali non intendevano “rinnegare” la loro
precedente esperienza, ma non volevano neppure procedere ad una
restaurazione del vecchio regime.
19
Infatti la formula che trovò più
credito nel MSI fu «non restaurare e non rinnegare».
20
Il reclutamento
al partito era rivolto selettivamente agli epurati e ai reduci dei campi
di prigionia dei “non collaboratori”, cioè a coloro che avevano
mantenuto un atteggiamento di fedeltà al fascismo dopo l’otto
settembre. Tra le indegnità che impedivano l’adesione al partito era
previsto esplicitamente che non erano ammessi «coloro che [avevano]
tradito la Patria venendo meno ai loro doveri di cittadini e di soldati
per perseguire interessi personali al servizio dello straniero (art. 4b
statuto 1948)».
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All’interno del MSI immediatamente si delinearono
tre correnti di cui due molto forti: da un lato (sinistra), i socializzatori
impersonati dal gruppo dirigente almirantiano e dai reduci della RSI,
sostenuti dal giornale ufficioso del partito “Rivolta Ideale” e dal
“Meridiano d’Italia” di Milano. Dall’altro, vi era la componente più
moderata “corporativista” espressione dei notabili del fascismo-
regime guidati dal gruppo di Michelini ed estranei all’esperienza di
Salò.
22
Entrambe le correnti seguivano una linea di «politica
economica informata all’interesse nazionale, dunque omogenea e
armonica, che si preoccupava in primo luogo di non essere soggetta
alle distorsioni dei conflitti di classe».
23
Col ritorno al modello
collaborativo del corporativismo, dove il lavoro era finalizzato al bene
comune, entrambe le correnti miravano a fondare una nuova civiltà.
Questa civiltà trovava sostanza e fondamento nel fascismo, ma in
questo caso se la corrente moderata missina non sentiva il bisogno di
aggiungere alcun distinguo, i socializzatori tenevano a specificare
invece che, «della concreta esperienza storica fascista la parentesi di
Salò diventava sostanza, mentre i ventuno anni di regime restavano
solo un tentativo ostacolato dai nemici storici del fascismo,
fiancheggiatori per necessità».
24
Ed era questo il motivo che aveva
spinto i “sinistrosi” che ruotavano intorno a “Rivolta Ideale”, prima
che il giornale cambiasse atteggiamento, «a non rivendicare alcun
antagonismo rispetto ai socialisti e ai comunisti».
25
E proprio dalle
colonne di “Rivolta Ideale” i “repubblichini” rivendicavano la loro
posizione di sinistra con espressioni filosocialiste per un “socialismo
nazionale”, per una partecipazione dei lavoratori alla gestione delle
imprese e per uno “Stato nazionale del lavoro”. In un articolo infatti
del 3 luglio 1947, intitolato “Sinistra nazionale”, si affermava che le
idee del MSI si collocavano «nello spazio divisorio che [esisteva] tra
il blocco socialcomunista e la DC»; e ritenevano che i loro referenti
politici privilegiati dovessero essere i socialisti e, dopo la scissione di
Palazzo Barberini, i socialdemocratici.
26
In un altro articolo del 7
agosto 1947, intitolato “MSI, NOI, il socialismo e il fascismo. Lettera
aperta al direttore dell’Avanti”, i dirigenti del MSI, reclamando un
posto all’interno della sinistra e, definendosi “socialisti nazionali”,
dichiaravano di non essere “nemici” del partito di Nenni, ma di
«sentirsi in sostanza, portatori di una idea di rinnovamento sociale,
economico e politico che non [aveva] nulla a che fare con la nostalgia
di restaurazione e di reazione da [loro] bollate sotto la qualifica di
neofasciste».
27
Questi articoli in realtà descrivevano l’atteggiamento
provocatorio della sinistra missina, la quale voleva dimostrare che