ii
(«qualcosa e insieme nulla») e la rinuncia alla possibilità di una storicizzazione di
questa sostanza, la teorizzazione, infine, della necessità scientifica ed esistenziale di
una subordinazione dialettica al nulla avrebbe, secondo Jesi, caratterizzato il pensiero
dei tre mitologi in senso prettamente nichilista, al di là delle posizioni ufficialmente e
genericamente umaniste. Queste ultime sarebbero state soltanto il tentativo di
mistificare la fascinazione mitica. Ecco entrare in campo il concetto – tanto avversato
dal mitologo ungherese – di «mascheratura», la quale altro non sarebbe che il tentativo
di mistificare l’ideologia borghese e decadente in cui erano esse stesse imprigionate.
Ideologia che nella sua forma populista e distorta avrebbe poi legittimato la presa di
potere e le aberrazioni delle destre europee novecentesche.
2. Le prime pagine del saggio Cesare Pavese, mito e scienza del mito
vengono spese da Jesi a illustrare come la paternità della scuola etnologica tedesca sia
attribuibile quasi in toto alle speculazioni simboliche che, dai primi romantici tedeschi,
conducono attraverso Creuzer, Klages, e l’esoterismo di George, fino a Rainer Maria
Rilke e Leo Frobenius (quest’ultimo vero e proprio anello di congiunzione tra la
disciplina estetica tedesca e la scuola etnologica mitteleuropea). Pavese si sarebbe
imbattuto e riconosciuto in questa tradizione proprio tramite l’opera etnologica di
autori come Frobenius, attraverso gli studi mitologici di Károly Kerényi e quelli
psicanalitici di Carl Jung, nonché attraverso i romanzi di Thomas Mann, considerato
da Pavese il più grande narratore contemporaneo. Determinante fu appunto l’incontro
con gli etnologi tedeschi di cui, sempre secondo Jesi, Pavese non sarebbe riuscito a
iii
decifrare esaurientamente le connotazioni ideologiche e le pesanti ascendenze
culturali.
Accostandosi ai testi etnologici Pavese acquisì concezioni che egli forse credette
garantite dalla oggettività della ricerca scientifica ma che in realtà erano nate nel riflesso di
quelle elaboratesi nell’ambito della poesia germanica della fine del secolo
4
.
L’incontro con gli etnologi tedeschi, certo, fu determinante. Ma se
quell’incontro fu fruttuoso lo si deve alla storia della formazione culturale di Pavese,
che quell’incontro precede e determina. Storia che Furio Jesi cassa completamente
perché complicherebbe, o perlomeno sfumerebbe, la figura di Cesare Pavese come
seguace inconsapevole, nemmeno troppo originale, di quella corrente culturale
sotterranea, esoterica e irrazionale, definita attraverso i versi di Stefan George, «das
geheimes Deutschland», «la Germania Segreta».
Ma Cesare Pavese non era un filosofo. La sua è una teoria composita e
frammentaria cresciuta organicamente nel corso degli anni; una teoria che si nutriva
tanto di suggestioni, di occasioni e di intuizioni quanto delle letture più disparate
sull’argomento. Lo stesso Kerényi in una lettera indirizzata proprio a Jesi, riferendosi
al catalogo della «Collana viola» definì «eclettico» l’approccio pavesiano al mito
(«aveva perfino fatto comparire a fianco a fianco Frazer e Frobenius»
5
).
Abbiamo già rilevato come la concezione demonica del reale fosse
esplicitamente intesa o almeno presupposta da Pavese già all’epoca delle introduzioni
alla prima traduzione di Benito Cereno (1940) ed alla seconda edizione di Moby Dick
4
Furio Jesi, Pavese, il mito e la scienza del mito, cit., p. 135.
5
Lettera di Károly Kerényi a Furio Jesi del 5 Ottobre 1964, in Kàroly Kerényi-Furio Jesi, Demone e
mito. Carteggio (1964-1968), a cura di Magda Kerényi e Andrea Cavalletti, Macerata, Quodlibet, 1999.
iv
(1941). Ancora prima, il trascendentalismo americano fu l’incontro che seppe dare
nuova linfa alle esigenze mistiche dell’ingenuo dannunzianesimo di maniera dell’età
adolescenziale, spogliandolo, con il vitalismo di Walt Whitman, di tutta l’Arcadia,
dello psicologismo sentimentale, e dell’aura decadente che permeava i suoi primi
esperimenti letterari. Ma questa concezione demonica del reale non è una semplice
contingenza dovuta all'episodico incontro con autori come Withman e Melville.
Pavese diviene presto consapevole di come tutta la letteratura anglo-americana possa
essere spiegata alla luce della ricerca ironica di una misteriosa realtà sottesa alle parole
e alle cose:
Quella tua scoperta del '38, che il messaggio degli americani sia il senso di una
misteriosa realtà sotto le parole (prefazione ad Alice Toklas) è vera, ma va allargata all'età
di Emerson, Hawtorne e Melville e Whitman. tu l'attribuivi allora ad Anderson, Stein, ecc.
Ciò mostra come sia autentico il revival 1916, come abbia ripreso il grande motivo
nazionale. Nuovo senso della democrazia americana rispetto all'illuminismo. L'individuo
liberato scopre la realtà cosmica – una corrispondenza tra le cose e lo spirito, un gioco di
simboli che trasfigurano le cose quotidiane e dànno loro un valore e un significato,
altrimenti il mondo sarebbe ischeletrito
6
.
Appare ben chiaro anche come l'origine del neorealismo simbolico di Pavese
non sia da cercare tanto nell'ermetismo decadente di matrice continentale, quanto nella
sua variante americana il cui senso dimora proprio nello scarto, culturale e politico, tra
la democrazia americana (habitat dell'«individuo liberato») e illuminismo. È ancora
d’oltreoceano che venne sicuramente mutuato anche l’argomento più meditato, forse il
tema di Pavese per eccellenza: la wilderness, il selvatico.
6
Nota del 8 gennaio 1949, in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 328.
v
L’assidua frequentazione del simbolismo francese, poi, durante l'«esplosione
Baudeleriana» – secondo la definizione che Pavese stesso dà nel Mestiere di vivere
7
–
si aggiunge alle influenze eterogenee che avrebbero concorso negli anni alla
formazione del concetto di simbolo nella poetica mitica
8
.
Se inoltre pensiamo che la prima definizione di simbolico viene stesa nel 1940
(nel saggio A proposito di certe poesie non ancora scritte) sulla scorta del testo
dantesco, che la prima volta che la parola «mito» compare nell’accezione che poi
ritroveremo nei saggi (nella lettera alla Pivano del 1942) è ispirata dalla lettura della
Georgiche di Virgilio, la «Germania segreta» ci appare soltanto una parte del
paesaggio composito delle influenze pavesiane.
L’interesse antropologico per altro scaturì dalla frequentazione con poeti e
scrittori d'oltremanica, sicuramente dall'incontro con Il ramo d’oro di James Frazer, il
primo etnologo letto da Pavese con entusiasmo già nel 1933
9
: autore la cui antologia
mitologica diverrà la principale base argomentativa per la scrittura di Totem e tabù da
parte di Sigmund Freud. E proprio il rapporto di Pavese con la psicanalisi, per quanto
controverso (Pavese non accetta la deresponsabilizzazione etica implicita nella dottrina
psicanalitica)
10
, rimane una presenza costante (per quanto mai ostentata, anzi spesso e
7
Nota del 4 luglio, 1943, Ibidem, p. 233.
8
Elio Franzini-Maddalena Mazzocut Mis, Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, Milano, Mondadori,
2008.
9
Nota del 21 luglio 1946, in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 291.
10
«Ecco: quel che non ti va nella psicanalisi è l'evidente tendenza a trasformare in malattie le colpe.
Capirei trasformarle in virtù, in modi di essere energici, ma no - si scopre il trauma che fa sì che hai paura, per
esempio, dei ranocchi e allora aspetti la guarigione. Balle!
Siamo chiari : non ho niente contro il formulario psicanalitico – ha arricchito la vita interiore – ce l'ho
contro le facce di bronzo che se ne servono per scusare la loro pigra svogliatezza e credono che sentirsi dire che
inculare i ragazzini è un risultato di una loro esperienza del cavatappi, sia una giustificazione. Nossignore. Non
bisogna inculare i ragazzini». (Nota del 17 aprile 1946, in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 286)
vi
volentieri sottointesa e dissimulata) nel diario e nei saggi. Giuditta Isotti Rosowsky ha
dimostrato che è la lettura freudiana a fungere da originario sottotesto psicanalitico già
all’altezza dei primi anni ’40. Sarebbe un fraintendimento abbastanza comune
sostenere la discendenza della teorie di Pavese direttamente dal pensiero junghiano; le
aderenza teoriche sarebbero frutto piuttosto di un successivo slittamento dovuto al
contatto con gli etnologi tedeschi
11
. La differenza non è di poco conto, non avendo mai
accettato Freud il concetto di archetipo ed essendosi i due spesso scontrati sulle
definizione di simbolo.
3. Se le osservazioni di Jesi possono essere estremamente utili ad illuminare
i «pensieri segreti» della cultura nichilista occidentale e i suoi influssi immediati, più o
meno consapevoli su tutto l’umanesimo borghese novecentesco europeo, ci paiono
invece considerazioni piuttosto forzate nel momento in cui tentano di sistemare
personalità complesse, ambigue e contraddittorie come quella di Pavese schierandole
nella teorìa degli adepti al culto infero della religio mortis. Come se già in queste due
parole non si nascondessero infinite questioni, differenziazioni, definizioni
insoddisfacenti e precisazioni necessarie. Il saggio di Jesi, cercando di dimostrare
quanto la teoria mitica di Pavese sia intrinsecamente permeata dal pensiero nichilista,
ne vuole condannare tutta una visione del mondo implicita, all’interno della quale, il
11
«Penso che in Feria d’agosto siano principalmente gli Essais di Freud a stimolare la riflessione dello
scrittore; per converso, alla fine della sua vita, la presenza freudiana si diluisce e si mescola ai suggerimenti di
Vico e degli antropologi. Di qui un effetto di confusione che ha portato alcuni critici a mettere in primo piano la
filosofia junghiana». (Giuditta Isotti Rosowsky, Pavese lettore di Freud. Interpretazione di un tragitto, Palermo,
Sellerio, 1989, p. 56.)
vii
gesto estremo dello scrittore sarebbe stata soltanto la coerente logica conseguenza.
Lungi dal contestare l’importanza e la pregnanza scientifica del lavoro di Jesi, vorremo
cercare di evidenziare alcune omissioni e alcune ambiguità che, una volta rilevate,
impedirebbero di catalogare facilmente l’opera di Pavese. Non pretendiamo di
confutare le sporgenze contraddittorie della tesi di Jesi per ridurre a un nuovo comune
denominatore i «pensieri segreti» di Pavese; al contrario vorremmo che quelle
sporgenze divenissero i punti d’appoggio per la negazione di un’unità teorica esterna
che non sia quella, tanto trasparente quanto evanescente, dell’interminabile sforzo
umanistico di un Sisifo moderno. Cercheremo piuttosto di far emergere quella tensione
conoscitiva che Massimo Mila sull’«Unità» del 22 ottobre 1952, all’indomani della
pubblicazione del Mestiere di vivere, ebbe a definire come «preziosa lezione di
empirismo e di concretezza […] per cui la realtà comincia e finisce nell’uomo»
12
.
Minare insomma una lettura che, più che restituire la complessità dell’autore, ne vuole
certificare la genuinità. Sembra infatti che nell’articolo di Jesi, si possa riconoscere la
stessa dinamica di delegittimazione, che si sviluppò, come abbiamo già visto, nei primi
anni cinquanta in occasione dei contrasti tra de Martino e Pavese. Ovvero, sembra che
Cesare Pavese, nei momenti di fermento politico, si presti spesso e volentieri a
divenire il bersaglio indispensabile di un fronte interno alla cultura italiana e che,
attraverso la sua demonizzazione – o meglio, attraverso la sistematica svalorizzazione
della pregnanza poetica e intellettuale – si cerchino di esorcizzare i fantasmi rimossi di
una cultura impegnata a sgombrare il campo dai compromessi ideologici, dalle
12
Masssimo Mila, Invito all'umanesimo, da «l'Unità», 22 ottobre 1952.
viii
frammentazioni eterodosse, dai personalismi individualistici che la battaglia non
poteva permettersi.
D’altra parte, fantasmi rimossi e pensieri – più o meno – segreti (le cosiddette
«mascherature»), fanno parte del percorso esistenziale e spirituale di qualsiasi
intellettuale. È nello stretto spazio dei vincoli, interni ed esterni, che l’atto creativo
trova la sua necessità. Sarebbe curioso confrontare le tante pagine spese da Furio Jesi a
postulare la non indipendenza, l’impossibilità di un’autonomia del mito – idea che
sarebbe patrimonio della cultura della destra "tradizionale" – o le pagine nelle quali si
dimostra la filiazione ugualmente dannata del «mito che afferra» (di memoria e
tradizione nazi-fascista), e della sua mascheratura "umanistica" ugualmente
compromessa: quel «mito dell’uomo» che venne teorizzato, appunto, da Kerényi.
Sarebbe curioso – dicevamo – confrontare quelle pagine con una frase appartenente al
carteggio di Furio Jesi, allora ventiquatrenne, con il maestro, in cui parlando del
nazionalsocialismo scrive:
Se analizzo il più freddamente possibile la mia posizione vi ritrovo una specie di
fatalismo […]. È giusto che Hitler e i suoi complici siano stati puniti: altrimenti la vita non
avrebbe potuto sopravvivere. Ma credo di riconoscere nell’opera di Hitler qualcosa che
trascende le responsabilità umane; credo insomma che il vero colpevole degli orrori del
nazismo non sia l’uomo-Hitler, ma una forza temibile quanto gli Angeli di Rilke che si è
servita di quell’uomo, invadendo la sua volontà
13
.
13
Lettera di Furio Jesi a Károly Kerényi del 16 maggio 1965, in Kàroly Kerény-Furio Jesi, Demone e
mito. Carteggio (1964-1968), cit., p. 51.
ix
4. A questo punto affrontiamo subito il nodo spinoso del cosiddetto
Taccuino segreto pubblicato da Lorenzo Mondo su «La Stampa» l’8 agosto 1990
14
.
Una serie di annotazioni, scrive Mondo, «distribuite su 29 foglietti di bloc-notes che
misurano 12 centimetri per 15, a carta quadrettata», simili in tutto e per tutte a quelle
che andranno a costituire Il mestiere di vivere. Sono riflessioni scritte per lo più a
matita che mostrano il volto inedito di un Pavese il quale non solo rivaluta, ma a tratti
pare quasi consapevolmente affascinato dalla cultura più volgare della destra
internazionale. Un volto censurato da Pavese stesso – che escluse personalmente quei
fogli dalle carte del diario – un volto che Jesi non poteva certamente conoscere
all’epoca della stesura del suo saggio, ma che sembra confermare esplicitamente anche
nella loro propria forma pubblica quei «pensieri segreti» riconosciuti dallo stesso
Pavese nella sua voglia inconscia di mettersi a studiare il tedesco:
Boden und blut – si dice così? Questa gente ha saputo trovare la vera espressione.
Perché nel ‘40 ti sei messo a studiare Il tedesco? Quella voglia ti pareva solo commerciale,
era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà del destino. Amor fati.
Un certo superomismo epico – «Sarà vero che M.[ussolini] ha sempre ragione?
Quando si riesce, si ha ragione» – lo porta addirittura a rivalutare fatalmente non solo
la figura del Duce, ma anche quella di Hitler e Franco: condottieri designati dal destino
e dalla storia a rappresentare i propri popoli incarnandone le sorti, facendosi metafora
viva in carne e sangue, delle loro aspirazioni. Lo stesso fatalismo storico viene
utilizzato per minimizzare grossolanamente le eventuali atrocità nazista (Pavese non
14
Lorenzo Mondo, Pavese, il taccuino segreto, da «La Stampa», 8 agosto 1990, pp. 15-16-17.
x
poteva sicuramente all’epoca sapere dei campi di sterminio) sotto il debole manto
giustificatore di una Storia impassibile:
Tutte queste storie di atrocità naz. Che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso
dalle storie sulla rivoluzione franc., che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero
vere, la storia non va con i guanti. Forse il difetto di noi italiani e che non sappiamo essere
atroci.
Inoltre, viene anche messo in campo un inaspettato nazionalismo interventista
miscelato ancora con l’onnipresente senso di colpa, proiettato questa volta, causa
l’asma («ah se non avessi l’asma»), sulla sua incapacità di servire la patria sul campo
di battaglia: «ti sembra bello correggere bozze e rivedere ms mentre i tuoi compagni di
scuola sono morti in mare, in terra, in cielo».
Se fu pudore o vergogna, paura o consapevole abiura ciò che spinse Pavese a
rinnegare questo taccuino non lo sapremo mai con certezza. Se questa adesione ideale
fu genuina e meditata, o piuttosto figlia uno sfogo momentaneo. Se fu una
provocazione nata del desiderio impulsivo di "sgrupparsi" da parte di un intellettuale
assolutamente anticonformista che comunque frequentava assiduamente l’ambiente
antifascista torinese – nel quale pure annoverava gli amici più cari – ma dal quale
probabilmente si sentiva soffocato anche questo lo possiamo soltanto supporre.
In un certo senso, una confessione allusiva e un atto di colpa per il proprio
anarchismo politico, visto quasi più come una trasgressione (per quanto perentoria e
irresponsabile) al "politicamente corretto" degli ambienti antifascisti che aveva sempre
frequentato, la possiamo trovare in alcune righe tratte da un'intervista del febbraio
1946, Ragioni di Pavese. Nella prima delle due domande poste allo scrittore,
l'intervistatore chiedeva quali fossero gli influssi o le conseguenze che il regime
xi
fascista e gli eventi bellici in generale avevano comportato nella sua visione del
mondo e della sua arte. Pavese risponde: «Come sempre il troppo ordine, la troppa
gerarchia, producevano anarchismo, e io lo confesso: nelle cose pubbliche ero
anarchico, luciferesco, autosufficiente»
15
. Dichiarazione che letta con il senno di poi
assume i connotati di un intimo mea culpa per le considerazioni politiche che, seppur
mai esternate in maniera ufficiale, erano venute prendendo forma negli anni della
guerra.
Le pagine de «La Stampa» ospitarono nei giorni successivi alla pubblicazione
del Taccuino segreto, in quella "feria d'agosto" del 1990, più che un dibattito, una
pioggia di dichiarazioni e interventi. Dallo sconcerto della Pivano, che parlava di
«pugnalata alla schiena»
16
allo sfogo indignato di Giancarlo Pajetta che accusa il poeta
di diserzione. Pavese fu maestro del fratello di Giancarlo Pajetta, Gaspare, morto
durante la resistenza, e a lui durante le sue lezioni, Pavese aveva spiegato che «ognuno
deve ammazzare il suo tedesco». Luisa Sturani, figlia di Augusto Monti e moglie del
suo fraterno amico Mario Sturani, risolveva la questione puntando il dito sull'«eterna
adolescenza» del poeta: condizione esistenziale che impedirebbe di considerare
seriamente quegli appunti e qualsiasi opinione politica di Pavese in generale. Tra i
tentativi di difesa – o perlomeno di giustificazione della figura di Pavese (non
certamente dei suoi appunti) – quello di Natalia Ginzburg che sostanzialmente
15
Datato nel manoscritto: «5 febbraio 1946». Risposta a un'inchiesta della rivista «Aretusa». Il
frammento citato è estratto dalla risposta alla prima delle due domande poste a Pavese: «Gli eventi dell'ultimo
anno hanno avuto qualche influsso sul vostro lavoro», ora pubblicato con il titolo L'influsso degli eventi in Id.,
La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 221-224.
16
Mario Baudino, Pavese fu vero antifascista?, da «La Stampa», 9 agosto 1990, p. 15.
xii
conferma l'opinione di Luisa Sturani, cercando però di consegnare nel suo intervento
un'immagine di Pavese umana, extra-letteraria, che superi gli appunti i quali, in quella
polemica estiva, si andavano imponendo come ultima e definitiva parola sulla vita e
sulla sua opera di Cesare Pavese:
Chiamarlo fascista è una follia pura. Chi l'ha conosciuto vivo, chi è in grado di
evocarne la figura, i gesti il comportamento, il senso stesso della sua esistenza, sa bene
come egli fosse l'esatto contrario di quello che il fascismo è stato. Tutto quanto formava lo
spirito del fascismo era assente dalla sua persona [...].
Ai suoi amici, Pavese ha dato molto, e ha insegnato molto: ha insegnato o cercato di
insegnare la serietà nel lavoro, il disinteresse, l'indifferenza alla gloria, ha insegnato la
pietà. Chi era allora colpito da sventure ne ricorda la dedizione, la generosità, la gentile e
sconfinata pazienza. Ai suoi amici ha anche insegnato la forza nel sopportare il dolore;
questa forza lui non l'ha avuta, ma ne sapeva la necessità, ed essa era in qualche modo
presente nelle pieghe della sua faccia, nei suoi modi, nel suo passo rapido e solitario.
Tuttavia nessuno lo ha mai considerato un maestro di vita o un maestro di pensiero: troppe
volte pensava delle assurdità; e troppo lo vedevamo condurre la sua propria vita in un
modo ostinato, sofferente, tortuoso e maldestro
17
.
Gianni Vattimo, poi, provava a liberare Pavese dal suo mito
18
, e rispondendo
soprattutto a Pajetta, spostava l'attenzione, più in generale sull'impossibilità di
concepire figure intellettuali «paterne», veri e propri "monumenti" delle cui scelte ci si
possa fidare completamente e in ogni ambito, culturale ed esistenziale, salvo poi
sentirsi traditi scoprendo che l'immagine creata non è scevra da ambiguità, fratture e
complessità. Vattimo, infine, rovescia il giudizio più critico, quello che appunto
vedeva nel taccuino segreto di Pavese la testimonianza di un tradimento, assumendo le
perplessità e le ambiguità di Pavese come exemplum e misura dell'insondabile
complessità del giudizio storico:
17
Natalia Ginzburg, Il mio Pavese, da «La Stampa», 21 agosto 1990, p. 13.
18
Gianni Vattimo, Liberiamo Pavese dal suo mito, da «La Stampa», 10 agosto 1990, p. 21.
xiii
Quando ho letto i testi pubblicati da Mondo. dunque, più che sorpresa ho provato
disagio; non tanto per il fatto di scoprire un Pavese «filonazista» e «filofascista»; bensì per
il fatto di dover constatare ancora una volta la difficoltà e complessità del giudizio storico.
Giudizio storico che non è tanto e anzitutto il nostro, retrospettivo, su Pavese; ma quello di
Pavese entro le sue concrete dimensioni storico-esistenziali.
In altre parole ho pensato: se persino uno come Pavese, che durante gli anni del
fascismo aveva condiviso l'esperienza di tante luminose personalità antifasciste torinesi,
che era stato allievo di Augusto Monti, amico di Massimo Mila e di Leone Ginzburg,
ancora negli ultimi anni della guerra e persino a proposito della Repubblica di Salò poteva
pensare cose come quelle, doveva essere ben difficile avere le idee chiare su fascismo e sul
nazismo per chi viveva in quei tempi
19
.
Da parte nostra possiamo soltanto rilevare nell’incipit di quel pensiero: «Boden
und Blut – si dice così?» – l’ironia dell’interrogazione retorica (Pavese, nella stessa
nota, affermava di aver deciso di studiare il tedesco da almeno due anni) che, anche se
non può attenuare la «responsabilità della citazione»
20
, sembra smantellare
l’affidabilità delle affermazioni seguenti, svelandone la strategia provocatoria cui il
lettore abituale del diario di Pavese è uso; tecnica attraverso la quale l’immagine
dell’oggetto tabù viene rivendicata perché tecnicamente in grado di scatenare, nella
rappresentazione dell’Io, una puntuale strategia della colpa e del rimorso. Inoltre
siamo convinti che, seguire la traccia extravagante del pensiero dell’uomo può essere
interessante e necessario quanto futile se si perde di vista l’opera del poeta. Come
suggerisce Sergio Pautasso in Cesare Pavese oltre il mito a proposito del taccuino:
Non si possono ignorare come se addirittura non esistessero più, Il compagno, Prima
che il gallo canti, La luna e i falò, dove, al di là dell’esito letterario sono esemplari le tappe
di quello che Pavese stesso aveva indicato nel diario come «il ciclo storico del suo tempo»,
19
Gianni Vattimo, Anche le scelte sbagliate ci possono insegnare molto, in Pavese: i dubbi, il fascismo,
la guerra, da «La Stampa», 12 agosto 1990, p. 16.
20
Lorenzo Mondo, Quell'antico ragazzo. Vita di cesare Pavese, Milano, Rizzoli, 2006, p. 117.
xiv
dimostrando di attribuire ai suoi libri e alla letteratura anche una valenza emblematica e
problematica
21
.
I Saggi sul mito, in egual misura, mostrano la carica umanistica, il rovello
teoretico e psicologico che ne muove l’intenzione. Insomma, le opere non possono che
restare come il documento ultimo più importante, non fosse altro perché, anche
considerandole interamente una "mascheratura" esse rimarrebbero comunque la
risposta e la testimonianza consapevole positiva che il poeta ha deciso di consacrare
alla letteratura e alla memoria.
4. Tornando a Jesi, analizzando in maniera più specifica il suo saggio, il
punto più problematico della sua argomentazione ci pare quello in cui cerca di
riconoscere gli archetipi junghiani nel concetto di simbolo e nell'architettura più
generale della teoria mitica. Jesi non arriva a sostenere direttamente l’influenza di
Jung; lo fa indirettamente con un duplice approccio metodologico: geneticamente,
comprovando l’influenza del pensiero teorico di Kerényi, comparativamente,
confrontando alcuni versi di Rilke con i saggi di Pavese, specialmente estrapolando dal
confronto tra i due poeti il tema del «concepire mitico» del fanciullo. È un passaggio
che vale la pena riportare per intero:
Parlare di uno stato prenatale, come fece Rilke, di uno stato in cui il bambino è ancora
parzialmente partecipe, significa in fondo parlare di quella morte, di quel «terrifico» che
conferisce verità e valore archetipico alla conoscenza infantile. Pavese sembra tenersi
lontano da un discorso così esplicito; egli dice che il bambino conosce il mondo attraverso
21
Sergio Pautasso, Cesare Pavese oltre il mito, Milano, Marietti, 2004, p. 30.
xv
simboli prefabbricati, immagini, vignette, i quali pure assurgono per l’adulto a realtà
simboliche archetipiche, a simboli primordiali
22
.
La lontananza di Pavese dal concetto di archetipo così come tradizionalmente
inteso segna in realtà un’insopprimibile differenza e un’originalità. L’unica volta che il
nome di Jung viene citato nel diario risale al 22 maggio 1941 all'interno di una
riflessione su alcune pagine di Albert Béguin, L’âme romantique e le rêve. Il tenore
della nota mostra chiaramente quanto Pavese fosse consapevole dei legami impliciti
tra analisi junghiana e gli assunti fondamentali del romanticismo tedesco (che Pavese
voleva superare), tra «stato prenatale», sogno e mito, caratterizzati già negativamente
come «fuga» e «appiglio»:
(Idea che si ritroverà in schubert, Carus, Schopenhauer e Jung C.G.).
Il gusto di K.P.Moritz per i ricordi d’infanzia è un modo di ritrovare testimonianze di
uno stato anteriore alla vita che nell’infanzia è ancora fresco e lascia tracce. Rappresenta
cioè la fuga non soltanto dal reale contemporaneo, ma dal reale in blocco . Aspirazione
tipica del protoromanticismo. Così desiderano trasformarsi in oggetti naturali (Shelley –
Leopardi). Così si intravede nella natura (la nuvola il tuono, l’onda di Shelley e di
Leopardi) l’appiglio per partecipare di una vita che non è più la condizione umana. Così si
cercano i sogni non soltanto come fuga dalla realtà diurna,ma come appiglio a una prenatale
esperienza: così si anela ad immedesimarsi nel Tutto che ci appare come realtà prenatale
23
.
Inoltre all'altezza del 1944, le tesi dello psicanalista sarebbero diventate
presumibilmente argomento di dibattito quotidiano per Pavese. Quasi
certeamentecanosciuta dalla frequentazione di Bianca Garufi, amore non corrisposto
del periodo romano e prima laureata italiana a discutere una tesi su Carl Gustav Jung.
22
Furio Jesi, Pavese, il mito e la scienza del mito, cit., p. 144.
23
Nota del 21 maggio 1942, in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 205.