amministrativi e legislativi idonei ad una corretta gestione della specie sul territorio”. Nel
2003, in considerazione dell'espansione del lupo nella Provincia del Verbano-Cusio-
Ossola, l'attività di ricerca è stata estesa in tali territori coinvolgendo quell’amministrazione
Provinciale e il Parco Naturale Alpe Veglia e Devero.
Il Programma è stato articolato in 5 comparti principali: monitoraggio, ricerca, informazione
e preparazione degli operatori tecnici, prevenzione e gestione sostenibile. L'attività di
monitoraggio è stato il nucleo fondamentale del Programma per garantire una sistematica
e completa raccolta, catalogazione e razionalizzazione delle informazioni inerenti la
presenza del lupo e le sue interazioni con animali domestici e selvatici, condizione
essenziale per gestire in maniera accurata ma flessibile la dinamica evolutiva della
popolazione.
IL LUPO IN ITALIA
Il lupo era ampiamente diffuso in tutta la penisola italiana fino alla metà dell’Ottocento, con
l’eccezione della Sardegna dove non è mai stato presente (Cagnolaro et al. 1974). Venne
sterminato sulle Alpi negli anni ’20 del XX secolo (Brunetti, 1984) e in Sicilia negli anni ’40
(Cagnolaro et al. 1974). Negli anni ’70 dello stesso secolo, quando la persecuzione
antropica portò la specie al minimo storico italiano e sulla soglia dell’estinzione, il lupo era
presente solo nelle aree più selvagge dell’Appennino centro-meridionale e dell’areale
tirrenico (Cagnolaro et al. 1974; Zimen e Boitani, 1975). La tendenza negativa si è fermata
alla fine degli anni ’70 del Novecento, e da allora il lupo è in lenta ripresa.
Le cause di questo recupero sono molteplici: la plasticità e l’adattabilità del lupo, che ne ha
facilitato la sopravvivenza nonostante l’elevato livello di persecuzione operato dall’uomo;
lo spopolamento umano di montagne e colline, iniziato dopo la fine della II guerra
mondiale, che ha in primo luogo ridotto il conflitto uomo-lupo, e secondariamente ha
favorito la graduale riforestazione delle aree di pascolo e agricole precedentemente
sottratte dall’intensa attività antropica; il miglioramento delle condizioni ecologiche e
ambientali, che ha consentito alle popolazioni di ungulati selvatici di crescere e di
espandersi nuovamente, supportate in parte da numerosi ripopolamenti e reintroduzioni
(Pedrotti et al. 2001; Apollonio, 2004). Non va dimenticato il miglioramento della sensibilità
ambientale, aumentato in tutti gli strati della popolazione italiana negli ultimi due decenni,
e i susseguenti cambiamenti nelle politiche di gestione dell’ambiente e della fauna
selvatica, culminati nella protezione legale del lupo e nell’istituzione di numerosi Parchi
naturali. Attualmente il lupo occupa l’intera catena appenninica, dalla Calabria alla Liguria,
con consistenti ramificazioni laterali nei territori montuosi al confine tra Lazio e Toscana e
sulle Alpi occidentali (Boitani, 2003). La diffusione nella Francia sud orientale a partire dal
1992 ha avuto origine dalla stessa popolazione appenninica (Poulle et al. 1995). Due
branchi stabili sono presenti in provincia di Cuneo (Boitani, 2003), e altri tre in provincia di
Torino, oltre a individui solitari o in piccoli gruppi che sconfinano frequentemente in
territorio francese (Avanzinelli et al. 2004), mentre segnalazioni attendibili e predazioni
verificate indicano la presenza del lupo anche nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola
(Boitani, 2003). Già nel 1996 la componente più settentrionale della popolazione italiana
era presente con due lupi in val Ferret (CH). Il loro destino è sconosciuto ma,
considerando l’espansione in Appennino e le condizioni ecologiche della catena alpina
centrale e orientale, è ragionevole aspettarsi che i lupi ricolonizzino gradualmente tutte le
Alpi, in tempi anche brevi. Questo permetterebbe inoltre il contatto con la residua
popolazione di lupi sloveni (Ciucci e Boitani, 1998a).
Una credenza, tanto diffusa quanto falsa, sostiene che il lupo si è propagato in Italia a
causa di varie reintroduzioni, legali o clandestine. Va ribadito che né l’Europa né l’Italia
hanno mai attuato piani simili: gli unici esperimenti in tal senso - tra l’altro ancora oggetto
di studio e verifiche - sono stati realizzati in aree ristrette (Yellowstone, Idaho, North
Carolina) del continente nordamericano (Phillips et al. 1995; Ciucci e Boitani, 1998a).
Ampia conferma viene dai dati genetici: nel corso dei diversi progetti di monitoraggio che a
partire dal 1994 hanno interessato la Regione Piemonte, 577 campioni sono stati
sottoposti ad analisi, e tutti hanno confermato l’appartenenza dei lupi piemontesi alla
popolazione di lupo italiana (Randi e Fabbri, 2001; Randi 2003). In particolare l’analisi
delle frequenze alleliche dimostra la continuità delle popolazioni appenniniche e alpine,
diverse da quelle slovacche e spagnole (Scandura et al. 2001; Randi, 2003), dalle quali
sono state isolate geneticamente negli ultimi 18.000 anni (Lucchini et al. 2004).
STATUS GIURIDICO
Azioni di controllo del lupo caratterizzano tutti gli Stati europei fin dall’antichità. Gli editti, le
battute organizzate, le ricompense in denaro per l’uccisione di lupi, iniziate nel Medioevo,
terminarono soltanto nei primi anni del Novecento (in Italia nel 1971). Carlo Magno istituì
tra 800 e 813 il corpo della “louveterie”, esistente tuttora oggi. Alla fine della I Guerra
Mondiale a Bousson in Alta Val Susa operava ancora una squadra di cacciatori di lupi
(Brunetti, 1984).
Il primo testo legislativo italiano in materia di caccia e fauna selvatica risale al 1923.
Seguirono poi il Testo Unico del 1931 e quello del 1939, n. 1016. Quest’ultimo venne
modificato dal D.P.R. 987 del 1955 e poi sostituito dalla L. 799 del 2 agosto 1967. Tutti
questi codici classificavano il lupo come “nocivo”, insieme a volpe, faina, puzzola, lontra,
gatto selvatico e a tutti i rapaci diurni e notturni (art. 4). Potevano quindi essere uccisi
indiscriminatamente e con qualsiasi mezzo (art. 25).
In seguito il dibattito sul destino del lupo in Italia si acuì, portando nel 1971 ad un Decreto
Ministeriale che sospese la caccia al lupo per due anni e ad un successivo D.M. del 1973
per altri tre. Nel 1976 un nuovo D.M. stabilì la protezione integrale, vietando tra l’altro l’uso
dei bocconi avvelenati. Il lupo esce comunque dallo status di “nocivo” soltanto nel 1977,
con l’approvazione della L. 968 del 27 dicembre, che trasforma tutta la fauna selvatica da
“res nullius” a “res communitatis”, cioé “patrimonio indisponibile dello Stato”, e accorda
particolare protezione a tutti i rapaci, a cicogne, gru, fenicotteri e cigni, a foche monache,
stambecchi e camosci d’Abruzzo, e a orsi e lupi (art. 2). La legge 157 del 1992 conferma
la collocazione del lupo tra le specie particolarmente protette (art. 2), e nel 1997,
recependo la “Direttiva Habitat”, il D.P.R. 357 dell’8 settembre inserisce il lupo nell’allegato
D (specie di interesse comunitario).
E’ opportuno ricordare anche il quadro legislativo internazionale. Il lupo, insieme ad altre
specie, è sottoposto a particolare tutela dalla Convenzione di Berna (19 settembre 1979,
ratificata dall’Italia nel 1981 con L. 503), il cui Comitato Permanente nel 1999 ha
ufficialmente adottato il “Piano di Conservazione del Lupo in Europa” redatto da Luigi
Boitani nel 2000; dalla Direttiva Habitat (92/43/CEE, ratificata dall’Italia nel 1997 con
D.P.R. 357); dalla Convenzione di Washington (c.d. CITES, 1973, recepita dal nostro
paese nel 1975 con L. 874, e poi con L. 150 nel 1992. Regolamento della CEE n. 338/97);
dal “Manifesto per la conservazione del lupo” della Unione Internazionale per la
Conservazione della Natura e delle Risorse Naturali - IUCN (prima stesura nel 1973,
ultimo aggiornamento a febbraio 2000).
ANALISI STORICA DELLA PRESENZA DEL LUPO IN VAL SUSA
La presenza storica del lupo, unitamente a quella di altri predatori come lince e orso (ma
anche gipeto) che ne hanno condiviso il destino, può essere ricostruita attraverso gli editti
e le convocazioni delle battute di caccia, le ordinanze che istituivano premi in denaro per
le uccisioni e i susseguenti verbali di riscossione delle taglie. Questi documenti sono
conservati nelle biblioteche nazionali e civiche, e nell’Archivio di Stato di Torino. Altre fonti
sono i registri parrocchiali, le corrispondenze postali e i documenti di archivio. Per
delineare la dinamica della presenza del lupo in Val Susa ci si è avvalsi della ricerca
compiuta dallo storico Ettore Patria nel 1991, pubblicata sul settimanale locale La Valsusa,
integrata con quella di Roberto Brunetti del 1984 e di Giorgio Jannon del 1998.
Per quanto riguarda il ritorno dei lupi in Val Susa sono stati utilizzati i risultati dei progetti di
monitoraggio in Piemonte e dei danni ai domestici, le relazioni di Andrea Gazzola per il
Parco di Salbertrand, i risultati del Progetto “Human Dimension” di Federica Galvagno e
Simone Ricci, i numeri speciali dedicati all’argomento dalla rivista della Regione “Piemonte
Parchi”, alcune pubblicazioni locali e articoli tratti dai giornali valsusini.
MONITORAGGIO DEI LUPI IN ALTA VAL SUSA
I dati relativi al monitoraggio dal 1999 al 2004 sono stati ricavati dalle relazioni finali del
Progetto Lupo in Piemonte denominato "Il lupo in Piemonte: azioni per la conoscenza e la
conservazione della specie, per la prevenzione dei danni al bestiame domestico e per
l'attuazione di un regime di coesistenza stabile tra lupo ed attività economiche" (AA.VV.
Regione Piemonte, 2001 e 2003; Avanzinelli et al. 2004; AA.VV. Regione Piemonte,
2005), e dalla relazione del monitoraggio del lupo all’interno del Gran Bosco di Salbertrand
(Gazzola et al. 2003).
ANALISI AMBIENTALE E SOCIOECONOMICA DELLA VAL SUSA TRA 1900 E 2000
Ricostruire le variazioni storiche di questi fattori non è semplice, perché le fonti anteriori al
1950 sono sparse e varie, né risulta che sia stato realizzato uno studio comparativo
completo e unificato. Bisogna compulsare varie documentazioni, che talvolta risultano di
difficile comparazione per le differenti tecniche di raccolta utilizzate in passato. Tuttavia i
dati raccolti sembrano delineare una dinamica attendibile e significativa, analoga a
ricerche condotte in altre aree italiane.
Per ricavare i dati necessari sono stati consultati i censimenti ISTAT, le indagini delle
Camere di Commercio, della A.S.L. 5, del Consorzio Forestale Alta Valle Susa e delle
Associazioni dei Coltivatori, i Piani Forestali Territoriali, i rapporti statistici della Regione
Piemonte, dell’Osservatorio Regionale sulla Montagna e dell’IPLA, i dati di transito forniti
dalla SITAF, le monografie delle Esposizioni Agrarie e i progetti di sistemazione idraulico-
forestale dell’alta Dora Riparia, oltre a documenti d’archivio e pubblicazioni storiche,
reperiti presso la Biblioteca Civica di Susa, la Biblioteca Nazionale di Torino e l’archivio del
Consorzio Forestale Alta Valle Susa. Sono stati inoltre consultati i siti Internet di vari Enti
(Ministero dell’Agricoltura, Comunità Montane, Regione Piemonte, Provincia di Torino,
ISTAT, SITAF).
In particolare sono stati comparati i dati ricavati dalla Monografia Agraria Illustrata del
1884 con quelli del progetto di sistemazione idraulico-forestale dell’alto bacino della Dora
Riparia redatto in periodo fascista nel 1934. Successivamente si sono rivelate preziose le
indagini della Camera di Commercio, del 1958 e 1979, condotte con parametri uguali tra
loro, e, a partire da quegli anni, i censimenti dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT).
Per confrontare i dati del 1884 e del 1934 - dove le categorie relative alla copertura del
suolo erano descritte in minor dettaglio - con quelli degli anni successivi, è stato
necessario accorparle in pratopascolo, bosco e improduttive. Per bosco s’intende quindi
tutti gli alberi da taglio e da frutto fonti di reddito, mentre la categoria improduttiva definisce
le superfici di bosco e di pratopascolo non redditizie economicamente, unite a quelle non
sfruttabili come pietraie e corsi d’acqua, o utilizzate per altri scopi come vie di transito e
insediamenti urbani. Un limite che va tenuto presente nelle ricerche storiche
sull’estensione dei pascoli, delle coperture forestali e dei coltivi, e sul quantitativo di
bestiame alpeggiante, è rappresentato dalle variazioni dei confini politici che si sono
susseguiti tra il 1700 e la fine della seconda guerra mondiale. Ne sono esempio la valle
Stretta, la val Gimont, le testate dei torrenti Piccola Dora e Rio Secco, e il Monte
Chaberton, geograficamente italiani ma più volte passati da un dominio all’altro e
oggigiorno francesi nonostante di proprietà dei comuni di Bardonecchia, Cesana e
Claviere. Altro esempio è la linea di separazione tra il dialetto piemontese e la lingua d’oc,
che corre tra Gravere e Chiomonte, testimonianza della differente dominazione, savoiarda
o francese. Al tempo della Rivoluzione Francese e delle seguenti guerre napoleoniche
l’esercito francese attraversò parecchie volte la valle, ed anzi da Napoleone furono
tracciate definitivamente e aperte le strade dei valichi del Moncenisio e del Monginevro.
Dopo la pace di Parigi del 1814 la valle rimase ai Savoia, e i suoi confini ridiscussi
parzialmente in occasione dei trattati del 1860, 1866, 1915 e 1947 (Baratta et al. 1966;
Ruggiero, 1976). Una variabile geografica di minore importanza è rappresentata dalle
modifiche del territorio di pertinenza della Comunità Montana Alta Valle Susa. Nel 2002 ne
sono entrati a far parte anche i comuni di Meana e Moncenisio, e quindi ai dati ricavati per
gli anni successivi sono stati sottratti quelli relativi a questi due territori, in modo da poterli
confrontare con le serie precedenti.
Il numero degli animali monticanti è stato attinto dai resoconti del Consorzio Forestale Alta
Valle Susa (Gros e Dotta, 2004), mentre le informazioni sulle patologie dei domestici sono
state fornite dal Servizio Veterinario dell’ASL 5. I dati relativi ai danni alla pastorizia causati
dai canidi dal 1997 al 2003 in Provincia di Torino sono stati estratti dalle relazioni finali del
Progetto Lupo - Regione Piemonte (AA.VV. Regione Piemonte, 2003; Dalmasso, 2004a).
I dati sulla fauna sono stati ricavati dai censimenti faunistici annualmente effettuati dalla
Provincia di Torino, dai Comprensori alpini e dai Parchi naturali, la cui continuità comincia
soltanto da metà degli anni ‘80 del XX secolo (Demeneghi et al. 1987). Per la parte storica
ci si è rifatti a documenti d’archivio e ai piani di reintroduzione degli ungulati, laddove
fossero preceduti da uno studio di vocazione del territorio e di fattibilità del progetto,
basato anche sulle situazioni pregresse. I dati degli ungulati selvatici abbattuti dal 1996 al
2004 in Alta Val Susa all’interno del Comprensorio Alpino CA TO2 e del Parco Naturale
del Gran Bosco di Salbertrand sono stati ottenuti dal Piano di Programmazione per la
gestione degli ungulati 2004 - 2009 (Musso e Dotta, 2004) e dal Piano di riequilibrio
faunistico 2002 - 2007 del Parco (Ramassa, 2004). I dati relativi ai ritrovamenti della fauna
selvatica morta dal 1996 al 2003 in Alta Val Susa sono stati concessi dal Servizio Tutela
Flora e Fauna della Provincia di Torino.
DISCUSSIONE
Il lupo popolava tutta l’Europa continentale alla fine del XVIII secolo. Un secolo e mezzo
dopo era estinto in tutta l’Europa centrale e settentrionale: sopravviveva soltanto in ridotte
popolazioni relegate nelle aree più impervie di Portogallo, Spagna, Italia, Grecia,
Jugoslavia e Scandinavia (Breitenmoser, 1998).
In Italia il lupo ha seguito lo stesso destino: era diffuso in tutta la penisola - con l’eccezione
della Sardegna - fino alla metà dell’Ottocento (Cagnolaro et al. 1974). Intorno al 1970 era
rimasto solo nelle aree più selvagge dell’Appennino centro-meridionale e dell’area tirrenica
tosco-laziale (Cagnolaro et al. 1974; Zimen e Boitani, 1975).
Nelle Alpi occidentali il lupo è rimasto fino ai primi decenni del 1900 (Brunetti, 1984).
L’ultimo lupo ucciso in Piemonte è probabilmente quello ritratto in una foto del 1921 a
Mondovì (AA.VV. Piemonte Parchi, 1997). In Alta Val Susa ancora alla fine della Prima
Guerra Mondiale lavoravano dei “lupari” (Brunetti, 1984), anche se l’ultima uccisione
documentata in atti ufficiali risale al 1835.
Alla fine degli anni ‘70 del Novecento il lupo inizia a recuperare terreno. Nel 1973 è tra
Emilia e Toscana. Per tutti gli anni ’80 del Novecento aumentano le notizie e i ritrovamenti
lungo la dorsale appenninica, anche verso sud (Maiella, Sila, Pollino, Aspromonte). Nel
1985 è avvistato nell’Alessandrino, nel 1987 dietro San Remo (IM). Nel 1992 supera il
confine e raggiunge il Mercantour in Francia (AA.VV. KORA, 2005). Nel 1994 è segnalato
per la prima volta in Provincia di Torino, e nel 1997 viene accertata la prima riproduzione
(Bertotto e Luccarini, 1999). Oggi ha raggiunto la Val d’Ossola e il Canton Vallese (CH),
dove è presente anche se non in maniera stabile.
Le analisi genetiche degli ultimi anni hanno dimostrato la stretta parentela tra i lupi che
hanno ricolonizzato le Alpi occidentali e quelli che vivono in centro Italia (Scandura et al.
2001; Randi e Fabbri, 2001; Randi 2003).
Le cause dell’estinzione del lupo si possono ricondurre a tre fattori principali: uccisione
diretta, riduzione e scomparsa del suo habitat, riduzione e scomparsa delle sue prede. A
loro volta questi fattori possono essere riuniti in una unica voce: la presenza diffusa sul
territorio montano dell’uomo e delle sue attività economiche (Breitenmoser, 1998).
Le ragioni del ritorno del lupo alla fine del XX secolo sono strettamente legate alla
estinzione delle cause che ne hanno determinato la scomparsa. Queste sono nuovamente
tutte dipendenti dalla presenza umana sul territorio montano e alpino, ma in questo caso in
senso regressivo. In tutta Italia un forte processo di inurbazione ha allontanato gli abitanti
dalle montagne a partire dal secondo dopoguerra. La Val Susa non ha fatto eccezione,
risentendo come altre vallate piemontesi dell’ineludibile richiamo industriale rappresentato
dalla Torino della ricostruzione (AA.VV. ISTAT, 2003). Ha infatti dimezzato i propri abitanti
in meno di un secolo, passando da 21.248 nel 1861 a 10.455 nel 1961.
Lo spopolamento delle montagne ha restituito tranquillità a vaste aree, ha liberato molte
superfici dalle coltivazioni e dal pascolo, ha permesso il recupero dei boschi e ha lasciato
nutrienti praterie per l’alimentazione degli ungulati selvatici. Così questi ultimi si sono
potuti espandere nuovamente, oggetto di reimmissioni prima e di una corretta gestione
venatoria poi (Pedrotti et al. 2001; Apollonio, 2004). La ritrovata disponibilità delle sue
prede selvatiche tipiche e l’esistenza di un rinnovato habitat naturale sicuro, nascosto,
vario e poco disturbato, hanno infine permesso al lupo di reinsediarsi in questo e in altri
settori alpini (Poulle et al. 1999; AA.VV. KORA, 2005), seguendo finalmente uno
spontaneo processo di espansione frustrato per tanti anni (Apollonio et al. 2004). Nuclei
stabili hanno ripopolato la Francia sud-orientale (Poulle et al. 1995) ed esemplari isolati
sono presenti in Svizzera (AA.VV. UFAFP, 2005).
A parte i relativamente numerosi incidenti, le strade valsusine non sembrano un ostacolo
insormontabile ai movimenti dei lupi: insieme ai fiumi, sono considerate barriere semi-
permeabili, benché talvolta in grado di ritardare anche di anni l’espansione naturale di una
popolazione di lupi (Blanco et al. 2005). Le uccisioni dirette sono diminuite, e un eventuale
atto di bracconaggio sul lupo - oltre ad essere illegale - è considerato ignobile e
socialmente riprovevole: non è più l’azione eroica e coraggiosa a tutela della collettività,
come era vissuta cento anni fa. Nonostante venga stimata l’uccisione illegale annua di
circa il 10% dei lupi italiani (Genovesi, 2002), probabilmente in Val Susa questa
percentuale è oggi più bassa. La maggiore coscienza ambientale e la protezione legale
hanno modificato almeno in parte l’atteggiamento mentale verso il predatore e soprattutto
mancano oggi le occasioni di conflitto vitali e continue di cento anni fa.
Infatti dal Medio Evo fino alla fine dell’Ottocento il lupo ha rappresentato un grave pericolo
per l’economia montana. La predazione anche modesta sui capi domestici causava gravi
danni ad allevatori che possedevano pochi capi, non di rado uno o due, quasi sempre
meno di 10 complessivi (Dotta, 2001). La piccola economia familiare spesso era
sufficiente soltanto per la sussistenza, ed era già sottoposta ai rischi delle carestie, del
maltempo, delle malannate e di guerre, invasioni e requisizioni (Clarmorgan, 1702;
Jannon, 1998). Il tentativo prolungato nel tempo e coronato da successo di eliminare il
lupo aveva ragioni comprensibili.
Né va dimenticato - anche se una trattazione completa dell’argomento esula dal presente
studio - quanto il lupo incarnasse nell’immaginario collettivo il male, con la conseguente
giustificazione sociale e persino religiosa della sua eliminazione con ogni mezzo (Lopez,
1999; Menatori e Guadalupi, 2004).
Il conflitto negli anni 2000 non ha più queste caratteristiche. Il prelievo del lupo sui capi
domestici rappresenta certamente un danno economico per l’allevatore, perché i rimborsi
pubblici non coprono il valore del capo ucciso e giungono spesso con ritardo. Non mette
però a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa zootecnica, perché le poche aziende
rimaste in montagna gestiscono oggi greggi di diverse centinaia di capi, e perché le morti
causate dal lupo sono modeste, sia in numero assoluto, sia in relazione con altre perdite
più consistenti che gli allevatori subiscono ogni anno a causa di eventi naturali (fulmini,
diroccamenti, smarrimenti, incidenti), e soprattutto a causa delle epizoozie e delle
conseguenti campagne di abbattimento operate dalle Aziende Sanitarie Locali. Infatti
analizzando i dati disponibili per l’intera Provincia di Torino, si evince che l’Alta Val Susa
ha subìto nel periodo 2000-2003 la perdita di circa 470 capi ad opera di canidi, dei quali è
responsabile certo il lupo per poco più della metà (Dalmasso, 2004a). Nello stesso periodo
il Servizio Veterinario dell’ASL 5 ha certificato la morte per altre cause di 1036 capi.
Nel 2003 in Alta Val Susa sono stati accertati 53 attacchi di canidi al bestiame domestico,
con 111 vittime in totale (Dalmasso, 2004a), a fronte di una monticazione complessiva di
12.375 ovicaprini (Gros e Dotta, 2005): un danno pari allo 0,89% del patrimonio
zootecnico. Nel 2004 il Servizio Tutela Flora e Fauna della Provincia di Torino ha
certificato in Alta Val Susa l’uccisione da parte di canidi di 62 ovicaprini e 2 vitelli, oltre a
13 animali feriti, a carico di 13 aziende che hanno ottenuto 6.346 euro di rimborsi
complessivi. Il bestiame monticante nel 2004 era di 10.534 ovicaprini e di 6.989 bovini
(Gros e Dotta, 2005): dunque i canidi hanno causato un danno pari allo 0,52% degli
ovicaprini e allo 0,029% dei bovini. Una valutazione analoga si ritrova in Toscana e in
centro Italia (Ciucci e Boitani, 1998).
Nonostante gli allevatori guardino al lupo come al nemico di sempre, alcune loro
testimonianze (Galvagno, 2005), di veterinari, agenti forestali e funzionari ASL, indicano
che il lupo non è considerato un problema prioritario, ma uno dei tanti. E’ però forte il
rischio che il lupo funga da catalizzatore, raccogliendo tutti i malumori di una categoria in
forte disagio, come se costituisse una specie-ombrello in senso sociale negativo.
Nei decenni di assenza del lupo, e nelle contemporanee trasformazioni del mondo
pastorale, sono stati abbandonati i tradizionali sistemi di difesa costituiti da una stretta
sorveglianza e dal ricovero in stalla o in recinto, mentre altri deterrenti come i cani da
guardiania non sono mai stati utilizzati in queste zone. Inoltre e soprattutto è cresciuto il
numero di pecore in ogni gregge, senza un proporzionale aumento del numero degli
addetti. L’inizio delle predazioni ha costretto gli allevatori ad uno sforzo per riadeguarsi,
aiutati in questo da specifici contributi regionali e provinciali, e da progetti di assistenza
volti ad introdurre - come in centro Italia - l’uso di cani specializzati nella guardiania,
realizzati ad esempio dal WWF (Operazione San Francesco, Progetto Life) e dal Parco
Naturale Orsiera Rocciavré (Dalmasso, 2004b).
Questi cani, completamente diversi per comportamento da quelli da conduzione,
richiedono un investimento cospicuo in termini di tempo e addestramento, non sono pronti
a svolgere efficacemente il loro compito di dissuasione prima dei tre anni di età, e anche
allora è necessario seguirli costantemente per conservarne l’attitudine (Dalmasso, 2004b).
Per questa ragione i risultati del loro inserimento diffuso nel territorio si potranno
apprezzare solo nell’arco di diversi anni.
A causa delle attuali tipologie di conduzione dei greggi di ovicaprini, non sembra probabile
un aumento del personale impiegato in ogni azienda, che abbas-serebbe il rapporto
addetti/capi permettendo una sorveglianza più efficace.
Alcuni pastori hanno iniziato ad utilizzare i recinti mobili, entro i quali ogni sera ricoverano
il gregge senza allontanarlo dalle aree di pascolo, e dormono nelle vicinanze per
intervenire prontamente in caso di minaccia. Questa è una pratica efficace, ma non
universalmente applicata per l’impegno che comporta, sempre in dipendenza dello scarso
numero di addetti in rapporto a greggi numerosi.
Interessanti esperimenti condotti in Canada (Alberta) e Stati Uniti (Idaho, Montana,
Wyoming) hanno dimostrato l’efficacia di particolari barriere basculanti nell’impedire
l’avvicinamento dei lupi alle greggi, resistendo anche per 60 giorni (Musiani et al. 2003).
Le condizioni di quei lontani territori sono molto diverse dalla Val Susa, eppure i tentativi in
questa direzione andrebbero perseguiti con maggior determinazione. Lo stesso studio
suggerisce che investire energie e denaro nel proteggere i domestici elimina la necessità
di uccidere i lupi ritenuti troppo dannosi, un tipo di gestione che viene talvolta applicato
con successo (Fritts, 2000).
Un possibile elemento ulteriore di conflitto è rappresentato dal mondo venatorio. Il
confronto con gli ultimi anni in cui il lupo era presente è di nuovo illuminante. In passato
infatti il lupo costituiva davvero un competitore che sottraeva molte delle poche prede
selvatiche disponibili, che erano da un lato fonte di reddito e di prestigio, dall’altro, seppur
occasionalmente, integravano con proteine nobili una dieta essenziale.
Oggi non è più così. La consistenza delle popolazioni di ungulati selvatici è elevata, né
appare compromessa dal ritorno del lupo. Un recente studio condotto sull’ecologia
alimentare dei lupi valsusini (Gazzola et al. 2005) dimostra che essi predano
principalmente gli ungulati selvatici (87,2%), mentre quelli domestici rappresentano il
6,6%. Tra gli ungulati selvatici la maggiori percentuale è costituita da cervidi (74,2%),
seguita a distanza dal camoscio (11,7%). Tra inverno ed estate il consumo di cervidi
diminuisce da 84,2% a 54,3%, ed aumenta leggermente quello del camoscio, da 9,8% a
15,6%. Gli animali domestici acquistano importanza in estate, raggiungendo il 19,0% della
dieta del lupo, in analogia con altre situazioni italiane (Meriggi et al. 1991; Matteucci et al.
1994). Altre prede come cinghiale, marmotta e lepre vengono invece sfruttate solo
occasionalmente (Gazzola et al. 2005).
Gli ungulati selvatici rappresentano dunque la principale categoria alimentare del lupo in
Val Susa, ma nonostante ciò la sua continua presenza dal 1997 ad oggi non sembra aver
influenzato la dinamica di popolazione delle sue specie-preda. I piani di abbattimento dei
Comprensori di Caccia, sostanzialmente invariati negli ultimi anni, lo dimostrano, ed è
anche affermato esplicitamente dal Comprensorio Alpino TO 2 nel proprio piano di
gestione degli ungulati 2004-2009 (Musso e Dotta, 2004). E’ possibile invece che il ritorno
del lupo, che preda maggiormente le classi giovanili, porti a modifiche non nella quantità
ma nella sex-ratio dei capi annualmente programmati da abbattere (Nilsen et al. 2005).
Sembra inoltre ragionevole ipotizzare che il prelievo del lupo sulle popolazioni di ungulati
da un lato non superi le entità numeriche raggiunte dalla caccia programmata e dagli
incidenti, e dall’altro incida sugli individui più deboli o malati, contribuendo alla buona
salute delle popolazioni selvatiche (Mech e Karns, 1977; Mech et al. 1995; Jedrzejewski et
al. 2000; Mech e Peterson, 2003).
Anche in questo caso bisogna evitare di affrontare la gestione del lupo usufruendo di
categorie mentali che non sono più adeguate ai tempi, quando invece la ricerca scientifica
e i dati obiettivi permettono valutazioni gestionali razionali e documentate.
Nonostante gli allarmi manifestati da una parte della popolazione locale riguardo una
futura crescita esponenziale del numero di lupi in Val Susa, le densità medie riportate da
una letteratura abbondante e le dinamiche dei branchi valsusini registrate negli ultimi anni
portano a conclusioni opposte: la densità dei lupi ha assunto valori stabili (1,5 - 2,5 lupi per
100 km
2
).
Non sembra nemmeno realistico ipotizzare un potenziale pericolo di attacchi dei lupi agli
esseri umani. Per quanto l’eventualità non possa escludersi completa-mente, è da ritenersi
altamente improbabile. Un’accurata rassegna dei casi storici documentati in tutto il mondo
(Linnell et al. 2002) indica che la quasi totalità è stata causata da quattro fattori, tutti oggi
assenti in Val Susa e in generale in nord Italia. Essi sono: la rabbia, la familiarità con
l’uomo, la provocazione e l’ambiente fortemente modificato.
La rabbia, oggi scomparsa dall’Europa centro-occidentale ma presente in altre vaste aree
del mondo, è considerata la causa principale degli attacchi da lupi, provocando alterazioni
nel comportamento e aumento dell’aggressività.
L’abitudine alla presenza e al contatto con l’uomo, ad esempio in alcune zone dove il lupo
viene mantenuto in semi-libertà, eleva il rischio di attacchi all’uomo in conseguenza della
diminuita paura del predatore nei nostri confronti.
La provocazione concerne un lupo intrappolato, o ristretto in una situazione senza via di
fuga, o ancora una femmina a cui si minacci la prole.
Infine le forti modificazioni ambientali costringono il lupo, privato delle prede selvatiche, a
rivolgersi a quelle domestiche, aumentando la vicinanza all’uomo e alle sue attività: infatti
gli unici due casi di aggressione segnalati in Val Susa nel Medioevo riguardavano bambini
al seguito di greggi al pascolo.
Come detto, nessuna di queste situazioni è presente oggi in Val Susa.
Per quanto il lupo mantenga una posizione rilevante nell’immaginario collettivo, non è più
giustificabile considerarlo incarnazione del male, della rapacità e della cattiveria. E’
significativo rilevare come nelle moderne favole per bambini il lupo sia stato smitizzato e
ridicolizzato, e quindi reso meno maligno, per superare lo stereotipo “Cappuccetto Rosso-
Lupo Cattivo”. Nello stesso tempo persiste il richiamo alla sua aurea negativa nelle notizie
di stampa relative ad abusi sui minori e nei titoli di studi e ricerche sulla pedofilia
(Bertolino, com. pers.).
La sensibilità verso l’ambiente, la bassa densità antropica e l’abbondanza delle prede
sono fattori che possono essere considerati stabili in Val Susa, almeno nel prossimo
periodo. Testimonianza di questo possono reputarsi i Parchi naturali. La presenza di
diverse aree protette facilita la tutela del lupo e l’incremento della biodiversità (Morabito,
2005). Unitamente ai corridoi che le possono unire, sono infatti considerati elementi
indispensabili per la conservazione del lupo e delle sue specie preda (Boitani e Fabbri,
1984; Genovesi, 2002). In Val Susa sono stati istituiti tre Parchi naturali (Gran Bosco di
Salbertrand, Val Troncea e Orsiera-Rocciavré), che proteggono un totale di 25.000 ettari
di territorio alpino e montano in gran parte poco o nulla disturbato. Le distanze tra loro non
sono eccessive (Troncea-Salbertrand: minima 7 km; Salbertrand-Orsiera: minima 3,5 km),
tanto che sono stati documentati movimenti di lupi in esplorazione o dispersione tra essi
(Avanzinelli et al. 2004).
Altrove (Nord America, Abruzzo, Pollino) la presenza di aree protette ha facilitato
l’espansione del lupo e contribuito a ridurre i conflitti inevitabilmente connessi al suo
ritorno (Bangs et al. 1995; Boitani, 1995; Carbyn et al. 1995), né va dimenticato che la
prima riproduzione accertata in Provincia di Torino si è verificata proprio all’interno di un
Parco naturale (Bertotto e Luccarini, 1999).
Analizzando gli aspetti propriamente ecologici, il lupo rappresenta in primo luogo un
indicatore ambientale, al pari di altri superpredatori al vertice delle piramidi alimentari. La
sua presenza stabile in una determinata area significa che l’ambiente naturale nel suo
complesso può considerarsi ben equilibrato (Mech e Boitani, 2003a), e questo valore
assume un particolare significato in una valle come la Val Susa, così fortemente
antropizzata. E’ dunque una specie-ombrello, ma questa volta nel suo reale significato
ecologico.
Il secondo aspetto positivo derivato dalla presenza del lupo, anche questo comune ai
grandi predatori, è costituito dall’influenza sulle popolazioni di animali selvatici. Oltre alla
selezione sulle categorie più deboli, il lupo costringe le sue prede a tornare ad essere
vigili, spinta alla quale in Val Susa non erano mai state abituate, essendo tutte derivanti
dalle reintroduzioni degli anni ’60 del Novecento avvenute in totale assenza di predatori.
Alcuni esponenti del mondo venatorio riconoscono in questo un elemento favorevole alla
“tonicità” della selvaggina, una volta assicurato che il prelievo del lupo non riduca
numericamente i capi da abbattere ogni stagione (Perco, 1988).
Il terzo aspetto positivo, più psicologico ed estetico, consiste nel fascino che il lupo
esercita sull’uomo, in relazione al suo rappresentare la natura selvaggia e incontaminata.
Questo carisma può costituire se ben canalizzato una attrattiva per i turisti sensibili alle
tematiche ambientali e spingerli a frequentare questa valle e non altre. A questo proposito
è stato rimarcato come la consapevolezza della presenza di un “animale evocativo” (lupo,
leone, orso, aquila) in una determinata area, e non la sua facilità di avvistamento, sia uno
stimolo sufficiente (Conti, 1992; Ehrlich e Ehrlich, 1993) per esplorare una regione
piuttosto che un’altra e per trarre emozione dalla visita.
I centri visita ed i recinti seminaturali costruiti da vari Enti vanno in questa direzione. Ne
danno esempio tra gli altri il Parco d’Abruzzo e quello delle Alpi Marittime, il Comune di
Civitella Alfedena (che ha adottato il lupo nel proprio cartiglio), il Bayerische Wald in
Germania e l’Alpenzoo di Innsbruck in Austria, l’area francese del Givaudan e quella
statunitense del Wolf.org ad Ely in Minnesota. Ogni anno milioni di persone si giovano di
queste opportunità per cercare un contatto - certo mediato - con i lupi e la loro selvaticità.
Una breve ricerca su Internet rivela che già oggi la presenza del lupo in Val Susa è
utilizzata dagli operatori turistici come richiamo ed attrattiva. Ne sono esempio i siti
valduira.com, valdisusa.it e montagnedoc.it, specificamente dedicati al turismo in valle, e
quelli rifugioarlaud.it e rifugioguidorey.it, che si rivolgono ad una clientela già sensibile alle
tematiche ambientali come i frequentatori dei rifugi alpini (il secondo offre addirittura su
prenotazione una “Serata Lupo”, con l’intervento di esperti e ricercatori). Persino gli
organizzatori delle Olimpiadi invernali del 2006 sul sito torino2006.org magnificano la
naturalità della Val Susa proprio con una scheda sul ritorno del lupo.
Molti Enti e Istituzioni in tutta Europa hanno predisposto Piani di Azione per cercare una
coesistenza possibile con il lupo. Lo stesso progetto INTERREG II che ha coinvolto Italia e
Francia tra il 1994 e il 1999 era stato intitolato non a caso “Azioni per la conoscenza e la
conservazione della specie, per la prevenzione dei danni al bestiame domestico e per
l’attuazione di un regime di coesistenza stabile tra lupo e attività economiche”, e i progetti
successivi hanno proseguito questo indirizzo.
Non va dimenticato infine che la protezione accordata al lupo dalla Unione Europea non
solo ostacola fortemente sul piano legislativo interventi di uccisione della specie, ma
anche mette a disposizione dei ricercatori specifici finanziamenti altrimenti non
raggiungibili.
Nonostante tutto questo, il lupo continua ad essere elemento di contrasto. I modelli di
gestione adottati in Italia, Francia e Svizzera ne sono un esempio. Nel nostro paese il lupo
è considerato specie particolarmente protetta, e non è prevista - almeno fino ad oggi - la
possibilità di intervenire direttamente su uno o più esemplari per allontanarli o ucciderli
(Genovesi, 2002). Gli altri stati alpini occidentali contemplano invece questa eventualità,
seppure in casi ritenuti particolarmente gravi e nonostante i lupi all’origine del fenomeno di
ricoloniz-zazione siano tutti della stessa provenienza. In Francia nel 2004 è stato proposto
e attuato un piano di abbattimento di 4 lupi, che ha suscitato disapprovazione anche da
parte della Regione Piemonte (Presidente Ghigo, prot. 13058/215 del 17.06.04). La
Francia si propone di ucciderne lo stesso numero ogni anno, oltre a quegli esemplari che
dovessero essere responsabili di danni consistenti (AA.VV. MEDD-MAAPAR, 2004).
Stessa impostazione segue la Svizzera (Weber, 2004), e campagne di abbattimento
vengono periodicamente attuate dai paesi della penisola scandinava (Treves e Karanth,
2003; Fritts et al. 2003).
Questa difformità nella gestione di una specie transfrontaliera come il lupo è causa di
attrito anche a livello di Unione Europea, che lo tutela con la Convenzione di Berna e la
Direttiva Habitat.
E’ giusto però ricordare a questo proposito che in Nord America i lupi responsabili di danni
eccessivi vengono catturati e uccisi con eutanasia da biologi governativi: questa soluzione
pur imperfetta mantiene la paura di alcuni cittadini, il rancore degli allevatori e le uccisioni
illegali di lupi a livelli accettabili, senza ridurre troppo le popolazione di lupi, là più numerosi
che sulle Alpi (Fritts, 2000).
Anche a livello locale le disparità sono frequenti: ogni volta che si verifica una predazione
o un incidente gli articoli dei giornali locali enfatizzano il numero dei lupi o la loro
pericolosità. La casa editrice di un giornale locale ha prontamente stampato un volumetto
sul ritorno del lupo in Val Susa (Borgia, 2003), dove gli aspetti scientifici passano in
secondo piano rispetto a timori irragionevoli e a insinuazioni sul ritorno non naturale del
lupo.
Persino le posizioni assunte talora da alcuni Amministratori di Parchi sono volte a
compiacere gli abitanti locali e a cavalcarne le paure più che ad indirizzarli verso una
convivenza possibile o a gestire con lungimiranza una natura rinnovata, dimenticando il
compito primario di tutelare la natura affidato loro dalle finalità delle leggi istitutive:
«organizzare il territorio per la fruizione a fini ricreativi, didattici, scientifici, culturali e
turistici» (L.R. 66/80); «assicurare alla collettività il corretto uso del territorio per scopi
ricreativi, culturali, sociali, didattici e scientifici» (L.R. 12/90); «promuovere attività di
educazione, formazione e ricerca scientifica» (L. 394/91).
Non va sottovalutato inoltre il rischio che il lupo catalizzi una alleanza tra allevatori,
cacciatori e proprietari terrieri tradizionalisti - categorie che spesso hanno interessi in
conflitto tra loro - in una «sorta di ultima linea difensiva contro le forze che minacciano
l’integrità della vita rurale (cittadini e modernità)» (Skogen e Krange, 2003). D’altra parte in
Alta Val Susa il rapporto residenti/turisti è sbilanciato fortemente verso questi ultimi
(13.253 contro 629.257: quasi 1/50), ed è più frequente trovare persone favorevoli alla
presenza del lupo tra i cittadini piuttosto che tra i residenti (Mech, 2000; Fritts, 2000;
Galvagno, 2005).
Indagini sociologiche svolte in altri paesi interessati al ritorno del lupo (Minnesota e
Svezia) provano da un lato la crescita dell’atteggiamento favorevole verso i lupi
all’aumentare tra la popolazione delle conoscenze sulla specie, dall’altro la disponibilità ad
investire risorse economiche pubbliche sia per pagare i danni che per gestire i lupi
(Ericsson e Heberlein, 2003; Chambers e Whitehead, 2003).
Tutti i dati raccolti in questa tesi suggeriscono che in Alta Val Susa il lupo può convivere
con l’uomo e le sue attività. La scommessa da vincere - intanto che continuano le ricerche
- è trasferire questa conoscenza alla popolazione locale e alle categorie antagoniste del
lupo. Due recenti pubblicazioni sul lupo ampie e documentate (Carbyn et al. 1995; Mech e
Boitani, 2003a) dedicano molti interventi a questo argomento. Diversi autori hanno
proposto varie iniziative per raggiungere l’obiettivo di una convivenza ragionevole: indagini
statistiche per comprendere i sentimenti delle popolazioni, sia residenti che turisti
(Ericsson e Heberlein, 2003; Chambers e Whitehead, 2003; Galvagno, 2005); maggiore
coinvolgimento degli abitanti locali alla gestione del loro territorio (Haggstrom et al. 1995;
Cluff e Murray, 1995); divulgazione capillare delle conoscenze sul lupo e dei risultati delle
ricerche in corso (Blanco et al. 1992; Boscolo, 2001); mostre, convegni e conferenze
diffusi sul territorio e non soltanto nelle grandi città o nelle sedi universitarie (Anderson et
al. 1995; Bangs et al. 1995; Boitani, 2003); educazione naturalistica nelle scuole (Gilbert,
1995; Hummerl, 1995).
Impulsi in questa direzione dovrebbero provenire in primo luogo dai Parchi Naturali, ben
rappresentati in Val Susa, il cui territorio protetto e disabitato è il laboratorio ideale dove
sperimentare questa possibile coesistenza. Per questo alcuni progetti di Educazione
Ambientale realizzati insieme da Parchi e da scuole valsusine riguardano, tra l’altro, il
ritorno del lupo (Giunti, 2002; Richetto, 2005).