classe più elevata si distinguono da quelle della classe inferiore e vengono
abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie.
Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la
tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla
variazione si congiungono in un fare unitario”. (Simmel, 2003, p.15 sg)
Sulla scia di Simmel si pronunciano Tarde e Bourdieu (Consoli, 2002) asserendo
che le mode possono essere interpretate come forme sociali della pratica
all’interno delle quali avviene la costruzione e lo sviluppo del rapporto tra sé e
società. Per le classi inferiori, dunque, seguire le mode esprime un desiderio di
assimilazione che ha le sue origini in una forma di invidia; l’imitazione esteriore
starebbe a significare il tentativo di ridurre lo spazio sociale che le separa dalle
classi superiori, le quali, orientando le scelte economiche e produttive, orientano
involontariamente anche l’agire delle mode. Il vestito in generale e la moda in
particolare forniscono un mezzo molto visibile con il quale le classi alte
possono, attraverso la qualità e l’essere di moda del proprio abito, comunicare la
propria superiorità di classe a coloro che stanno “in basso” i quali, ricorda
Goffman, tendono ad orientare la loro azione nel senso di un processo
imitativo/emulativo che passa attraverso l’elaborazione di simboli. Baudrillard
afferma: “Il consumo, se mai ha un senso, è un’attività di manipolazione
sistematica di segni […] il segno è consumato non nella sua materialità, ma nella
sua differenziazione”.( Baudrillard, 1988 p.249)
Veblen, invece, sottolinea il carattere “vistoso” delle mode dove il costo dei
prodotti simbolici diviene un valore, perché simbolo di credibilità sociale. Sulla
scia di Simmel riconosce l’importanza dei processi di distinzione, imitazione e
differenziazione sociale. La moda viene lanciata ai livelli più alti della struttura
sociale e poi scende progressivamente (trickle down effect) fino a penetrare nei
livelli più bassi; è a questo punto che le classi elitarie daranno vita ad un nuovo
ciclo, rinnovando il loro look. Quindi se nei contesti in cui domina una rigida
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gerarchizzazione economico-sociale prevale l’agiatezza vistosa, dove l’abito
elegante non assolve solo ad una funzione estetica, ma rappresenta uno status
symbol che non tutti possono permettersi, nei contesti in cui c’è una mobilità
economico-sociale tra le classi prende il sopravvento la strategia del
cambiamento dell’abito per mantenere a distanza le classi emergenti, che
sviluppano il processo imitativo nei confronti della classe agiata.
Il movimento delle mode, quindi, non scalfisce, ma continuamente ribadisce le
differenze sociali che l’alimentano. E’ un processo di
costruzione/istruzione/ricostruzione dei simboli che riduce la complessità di una
società caratterizzata da crescenti limiti per la scelta razionale. Il muoversi
secondo le mode diventa sempre di più razionale e istintivo.
L’attenzione che le scienze sociali hanno prestato alle mode, ha portato
all’identificazione di alcuni tratti essenziali da cui discende la definizione della
moda come di un cambiamento ritmico sistematico, con diffusione di tipo
epidemico, dei comportamenti di una popolazione o di popolazioni contigue.
Un’alternanza di imitazione e innovazione, uniformità e variazione dei
comportamenti individuali intorno a standard definiti collettivamente privi di
giustificazioni razionali o utilitaristiche e che non riguarda le motivazioni
profonde del comportamento.
Nelle mode il consenso sociale sembra premiare il cambiamento; il
cambiamento è, anzi, alimentato esso stesso dal consenso sociale ed è la moda
stessa che con la sua spinta determina il cambiamento alimentando le mode e la
loro successione. Infatti a differenza di altri comportamenti collettivi, la parte
declinante della curva di diffusione del comportamento si intreccia con la parte
ascendente di una nuova curva che ha un rapporto con il declino della prima. E’
chiaramente un processo storico il cui modello di movimento complessivo è
quello di una distribuzione a campana costituita da una prima fase di adesione
lenta in cui svolgono un ruolo importante i fashion setter e i mass media per
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ridurre il tempo di diffusione tra le masse in quanto la moda ha sempre bisogno
di un certo tempo per imporsi e un intervallo deve trascorrere prima che ci si
renda conto che una moda si è imposta, che se ne distinguano i caratteri
particolari e che si adatti a quanto succede il proprio comportamento. E’
normale un “tempo di segnalazione” che permetta agli individui di notare una
novità, farla propria e inserirla nell’insieme delle proprie convinzioni.
Se lenta è la fase dell’adesione altrettanto lenta è quella dell’abbandono, specie
se è costato fatica l’apprendimento della nuova tendenza. L’andamento
epidemico della curva costituisce un processo di adesione individuale volontaria
a standard che si sviluppano tramite l’interazione tra i membri della popolazione
(che devono presentare una continuità spaziale, temporale o sociale), sulla base
di reti di relazioni dirette esistenti tra di loro oppure sulla base dell’osservazione
del comportamento di soggetti in ruoli equivalenti. In questo senso le mode
rientrano in quei fenomeni sociali che producono controllo sociale mediante una
mobilitazione attiva dei singoli verso degli standard. L’approvazione, però non è
esterna al fenomeno, ma è il prodotto della moda stessa. Come diceva Simmel al
riguardo: “Proprio la casualità con cui una volta essa impone l’utile, un’altra
l’astruso, una terza ciò che è indifferente dal punto di vista pratico o estetico,
mostra la sua completa noncuranza verso le norme oggettive della vita e rimanda
ad altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali, dato che sono le uniche a
rimanere”.( Simmel,1998 p.20)
L’imitazione riguarda comportamenti e consumi che non sono espressione delle
motivazioni umane profonde, la moda agisce soprattutto su quegli aspetti della
cultura che un gruppo considera relativamente irrilevanti rispetto ai valori
basilari. Si riferisce a campi futili, non relativi a reali e profondi motivi
dell’azione umana quindi sarebbe essa stessa un fenomeno futile. A questa
definizione di moda si può controbattere sottolineando che il cambiamento di
mode è l’espressione di un mutamento profondo della vita sociale e la stessa
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adesione non è che un coinvolgimento emotivo che fa parlare di “compulsione”.
Famosa la citazione di Köing (G. Fabris, 2003): “La moda è una componente
profonda e critica della vita sociale degli uomini come il sesso, ed è
confezionata con la stessa miscela ambivalente di impulsi irresistibili e di
inevitabili tabù”.
Come Simmel nota solo apparentemente e in astratto qualsiasi cosa può divenire
moda. Nell’intima natura di alcune forme c’è una particolare disposizione a
realizzarsi proprio come moda, mentre alcune di esse vi si oppongono
dall’interno come il “classico” la cui essenza ha un carattere raccolto che non
offre appigli su cui innestare modifiche che possono portare ad una distruzione
dell’equilibrio. L’essenza della moda, invece, consiste nell’appartenere sempre
e soltanto a una parte del gruppo mentre tutto il gruppo è già avviato verso di
essa. Questo è il suo aspetto di convenienza. Come elemento di una massa
l’individuo prende parte a innumerevoli azioni anche a quelle che da lui stesso
sarebbero respinte con indignazione se compiute singolarmente. Chi, invece,
sente un impulso verso una distinzione individuale si comporta e si veste
consapevolmente “fuori moda”. Questo atteggiamento può derivare dal bisogno
di distinguersi dalla massa, ma alla base di questo bisogno non c’ è
indipendenza dalla massa, ma una posizione sovrana nei suoi confronti. Essere
fuori moda non implica affatto che venga rinnegato il contenuto sociale, ma
esasperato nella categoria della negazione. Infatti vestirsi fuori moda può
diventare di moda in intere cerchie di una società estesa.
Anche gli studi psicologici cercano di spiegare il contenuto delle mode. In
particolare Flugel. (J.C. Flugel,1930).
approfondisce il tema del conflitto decorazione - pudore: l’abito si carica degli
equivalenti culturali del sesso, che ne perpetuano la competitività in campo
sociale quanto a potere, ricchezza e autorità. Il dimorfismo sessuale delle culture
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occidentali viene spiegato da una sessualità più diffusa nella donna che le porta
a sviluppare una spiccata differenza decorativa.
Il contributo di Blumer (G.Fabris 2003) è molto interessante perché attribuisce alla
moda una funzione sociale, ma la lega fortemente al concetto di modernità (che
analizzeremo più avanti). Egli parla di “selezione collettiva” e nega che rapporti
gerarchici tra le classi animino oggi il processo delle mode. I gusti sono di per sé
un prodotto dell’esperienza, si sviluppano a partire da un’indeterminatezza
iniziale per arrivare ad uno stato di definizione e stabilità, ma possono decadere
e disintegrarsi. Il processo della moda implica sia la formazione sia l’espressione
del gusto collettivo e attraverso modelli e proposte gli attori della moda
abbozzano linee possibili lungo le quali il gusto incipiente può assumere una
forma definita.
In tempi recenti la moda è stata oggetto di studio anche da parte della semiotica.
Dopo Barthes, pioniere di questo filone con uno studio sul linguaggio della
moda e sul rapporto tra significanti e significati degli abiti, Umberto Eco
introduce il concetto di “codice comunicativo” con riferimento
all’abbigliamento. Un codice molto diverso rispetto ai linguaggi parlati e scritti,
con regole differenti e oggetto di un continuo cambiamento (U.Eco, 1979).
Secondo Sapir : “La difficoltà principale nel capire la moda nelle sue apparenti
stravaganze è la mancanza dell’esatta conoscenza dei simbolismi inconsci
relativi alle forme, ai colori, ai tessuti, alle pose e ad altri elementi espressivi di
una data cultura. Questa difficoltà è notevolmente aggravata dal fatto che alcuni
elementi espressivi tendano ad avere, in aree diverse, riferimenti simbolici
diversi”.( E.Sapir, 1931)
In effetti lo stesso abito, uno stesso stile, in una particolare occasione di vita o in
una stagione piuttosto che in quella successiva, può comunicare qualcosa di
completamente diverso, in rapporto alle tendenze in atto in un dato momento.
Inoltre va considerato che quello stesso abito nello stesso istante non ha lo stesso
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significato per tutte le classi sociali. Un esempio è dato dal processo di
affermazione dei jeans negli anni sessanta, la cui componente contestataria e
rivoluzionaria, fatta propria dai movimenti giovanili, non aveva nulla a che fare
con la classe sociale dei minatori e degli operai edili che avevano sempre
indossato jeans. Inoltre, la loro carica contestataria oggi è del tutto svanita se si
pensa alla “griffatura” dei nomi istituzionali della moda e al fatto che tutti
indossano un paio di jeans.
Indipendentemente dai diversi contributi degli studiosi su origini e significati
della moda, la struttura fondante del sistema moda è l’esistenza di un centro
relativamente distinto le cui innovazioni e modifiche si irradiano verso una
periferia, in chiave gerarchica o orizzontale. Questa struttura corrisponde
fedelmente alla realtà del settore se pensiamo a Parigi, centro dell’alta moda,
Milano del prêt-à-porter, Firenze della moda uomo bambino, Londra dello
streetwear e New York dello sportwear e il casual.
Oggi è possibile, dunque, parlare di pluralismo delle mode. Ciò significa, in
primo luogo, che una singola moda non può più spadroneggiare come in passato
la crinolina, il tubino, il new look o il tailleur pantalone. Oggi le mode non sono
in grado di imporre un conformismo uniforme all’intera società, in tutte le classi
e in ogni occasione d’uso. Ciò che domina in un particolare ambito non è detto
che automaticamente si possa diffondere in altri. E’ per questo motivo che oggi
più di ieri il rapporto tra creativi e management, la cui funzione è selezionare e
monitorare il target di riferimento specifico dell’azienda, diventa cruciale
nell’affermazione della marca e del prodotto.
La creatività dello stilista ha sempre più bisogno di essere orientata alla
soddisfazione di specifiche esigenze di mercato. Ciò comporta una maggiore
complessità rispetto al passato e rende ancora più critico il tema della gestione
della creatività.
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1.1 . Moda e modernità
Risalendo alla radice etimologica del termine, moda deriverebbe dal latino mos
nei diversi e correlabili significati di
ξ Usanza, costume, abitudine e tradizione;
ξ Buoni costumi e moralità;
ξ Legge, norma e regola.
Un’altra ipotesi farebbe derivare il termine da modus, nei significati di:
ξ Misura, limite e norma;
ξ Modo, maniera e genere;
ξ Criterio o modalità regolativa di scelta.
Si evince che, nonostante la moda sia espressione di un orientamento
individuale, deve comunque confrontarsi con un sistema di regolamentazione
sociale che definisce ciò che in un certo periodo e luogo può essere considerato
di moda.
Non è perciò casuale una sovrapposizione etimologica tra moda e moderno che
sottolinea la dimensione evolutiva e istituzionale del gusto.
A conferma di tale matrice vi sono le espressioni francese, inglese e tedesca
mode con lo stesso significato latino di mos: usanza, costume,foggia.
Il termine fashion deriva invece dal francese façon che deriva dal latino facere:
fare, costruire, realizzare. In questo caso è stata privilegiata la dimensione
artigianale, manifatturiera della costruzione dell’abito piuttosto che il carattere
culturale sociologico. “La moda è un processo in due sensi: è un ciclo dettato
dal mercato regolato dal desiderio e dalla domanda del consumatore; ed è un
moderno meccanismo per la costruzione ed invenzione dell’io. E’ da questo
punto di vista che la moda funziona come un fulcro per l’incontro e la
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negoziazione di mondi interni ed esterni. Come ha suggerito Marx gli uomini
sono autori della propria storia (sono gli uomini a fare la storia), ma non la fanno
come gli pare; non la fanno sotto circostanze scelte da loro stessi, ma la fanno
sotto le circostanze che incontrano direttamente, che sono date e trasmesse dal
passato”. Se la moda è un paradigma dei processi capitalistici che informano le
sensibilità moderne, allora è anche una metafora per la stessa modernità”.
(Eugenia Paulicelli, Introduzione).
La moda risulta quindi, per definizione, moderna, anche se non è
necessariamente progresso poiché l’affermazione di una moda prescinde dal
motivazioni legate alla superiorità tecnica o economica. A volte sono di moda
cose brutte e sgradevoli che sembra che la moda voglia dimostrare il suo potere
facendoci portare quanto c’è di più detestabile proprio la casualità con la quale
una volta impone l’utile, un’altra l’assurdo, una terza ciò che è del tutto
indifferente dal punto di vista pratico, dimostra la sua completa noncuranza delle
norme oggettive della vita e rinvia alle motivazioni sociali. (Simmel, p.18).
Se nel passato la moda aveva un’origine personale, si pensi alle calzature
medioevali con la punta all’insù che nacquero dall’esigenza di un nobile di
trovare una forma corrispondente ad un’escrescenza del suo piede, nell’epoca
attuale la creazione della moda è sempre più inserita nell’organizzazione del
lavoro propria dell’economia moderna: gli articoli vengono prodotti affinché
diventino di moda e quanto più un articolo è soggetto al rapido mutare della
moda, tanto più forte è la richiesta di prodotti dello stesso tipo a buon mercato.
Si crea così un vero e proprio circolo: tanto più rapidamente cambia la moda,
tanto più gli oggetti devono diventare economici e quanto più sono economici,
tanto più saranno invitanti per i consumatori e costringeranno così i produttori
ad un rapido cambiamento della moda. La fase della produzione è molto
delicata, ma i cambiamenti avvenuti nel settore permettono oggi giorno di
prevedere i mutamenti del mercato e i bisogni del consumatore cosicché la
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produzione può essere regolata in modo più preciso di prima e ci sono creatori di
moda e industrie che lavorano esclusivamente in questo settore.
I fashion-setting, organizzazioni specializzate nella formulazione e nel lancio
delle mode, svolgevano un ruolo predominante e indispensabile fino al
trentennio scorso. Il loro ruolo consisteva nel confezionare una moda attraverso
una tecnica di scouting e distribuirla al target di riferimento con l’aiuto
indispensabile dei mass media. La moda aveva quindi un carattere impositivo.
Oggi questa deve fare i conti con la maggiore consapevolezza e autonomia di
giudizio del consumatore, il quale sempre più tende a costruirsi un proprio stile,
ad abbinare marche e prodotti diversi per esprimere una sua personalità, più o
meno omologata e differenziata rispetto agli altri. Il consumatore diviene sempre
più il vero creativo, sempre attratto dalla proposte della moda, ma senza
assoggettivarvisi supinamente. E’ un consumatore “trasversale, neonomade e
individualista”.
A questo è dovuto il crollo del total look, vero protagonista degli anni Ottanta e
sintomo più palese della sudditanza del consumatore nei confronti del creativo.
Ecco, allora, il passaggio concettuale da moda a “stile”. Lo stile rappresenta la
manifestazione di un’identità individuale che in quanto tale può essere
trasversale alle mode, può attraversare proposte diverse di mode, prendendo da
ciascuna ciò che serve a definire un risultato del tutto personale. Questa
accezione di stile riflette la necessità emotiva e culturale di non subire
passivamente la moda, pur senza rinunciare alle opportunità che essa offre. Tale
evoluzione del consumatore si riflette anche nelle aziende della moda, che
sempre più si orientano ad una specializzazione per target e stile all’interno del
quale cercano di realizzare un’evoluzione continua in chiave moda. Si pensi allo
“stile Chanel” con il quel c’è stato il recupero dello stile Coco Chanel
adattandolo ai tempi che scorrono ma cercando di non stravolgerlo (bianco e
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