una personalità giuridica autonoma, permettendo loro di poter gestire
autonomamente i propri affari relativi all’ambito ecclesiastico,
all’istruzione, ai servizi sociali e ai rapporti giuridici interni. Entro i
gruppi minoritari l’identità culturale e il proprio senso di appartenenza
collettiva si incentravano sulla religione e sulla lingua, senza alcun
preciso riferimento territoriale e statale: era una concezione
“diasporica” e non territoriale della nazione, proprio per questo
compatibile con l’universalismo delle istituzioni ottomane (Zolo 2000,
11-12). I gruppi religiosi si costituivano in millet e possedevano una
certa autonomia amministrativa. Si era creata una società complessa e
divisa in compartimenti stagni, che coesistevano senza interferire tra
loro (Pirjevec 2002, 9).
Ma nel corso dell’ottocento, nell’area balcanica, iniziarono a
diffondersi idee che avevano a che fare con la rivoluzione francese,
con il nazionalismo romantico di matrice tedesca, con le guerre
napoleoniche e con la creazione degli stati nazionali. I vari gruppi
interni incominciavano a pensare con le categorie concettuali europee
e a rivendicare “un territorio, per un popolo con una religione”.
Ciò comportò dei grandi cambiamenti. Le guerre che esplosero nel
corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo possono oggi essere
lette come un cambiamento paradigmatico: come una crisi del sistema
imperiale dei millet e come dei tentativi di costruzione di stati
nazionali. Iniziarono a concretizzarsi dei progetti di tipo nazionalistico
con lo scopo di creare degli unici e grandi territori.
La Jugoslavia nacque come Regno dei Serbi, dei Croati e degli
Sloveni nel 1918 per decisione di Alessandro I Karageorgevic, salito
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al trono dopo lo smembramento dell’Impero austro-ungarico. Il nuovo
Stato comprendeva i Regni di Serbia e Montenegro e molte aree
dell’ex Impero Asburgico, tra cui la Bosnia-Erzegovina. Emersero
subito tensioni sociali e difficoltà politiche e amministrative, in
particolare si delineò uno scontro tra la componente serba e quella
croata. Il sovrano scelse la via autoritaria e con un colpo si Stato nel
1929 sciolse tutti partiti politici a carattere religioso o regionale e non
permise nessuna forma di associazione che non fosse approvata dal
governo, annullò la Costituzione del 1921, limitò i diritti civili, e
cambiò denominazione del regno, che divenne Regno degli Slavi del
Sud (Jugoslavia) diviso in nove entità amministrative. Negli anni
trenta si sviluppò il movimento croato filo-nazista e filo-fascista degli
ustacia (ribelli), finanziato e addestrato da Mussolini, mentre la
Germania delineava i suoi obiettivi strategici ed economici nell’area
Balcanica.
Con l’invasione dei tedeschi e degli italiani nel 1941, la resistenza
jugoslava si organizzò intorno a due capi, il colonnello serbo Draza
Mihajlovic e il comunista croato Josip Broz (detto Tito) che si
opponeva alla supremazia serba con l’obiettivo di pervenire ad una
federazione di Stati, riuscendo ad ottenere l’appoggio degli Alleati.
Tito allontanò dalla Jugoslavia il re Pietro II e proclamò la repubblica,
divenendo capo del Governo e Ministro degli esteri e assumendone
tutti i poteri. Nel novembre del 1945 si tennero le elezioni, per
l’istituzione dell’Assemblea costituente, che decretarono la vittoria dei
candidati del Fronte popolare che ottenne più dell’80% dei consensi; il
29 novembre la Costituente appena eletta proclamò la fine della
monarchia e la costituzione della Repubblica federale di Jugoslavia.
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Con l’entrata in vigore della nuova Costituzione nel gennaio 1946, si
insediarono un nuovo Parlamento nazionale e un Gabinetto, con il
maresciallo Tito come Primo Ministro e una rappresentanza comunista
sostanzialmente accresciuta rispetto al passato.
Alla conclusione della seconda guerra mondiale si costituì, pertanto,
sotto la guida del maresciallo Tito, la Repubblica federale jugoslava
(1945-1991), inizialmente ispirata al modello sovietico. Della
Federazione facevano parte sei repubbliche: Slovenia, Serbia, Croazia,
Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro, oltre alle due regioni
autonome del Kosovo e della Vojvodina.
Tito accarezzò l’idea di creare una grande federazione tra Jugoslavia,
Bulgaria e Albania, ma questo progetto incontrerà successivamente
l’opposizione dell’Unione Sovietica.
Dopo una prima fase di alleanza con l’Urss, i cui aiuti permisero di
realizzare la riforma agraria, la nazionalizzazione dell’industria, del
commercio e dei servizi, l’opposizione ad ogni ingerenza esterna portò
Tito alla rottura con Stalin e al rifiuto del modello di socialismo
fornito da Mosca. Fallita la prospettiva della federazione balcanica, la
Jugoslavia fu messa sotto accusa dall’Urss e dalle democrazie
popolari, che contro di essa applicarono il blocco economico, dopo
averla espulsa dal Cominform (1948). Tito si rivolse all’occidente per
compensare, con aiuti e prestiti, l’embargo degli altri paesi socialisti,
affermando la propria neutralità tra i due grandi blocchi internazionali.
Anche in politica interna, la Jugoslavia, si distaccò dal modello
sovietico, avviando il sistema economico dell’autogestione, secondo il
quale nelle fabbriche e nelle fattorie agricole i lavoratori eleggevano i
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dirigenti, insieme ai quali venivano decisi i salari, l’utilizzazione dei
profitti e la programmazione aziendale.
Sul piano sociale rimanevano di difficile soluzione le divergenze tra i
diversi gruppi all’interno dello stato federale, che solo il prestigio di
Tito sembrava in grado di appianare.
L’elemento di forza dell’iniziativa titoista era l’orgogliosa
rivendicazione della propria autonomia da Mosca. Divenne così uno
dei maggiori portavoce dei paesi Non Allineati, cercando alleati tra i
paesi emergenti del Terzo Mondo, paesi che nell’era della guerra
fredda cercavano di aprirsi uno spazio autonomo, senza doversi
subordinare alle direttive di Washington o di Mosca.
Nel 1953 fu promulgata una nuova Costituzione, in base alla quale
Tito fu eletto presidente della Jugoslavia e nel 1963 lo stesso nome
dello stato fu modificato in Repubblica federale socialista di
Jugoslavia.
Da paese in prevalenza contadino, si trasformò negli anni di regime in
un paese con una grande massa di operai recentemente inurbati,
sradicati dal loro tradizionale ambiente patriarcale e perciò facilmente
manovrabili a livello politico e legati alle suggestive mitologie
nazionaliste del passato (Pirjevec 2002, 27). Prese avvio un rapido
processo di trasformazione socialista della società jugoslava in cui si
voleva recuperare lo stampo dell’Impero ottomano cercando di
dissociare l’appartenenza nazionale da quella territoriale.
Il programma politico di Tito fu infatti incentrato su due punti
fondamentali: da un lato la difesa del territorio e dall’altro la
salvaguardia dell’unità del paese, a fronte della quale prese corpo, in
Jugoslavia, un sistema politico-sociale improntato sul binomio
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“fratellanza e unità”, che si mostrò efficace per oltre quaranta anni
(Bianchini 2000, 70).
Nel 1974 venne approvata dal parlamento una nuova Costituzione che
cercava di combinare il massimo del dirigismo con una struttura assai
duttile dello Stato, nella speranza di costruire un meccanismo capace
di conservarsi in vita. Il Partito comunista avrebbe dovuto garantire
l’unità della Federazione, attraverso l’ausilio dell’Armata popolare. In
questo rigido contesto veniva inserita la realtà flessibile delle sei
Repubbliche e delle due Province autonome, cui erano riconosciute
ampie libertà di gestione. Al vertice dello Stato fu organizzata una
presidenza collettiva che dopo la morte di Tito, nominato presidente a
vita, avrebbe dovuto essere capeggiata a rotazione ogni anno dal
rappresentante di una delle sei Repubbliche e delle due Province
autonome (Pirjevec 2002, 26).
Con la sua morte – avvenuta il 4 maggio 1980 in un centro clinico a
Ljubljana (Slovenia) e al quale funerale parteciparono uomini di Stato
di tutto il mondo – si accelerò il processo di involuzione
dell’esperienza federale, che mise allo scoperto e aggravò la crisi
economica e finanziaria del paese. Si riaccesero le aspirazioni
nazionaliste e si fecero sempre più aspre le tensioni etniche. Si aprì
una profonda crisi ideologica e la mancanza di forza coesiva del
Partito comunista fece salire tutti i “problemi a galla”. L’economia
interna decadde rapidamente: il tasso di disoccupazione si assestò al
15%; l’inflazione raggiunse un picco del 127%; il debito estero sfondò
il tetto dei venti miliardi di dollari; l’aggancio ufficiale della moneta
jugoslava (dinaro) al marco tedesco peggiorò ulteriormente la crisi già
in atto; il bilancio dello Stato federale andò incontro ad una
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bancarotta; scoppiarono contrasti fra il governo federale e il governo
delle repubbliche federate e delle province autonome; mentre masse di
lavoratori scendevano in piazza per protestare contro la politica del
governo centrale. In questo quadro di deterioramento delle condizioni
economiche e sociali della Federazione, si usurarono anche i
sentimenti di appartenenza e di lealtà politica (Zolo 2000, 19-20).
Successivamente alla sua scomparsa, furono sollevati molti dubbi
sulla possibilità che i suoi successori potessero mantenere l’unità della
Jugoslavia. Tito aveva saputo tenere unito il paese limitando le
tensioni nazionaliste.
Le cose infatti peggiorarono ulteriormente quando, sul finire del 1987,
alla presidenza della repubblica serba salì Slobodan Milosevic. Il suo
programma politico prevedeva una riduzione dell’autonomia
amministrativa precedentemente concessa alle province della Serbia
(come il Kosovo) e l’affermazione della supremazia di Belgrado sulle
altre repubbliche. Questa strategia convinse le nuove èlite post-
comuniste che ormai non era più possibile continuare a fingere di
essere uniti, quando la volontà di dividersi si presentava come una
scelta obbligata per contrastare le mire espansionistiche di Milosevic
(Pace 2004, 53).
Per affermare l’impossibilità della convivenza e la pretesa sui territori
furono scelti il marcatore religioso; il marcatore della lingua (e
laddove non esisteva una differenza linguistica si avviò un processo di
differenziazione con il recupero e l’invenzione di neologismi); e la
memoria di un passato che “non era passato”. Questo fu realizzato
attraverso processi di “costruzione del nemico”. Si assistette ad una
rimozione dalla memoria collettiva del regime e alla costruzione di
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diverse visioni “ufficiali” nazionalistiche, grazie anche al ruolo
determinante del sistema scolastico e a quello dei mezzi di
comunicazione di massa (esempio ne erano le televisioni che venivano
strumentalizzate dai leader nazionalistici), il cui obiettivo principale
era quello di voler far uscire la comunità dalla passività e realizzare il
proprio destino (Bonapace, Perino 2005, 25-26).
Negli anni ottanta si incomincerà quindi a preparare la guerra che poi
esploderà violentemente qualche anno dopo: non sarà un conflitto
esploso incontrollatamente, ma nel quale l’etnicizzazione e
l’identificazione religiosa avranno un’importanza rilevante. Le ragioni
che condussero alle guerre nei Balcani vanno rinvenute, quindi, nella
situazione di squilibrio che si creò già prima della morte di Tito.
I governi europei di fronte alla crisi nell’area balcanica reagirono
differentemente. La Gran Bretagna ebbe un ruolo diplomatico
centrale: il pensiero rilevante all’interno del governo inglese era quella
che in Jugoslavia si stessero scatenando “antichi odi etnici”, e quindi
ebbe una visione superficiale che all’inizio caldeggiava il
mantenimento della federazione. L’azione diplomatica britannica era
improntata alla ricerca di una soluzione globale concordata e alla
cautela nel prendere iniziative unilaterali: questa posizione era
particolarmente evidente nei confronti dell’attivismo americano.
La posizione della Germania era importante, perché nella crisi
jugoslava vedeva un’opportunità di cominciare la sua trasformazione
da umile penitente, in gigante responsabile nel quadro della politica
europea.
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Gli Stati Uniti e la Russia all’inizio degli anni novanta erano
impegnati a ridefinire le proprie strategie in un mondo non più
bipolare. Entrambi gli ex contendenti entrarono in scena in maniera
più decisa nella gestione della crisi, ma in un secondo tempo, mentre
all’inizio lasciarono fare agli europei. La politica estera di Mosca
venne molto influenzata dalla transizione interna; Eltsin doveva fare i
conti con i nazionalisti della Duma e ricercava una costante
collaborazione e partnership con l’Europa, e almeno all’inizio cercava
di accodarsi alle iniziative europee. L’iniziale sensazione degli esperti
del governo Bush (che nel 1992 fu sconfitto da Clinton) era quella di
essere di fronte a un problema irrisolvibile. Se la guerra in Bosnia
appariva ai loro occhi come l’aggressione di uno stato contro un altro,
l’amministrazione americana nel primo periodo non aveva nessuna
intenzione di impegnarsi in prima persona in Jugoslavia.
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1. Bosnia-Erzegovina: 1992 - 1995
La guerra si è protratta dal 6 aprile 1992 al 12 ottobre 1995 ed è
diventata l’esempio archetipo, il paradigma del nuovo tipo di guerra
(Kaldor 1999, 43).
La Bosnia-Erzegovina è stata fino ad oggi la maggiore vittima del
processo di decomposizione dell’ex Repubblica socialista federale di
Jugoslavia (Ivekovic 2005, 39). Il conflitto, durante l’intero arco degli
anni novanta, possiede un valore particolare proprio a causa delle
forme di violenza che lo hanno contraddistinto. Esso ha incarnato un
elemento di odio tra comunità diverse all’interno di uno stesso
territorio, dove le differenze etniche o religiose hanno nutrito e
giustificato i crimini.
A sancire il definitivo tramonto della Federazione jugoslava,
contribuirono le elezioni politiche che si svolsero tra il novembre e il
dicembre del 1990, poiché decretarono la netta vittoria dei partiti
nazionalisti in Bosnia, in Serbia e in Montenegro.
Le elezioni del 1990 videro il predominio dei partiti nazionalisti nelle
quattro repubbliche.
In Bosnia i partiti a carattere etnico-nazionalista ebbero la meglio:
l’HDZ (Partito Democratico Croato) rappresentava i nazionalisti
croati e dipendeva direttamente da Zagabria. Il leader di questo partito
era Franjo Tudjman. Il secondo era l’SDA (Partito di Azione
Democratica), capeggiato da Alija Izetbegovic e fortemente a
caratterizzazione musulmana, mentre il terzo era l’SDS (Partito
democratico serbo), era legato a Radovan Karadzic e a forte
caratterizzazione serba.
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