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fronteggiare la crisi. Infine, vengono presentate le possibili soluzioni, di breve e lungo periodo,
proposte quest’anno dalla comunità internazionale durante il Forum mondiale dell’industria
agro-alimentare, nel corso del vertice ONU in Svizzera e nella Conferenza della FAO sulla
Sicurezza alimentare mondiale che si è svolta a Roma dal 3 al 5 giugno.
Il secondo capitolo può essere suddiviso in due parti principali. Nella prima analizzo le
caratteristiche del Doha Round e la sua tormentata evoluzione temporale che, passando
attraverso la sospensione formale dichiarata dal direttore generale della WTO nel luglio 2006,
si è conclusa con un nulla di fatto nel summit di Ginevra del luglio scorso. Soffermandomi
proprio sulla sospensione del 2006, propongo una serie di spunti di riflessione sul processo di
liberalizzazione commerciale che possono derivarne e una simulazione del potenziale impatto
sui Paesi in via di sviluppo di alcuni possibili risultati del Round che si differenziano per
l’entità della liberalizzazione. La seconda parte verte sul ruolo dell’agricoltura nei Least
Developed Countries (LDCs) e sulle conseguenze che le politiche di sostegno agricolo europee
e statunitensi hanno su tali Paesi.
Nel terzo e ultimo capitolo esamino la questione del debito gravante sui Paesi del Sud del
mondo: un problema da risolvere per raggiungere l’ottavo Obiettivo di Sviluppo del Millennio.
Dopo aver accennato alle cause della sua formazione, mi soffermo ad analizzare il suo impatto
sulla crescita economica in alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Asia. Infine, presento tre
recenti programmi di sgravio del debito: il ―Brady Plan‖ del 1989, l’―Iniziativa Heavily
Indebted Poor Countries‖ del 1996 e la ―Multilateral Debt Relief Initiative‖ del 2005. Di
ciascuno analizzo le conseguenze concentrandomi poi, in particolare, sulla capacità o meno
dell’ultima iniziativa di stimolare lo sviluppo economico dei Paesi più poveri del mondo e di
aumentare le risorse spese per i servizi sociali negli Heavily Indebted Poor Countries africani.
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Sito internet dell’UNICEF (―www.unicef.it‖) – Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
CAPITOLO PRIMO
L’attuale crisi alimentare.
1.1 Dimensione del fenomeno. Il caro cibo minaccia il primo Obiettivo
di Sviluppo del Millennio: “Estirpare la povertà estrema e la fame
entro il 2015”.
I Capi di Stato e di Governo di tutti gli Stati membri dell’ONU si riunirono dal 6 all’8
settembre del 2000 a New York nel ―Vertice del Millennio‖, ponendo la propria firma in calce
alla ―Dichiarazione del Millennio‖, con la quale affermarono la loro responsabilità verso
l’intera specie umana, definendo una serie di ambiziosi propositi da conseguire entro il 2015.
Si tratta degli otto ―Obiettivi di Sviluppo del Millennio‖: otto traguardi misurabili e
inequivocabili, vincolanti per l’intera comunità internazionale, che affidavano all’ONU un
ruolo centrale nella gestione del processo della globalizzazione.1
OSM 1 Estirpare la povertà estrema e la fame
OSM 2 Garantire a tutti l’istruzione primaria
OSM 3 Promuovere pari opportunità fra i sessi
OSM 4 Ridurre la mortalità infantile
OSM 5 Migliorare la salute materna
OSM 6 Combattere HIV/AIDS, la malaria e altre malattie
OSM 7 Assicurare la sostenibilità ambientale
OSM 8 Sviluppare un’alleanza globale per lo sviluppo
Il 2008 è un anno importante perché si colloca temporalmente a metà strada del periodo (2000-
2015) durante il quale la comunità internazionale è tenuta ad impegnarsi attivamente per il
raggiungimento dei suddetti obiettivi. L’attuale situazione, pur essendo molto variegata,
mostra chiaramente una serie di preoccupanti ritardi e rallentamenti che mette a rischio il loro
effettivo raggiungimento nel termine stabilito.
In particolare, per quanto riguarda il primo Obiettivo di Sviluppo del Millennio si nota che
sebbene sia probabile un’effettiva riduzione della povertà a livello globale grazie ad una
considerevole crescita economica nello scorso decennio (tra il 1990 e il 2004 il numero di
persone in condizioni di estrema povertà è diminuito di 278 milioni di unità), permangono
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―Global Monitoring Report 2008‖.
serie difficoltà nella lotta alla fame e alla malnutrizione, rese recentemente più acute
dall’esponenziale crescita dei prezzi del cibo e dell’energia. Infatti, in questi anni il trend
positivo di crescita dei Paesi in via di sviluppo ha avuto come sfondo l’aumento mondiale dei
prezzi dei beni, come mostrato dal seguente grafico.
Figura 1.1: Commodity price indexes, 1991- 2007
Fonte: ―Global Monitoring Report 2008‖ (World Bank).
I prezzi mondiali delle principali merci esportate dai Paesi in via di sviluppo sono aumentati
addirittura del 100-300% negli scorsi quattro anni, soprattutto a causa dell’accelerazione
verificatasi nel 2008. Infatti, già tra il 2005 e il 2007 il prezzo del mais era aumentato
dell’80%, quello del latte del 90%, il grano del 70% e il riso del 25%. Uno studio della Banca
Mondiale2 stima che la crescita del prezzo del cibo degli ultimi anni abbia fatto aumentare di
100 milioni il numero di coloro che vivono in estrema povertà, cancellando sette anni di
progressi su questo fronte e portando a quasi un miliardo il numero delle persone che soffrono
la fame. Tale fenomeno non sembra essere temporaneo ed è quindi verosimile che persista nel
medio periodo, così come mostrano le previsioni delle principali organizzazioni (FAO, OECD,
USDA) che tengono regolarmente monitorati i prezzi dei beni ed elaborano proiezioni al
riguardo. La seguente tabella mostra tali incrementi: fino al 2015 i prezzi dei prodotti agricoli
rimarranno superiori ai livelli del 2004, anche se si nota l’inizio di un’inversione di tendenza
già nel 2009-2010 che diventa più marcata nel 2015.
Tabella 1.1: Index of projected real food crop prices, 2004 = 100
Fonte: ―Rising food prices: policy options and World Bank response‖.
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―Il Sole 24 Ore‖ – Martedì 22 aprile 2008, N.111 e sito internet della FAO (―www.fao.org‖).
A conclusione di questa presentazione generale del problema propongo una mappa3 che
evidenzia i Paesi più a rischio secondo la FAO (agenzia dell’ONU per l’agricoltura e
l’alimentazione) localizzati in Africa, in Asia e in America Centro-Meridionale.
1.2 Analisi delle possibili cause, con particolare riferimento al
dibattito sui biocarburanti.
Da numerosi interventi e documenti della FAO emerge che la prima causa della crisi
alimentare risiede negli alti tassi di crescita dell’economia mondiale degli ultimi anni, in
particolare nel rapido aumento e nella diversificazione della domanda soprattutto nelle
economie emergenti, a partire da India e Cina, dove una parte consistente del mercato interno
si sta rivolgendo ad alimenti diversi da quelli tradizionali (diminuiscono i consumi di riso e
aumentano quelli di carne, un settore che consuma un’enorme quantità di cereali). L’offerta si
è dimostrata incapace di rispondere a questa situazione, sia a causa di eventi climatici estremi
(siccità e inondazioni) che hanno ridotto drasticamente le produzioni agricole, sia per effetto di
malattie del bestiame in alcune parti del mondo. Tali fattori hanno portato le scorte al minimo,
causando il progressivo esaurimento delle riserve alimentari. In ogni caso, non va dimenticato
che alla base di questa offerta inadeguata vi sono decenni di prezzi bassissimi che hanno
prodotto investimenti scarsi, scelte tecnologiche sbagliate e politiche economiche distorte.
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4 Dati aggiornati a luglio 2008 mostrano che il prezzo del petrolio quest’anno è salito dai 90$ al barile in febbraio al nuovo top
assoluto di $147,27 l’11 luglio.
Infatti, gli investimenti in agricoltura languono soprattutto nelle economie emergenti che
hanno concentrato gran parte delle proprie risorse sulla crescita dell’industria. Dopo la
―rivoluzione verde‖ che trent’anni fa ha permesso all’India e ad altri Paesi asiatici di
raggiungere l’autosufficienza alimentare, adottando nuove tecnologie ad alto rendimento, le
campagne sono state trascurate. E’ un problema molto serio perché quasi i due terzi dei poveri
del mondo vive nel Sud e nel Sud-Est dell’Asia.
Ad aggravare l’attuale crisi intervengono anche il calo del dollaro e una finanza globale in
stato di turbolenza.
Un ruolo importante è giocato, poi, dalle regole protezionistiche degli Stati Uniti e dell’Unione
Europea che applicano sussidi per contenere le produzioni agricole. Al riguardo, il direttore
della WTO Pascal Lamy ha affermato che la conclusione dei negoziati del Doha Round
potrebbe portare a un taglio sostanziale di queste distorsioni.
Alle suddette cause si aggiunge la produzione ―non sostenibile‖ di varie tipologie di
biocarburanti da parte di alcuni Paesi (in particolare USA, UE e Brasile, ma anche i Paesi
asiatici in via di sviluppo) che genera effetti negativi sui prezzi dei prodotti alimentari e sulla
sicurezza ambientale. L’elevato prezzo del petrolio (triplicato negli ultimi cinque anni,
superando i 100$ al barile4, a causa della riduzione delle scorte, della carenza di nuovi
investimenti e della vorace domanda di energia delle economie emergenti in forte crescita), la
sicurezza energetica e i cambiamenti climatici sono le maggiori preoccupazioni che hanno
spinto i Governi a finanziare massicciamente la produzione di biocarburanti, sottraendo suolo
alla produzione di cibo. La sequenza che ha determinato una reazione a catena su tutti i mercati
alimentari è la seguente: gli elevati sussidi dei governi (USA in particolare) hanno causato
l’aumento della domanda di materie prime per produrre biofuels (grano, soia, mais, olio di
palma), spiazzando le produzioni destinate all’alimentazione umana e ai foraggi. La scarsità
alimentare dei suddetti cereali ha innescato la crescita dei loro prezzi. A ciò si sono aggiunte
vaste deforestazioni in Cina, India, Malaysia, Indonesia e Sud America, indotte dalla domanda
di derrate per biocarburanti e cibo. La distruzione di un intero pezzo di Foresta Amazzonica,
grande come l’intero Stato del Rhode Island, bruciato e poi riconvertito in pascolo e colture di
soia, così come la deforestazione del Mato Grosso per gli stessi motivi, sono solo alcuni dei
numerosi esempi. A questo punto, nell’attuale mondo globalizzato, l’intera filiera agricola è
gravemente sotto pressione e crescono anche i prezzi dei fertilizzanti. In un contesto di alti
prezzi delle materie prime per i biofuels, le produzioni di biocarburanti non sussidiate vanno in
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―Use of U.S. Croplands for Biofuels Increases Greenhouse Gases Through Emissions from Land-Use Change‖ - Timothy
Searchinger, Ralph Heimlich, R. A. Houghton, Fengxia Dong, Amani Elobeid, Jacinto Fabiosa, Simla Tokgoz, Dermot Hayes,
Tun-Hsiang Yu. (Science, 29 February 2008).
6 ―Land Clearing and the Biofuel Carbon Debt‖ - Joseph Fargione, Jason Hill, David Tilman, Stephen Polasky, Peter Hawthorne.
(Science, 29 February 2008).
7 ―Approaches and initiatives concerning sustainability criteria for bioenergy‖ (June 2008) e ―Economic assessment of biofuel
support policies‖ (July 2008).
perdita, determinando una serie di fallimenti. Scoppia quindi la bolla dell’etanolo (―dot.corn‖)
e cominciano le crisi alimentari e le proteste nei Paesi poveri.
Data la grave situazione, sorge necessariamente una domanda: i biocarburanti, una delle cause
dell’attuale crisi alimentare mondiale, rappresentano un valido strumento nella lotta
all’inquinamento? E’ un argomento al centro del dibattito corrente e le risposte fornite sono
varie. Innanzitutto ci sono gli studi scientifici, come quello realizzato da nove studiosi,
capofila l’Università di Princeton, pubblicato su ―Science‖ lo scorso febbraio5 che ha provato
ad inserire in un modello agricolo mondiale le emissioni di CO2 conseguenti alla
deforestazione indotta dalla crescita delle colture di biofuels. Il risultato è stato che anziché
risparmiare il 20% di emissioni, i biofuels quasi le raddoppiano in trent’anni e aumentano i gas
serra per 167 anni. Un secondo studio dell’Università del Minnesota6 mostra come la
conversione di foreste, savane e praterie crei un ―debito carbonico‖ dalle 17 alle 420 volte la
riduzione (teorica) ottenibile dai biocarburanti (anche quest’ultima molto dubbia). Coloro che
appoggiano tale tesi, secondo la quale prevarrebbero gli effetti negativi derivanti dalle
produzioni di biofuels, sottolineano alcuni dati allarmanti, come il fatto che un litro di etanolo
da granoturco richieda circa quattromila litri di acqua e che un pieno di bioetanolo per un suv
richieda un quantitativo di mais tale da alimentare una persona per un anno.
Dall’altra parte vi sono gli studiosi che sottolineano la necessità di considerare con molta
cautela le conclusioni relative all’impatto negativo dei biocarburanti, poiché essi non sono tutti
uguali. Al riguardo la ―Global Bioenergy Partnership‖, istituita nel 2005 dal gruppo G8
allargato a Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, che si occupa dello sviluppo delle
bioenergie a livello globale, al fine di contribuire alla riduzione delle emissioni di anidride
carbonica e alla diversificazione delle fonti energetiche, ha completato la preparazione di un
dossier7 sui criteri di sostenibilità dei biocarburanti che è stato presentato al vertice del G8
svoltosi dal 7 al 9 luglio 2008 nell'isola giapponese di Hokkaido. Le prime conclusioni
mostrano che:
1. Il bioetanolo da mais prodotto negli Stati Uniti ha un’efficienza nella riduzione delle
emissioni di carbonio attorno al 13% e ha una resa di un’unità e mezzo di energia per
ogni unità impiegata nella produzione; non appare sostenibile se confrontata con
l’impegno di suoli agricoli per la produzione primaria e i conseguenti aumenti dei
prezzi dei prodotti, i consumi di acqua e gli elevati costi.
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8 ―Un cambio di rotta verso la bioenergia (molti i buoni motivi per passare ai biocombustibili)‖, 25 aprile 2006.
2. Il bioetanolo da canna da zucchero, largamente prodotto in Brasile, ha un’efficienza
nella riduzione delle emissioni di carbonio attorno al 90% e ha una resa di oltre otto
unità di energia ogni unità impiegata nella produzione; è competitivo in modo
marginale con le altre produzioni agricole e non incide sui prezzi dei prodotti
alimentari. Secondo un rapporto della FAO del 20068 il potenziale di produzione di
bioetanolo da canna da zucchero è molto elevato nelle zone tropicali del pianeta, dove
esistono vaste aree marginali non coltivate che potrebbero produrre biocombustibili.
Queste aree corrispondono ai Paesi più poveri e rappresentano, quindi, una potenziale
fonte di ricchezza e sviluppo, se coltivate a fini energetici.
3. L’etanolo ottenuto dal grano, come accade in Europa, ha una resa energetica più o
meno pari all’input.
4. L’etanolo e il biodiesel di ―seconda generazione‖, derivati da biomassa cellulosica
(lolla di riso, bagassa da canna da zucchero, residui agricoli, rifiuti solidi urbani) o
dalle alghe, saranno disponibili entro i prossimi 10-15 anni e potranno essere
competitivi con i combustibili fossili senza compromettere la sicurezza ambientale e
quella alimentare.
Sulla base di quanto appena esposto, tali studiosi sostengono che negli Stati Uniti e in Europa
(dove si produce etanolo anche da barbabietole e colza) il processo sia antieconomico e che si
regga sull’erogazione di forti sussidi pubblici. In particolare negli USA l’utilizzo del mais per
l’etanolo viene promosso anche con barriere all’import e alti dazi sull’etanolo brasiliano. Si
nota così che le politiche dei Paesi industrializzati a favore dei biocarburanti sono in parte
guidate dal protezionismo agricolo.
In conclusione, sembrerebbe provata la sostenibilità dell’etanolo ricavato dalla canna da
zucchero, la cui unica alternativa sostenibile sarebbe rappresentata da quello di origine
cellulosica, il cosiddetto etanolo di ―seconda generazione‖, per il quale però esistono ancora
forti scogli tecnologici da superare.
Alla luce di quanto appena descritto, come stanno reagendo i Governi europei? Nell’aprile del
2008 la Germania ha annunciato la drastica cancellazione del piano sui biocarburanti che, già
nel 2009, avrebbe dovuto avviare l’uso generalizzato di benzina al 10% di etanolo per l’intero
territorio nazionale. La motivazione ufficiale fornita è di tipo tecnico: la nuova miscela
richiederebbe il rinnovo di un milione di auto, a spese dei consumatori. Ovviamente, a fianco
di questa giustificazione gioca un ruolo fondamentale la concomitante crescita dei prezzi delle
derrate alimentari. Va sottolineato che già un anno fa Paesi come Gran Bretagna e Germania si
sono dichiarati contrari all’obiettivo obbligatorio di utilizzare il 10% di biofuel nel settore dei