importanti per una serie di elementi interpretativi che la Corte fornisce riguardo ad
alcuni aspetti che interessano la questione sviluppata nel terzo capitolo.
Il secondo capitolo si conclude con delle osservazioni generali sulla direttiva in
questione, mettendo particolarmente in luce come essa ricerchi un difficile
bilanciamento fra due principi contrapposti, l’affermazione dell’atipicità del lavoro a
tempo determinato e la flessibilizzazione del mercato del lavoro al fine di incentivare
l’occupazione.
Nel terzo capitolo vengono poi affrontate le questioni centrali di questa tesi, la
presunta violazione della clausola di non regresso e l’eccesso di delega della
normativa italiana di attuazione nel settore privato della direttiva 99/70/CE,
rappresentata dal d. lgs. 368/2001 e successive modifiche.
L’analisi della normativa interna in relazione a tali questioni sarà affrontata tenendo
conto degli elementi che sono stati sviluppati in precedenza, attinenti al contenuto
della direttiva 99/70/CE e all’interpretazione giurisprudenziale della CGE, del
corposo dibattito sviluppatosi in seno alla dottrina e di alcuni elementi forniti dalla
giurisprudenza interna.
La presunta violazione della clausola di non regresso sarà esaminata prendendo in
considerazione gli aspetti della disciplina interna verso i quali sembra concretizzarsi
un regresso delle tutele per il lavoratore a tempo determinato rispetto alla disciplina
precedente, salvo poi riferirsi al livello generale di tutela, determinato dai vari aspetti
analizzati, in particolare quelli caratterizzanti la normativa.
La conclusione a cui l’adozione di tale metodo perviene è che il d. lgs. 368/2001,
come in seguito modificato, non sembra violare la clausola di non regresso contenuta
nella direttiva 99/70/CE.
Quello che invece sembra configurarsi come un vizio della normativa, è la presenza
di un eccesso di delega del decreto in esame, in quanto costituisce una riforma del
lavoro a tempo determinato, non autorizzata dalla delega parlamentare.
Alla parte finale di questa tesi, le conclusioni, segue un’appendice, che illustra gli
effetti che alcune delle recentissime modifiche al d. lgs. 368/2001 hanno avuto
6
relativamente alle questioni della presunta violazione della clausola di non regresso e
dell’eccesso di delega.
7
CAPITOLO 1
LA POLITICA SOCIALE EUROPEA E LA REGOLAMENTAZIONE DEI
LAVORI ATIPICI.
1.1 La politica sociale nel Trattato di Roma del 1957.
Questo capitolo si propone di analizzare l’evoluzione normativa della politica sociale
e del dialogo sociale, che ne segue le stesse dinamiche espansive o meno
2
, in una
prospettiva storica: dalla nascita della CEE fino ai giorni nostri. Dalle scarne norme
in materia contenute nel Trattato di Roma si è infatti registrata una espansione del
settore sociale scandita soprattutto dal susseguirsi dei vari trattati europei.
Il capitolo passerà poi ad analizzare più in dettaglio la regolamentazione comunitaria
dei lavori atipici.
La politica sociale è stata fin dall’inizio del processo di integrazione europea definita
come una politica a se stante, anche se non una delle principali. Il Trattato che
istituiva la Comunità Economica Europea, adottato a Roma nel 1957 ed entrato in
vigore l’anno successivo, conteneva scarse norme di natura programmatica in materia
sociale, a fronte di una dettagliata regolamentazione di aspetti economici, tariffari e
doganali, tanto da far parlare di una volontaria “frigidità sociale”
3
attribuita ai sei
Stati fondatori.
Il basso profilo adottato in materia sociale può trovare una spiegazione in tre diverse
considerazioni:
2
V. Baylos Grau A., Caruso B., D’Antona M. e Sciarra S. (a cura di), Dizionario di Diritto del Lavoro Comunitario,
1996, Bologna, Monduzzi editore, p. 165: “il processo evolutivo del dialogo sociale appare simile e per certi versi
parallelo a quello che caratterizza la politica sociale nel corso della storia giuridico-politica della Comunità”.
3
Cfr. Santoro Passarelli Giuseppe, Tendenze della politica sociale nell’ordinamento comunitario, in Diritto delle
Relazioni Industriali, 1995, n. 2, p. 141.
8
a) Le rilevanti differenze fra i sistemi sociali degli Stati membri rendevano
difficile un’incisiva azione sociale della nascente Comunità mirata ad una loro
armonizzazione;
b) Secondo una logica fortemente liberista che caratterizza tutto l’impianto
giuridico europeo
4
, il funzionamento del mercato comune avrebbe
automaticamente favorito i due obiettivi sociali principali che gli estensori del
trattato si proponevano, ovvero l’armonizzazione dei sistemi sociali degli Stati
membri e il “miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano
d’opera che consenta la loro parificazione nel progresso” (art. 117)
5
.
c) Come risulta chiaramente dalle disposizioni del trattato, lo scopo principale
della CEE era l’instaurazione di un mercato unico delle merci, delle persone,
dei servizi e dei capitali. Funzionalmente a tale obiettivo si rendeva necessario
armonizzare i sistemi sociali degli Stati membri per non avere uno squilibrio
eccessivo all’interno del mercato comune che avrebbe falsato la concorrenza.
Si intendeva insomma limitare eventuali effetti di dumping sociale che
consentissero a Paesi con bassa protezione sociale dei lavoratori di ottenere
prezzi di vendita più bassi dovuti ai minori costi sociali sostenuti, ad esempio
utilizzando la forza lavoro femminile in condizioni di sottoremunerazione
rispetto a quella maschile. Se nel trattato è stata inserita una parte riguardante
la politica sociale lo si deve principalmente all’azione della Francia che riuscì
ad ottenere tale concessione allo scopo di non risultare penalizzata dal proprio
sistema sociale fortemente garantista
6
, e non perché gli Stati volessero dotare la
Comunità Economica Europea di efficaci strumenti di azione in campo sociale.
Le norme in materia di politica sociale contenute nel Trattato di Roma,
successivamente in parte modificate a seguito del processo evolutivo di integrazione
europea, potevano essere classificate in due tipologie a seconda delle finalità che si
4
Cfr. Quaderni Federalisti, nuova serie, n. 33 in http://www.cifeitalia.org/quaderni_%20federalisti/33.pdf.
5
Cfr. Mazzoni G. (a cura di), La politica sociale della Comunità Economica Europea, 1960, Milano, Giuffrè Editore,
pp. 3-4.
6
Cfr. Quaderni Federalisti, nuova serie, n. 33 in http://www.cifeitalia.org/quaderni_%20federalisti/33.pdf.
9
prefiggevano: l’armonizzazione dei sistemi sociali degli Stati membri o il sostegno
dell’impiego e la regolazione del mercato del lavoro
7
. Tale suddivisione non deve in
ogni caso essere rigidamente considerata, trattandosi soltanto di una suddivisione
schematica non presente nel trattato ma elaborata dalla dottrina a scopo chiarificatore.
Vi possono essere infatti materie a cavallo fra le due categorie, come la formazione
professionale, compresa nel trattato sia fra le materie oggetto di armonizzazione (art.
118
8
) sia come misura per incentivare l’occupazione. La materia stessa
dell’occupazione era compresa nell’articolo 118 come materia soggetta alla
collaborazione fra gli Stati membri.
Armonizzazione dei sistemi sociali degli Stati membri.
L’articolo 117 (il primo del Capitolo terzo del Trattato di Roma, interamente dedicato
alla politica sociale) affermava che “gli Stati membri convengono nella necessità di
promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera
9
che consenta la loro parificazione nel progresso”. Tuttavia, come sopra accennato,
tale obiettivo, da raggiungere attraverso l’armonizzazione dei sistemi sociali degli
Stati membri, doveva essere in primo luogo il risultato automatico del
“funzionamento del mercato comune”. Se questo “automatismo del mercato” non
fosse bastato a conseguire una tale armonizzazione, si sarebbe potuto ricorrere alle
“procedure previste dal presente trattato e dal ravvicinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative” regolamentate dall’articolo 100.
Il ravvicinamento delle legislazioni (in generale e quindi anche in materia sociale)
doveva però avvenire, a norma dall’articolo 3 h del Trattato di Roma, “nella misura
necessaria al funzionamento del mercato comune”. È quindi palese l’intenzione degli
7
Tale classificazione è condivisa da buona parte della dottrina. Cfr. ad. es.: Roccella M. e Treu T., Diritto del lavoro
della Comunità Europea, 2002, 3° ed., Cedam, Padova, p. 6; Kravaritou-Manitakis P., L’emploi selon le Traité de Rome
et l’action communautaire. Textes et realités in Rivista di Diritto Europeo, 1976, fasc. 1, p. 20; e Pocar F., Diritto
comunitario del lavoro, 1983, Cedam, Padova, p. 6.
8
La numerazione degli articoli del Trattato che istituisce la Comunità (Economica) Europea è stata modificata dal
Trattato di Amsterdam entrato in vigore il 1 maggio 1999. I numeri degli articoli si riferiscono alla numerazione
precedente al trattato di Amsterdam.
9
Il concetto di “mano d’opera” è stato fin da subito interpretato estensivamente, riferendosi non solo ai lavoratori
salariati ma anche a tutti coloro che “vivono essenzialmente del reddito del proprio lavoro”. Cfr. Mazzoni G. (a cura di),
La politica sociale della Comunità Economica Europea, 1960, Giuffrè Editore, Milano, p. 7.
10
Stati fondatori di attribuire alla politica sociale un carattere secondario rispetto
all’obiettivo primario dell’instaurazione del mercato comune e di prevedere
un’armonizzazione delle norme sociali degli Stati membri soltanto nel caso in cui tali
norme avessero inciso sul funzionamento del mercato unico e soltanto se il mercato
non avesse provveduto automaticamente a tale armonizzazione.
L’articolo 118 forniva una lista non tassativa delle materie ove si auspicava “una
stretta collaborazione fra gli Stati membri”, che in pratica comprendeva tutti gli
aspetti principali di politica sociale
10
, ovvero “l’occupazione, il diritto al lavoro e le
condizioni di lavoro, la formazione e il perfezionamento professionale, la sicurezza
sociale, la protezione contro gli infortuni e le malattie professionali, l’igiene del
lavoro, il diritto sindacale e le trattative collettive tra datori di lavoro e lavoratori.”
Relativamente a tali materie, il ruolo della Commissione Europea, l’istituzione
sovranazionale per eccellenza, era assai limitato. Ad essa era riconosciuto
esclusivamente un ruolo di promozione della collaborazione fra gli Stati membri, di
presentazione di studi e adozione di pareri non vincolanti. La politica sociale
rimaneva quindi saldamente in mano agli Stati nazionali, limitando ogni azione
comunitaria.
Il trattato affermava poi il principio di parità di retribuzione per uno stesso lavoro fra
lavoratori maschi e lavoratrici femmine (art. 119) e quello di mantenimento
dell’equivalenza esistente nei regimi di congedi retributivi (art. 120). A differenza
delle norme di carattere puramente programmatico, tali principi erano formulati in
modo chiaro e preciso così da risultare self executing ovvero di immediata
applicazione
11
.
A parte la parità uomo – donna e la materia dei regimi contributivi, le norme di
politica sociale contenute nel trattato non dotavano di una base giuridica propria
l’azione comunitaria in tale settore. La base giuridica era pertanto quella rinvenibile
10
Cfr. Roccella M. e Treu T., op. cit., p. 8.
11
Ibidem, p. 206. Da notare come la Corte di Giustizia Europea abbia inizialmente ritenuto applicabile il principio
soltanto riguardo alle discriminazioni dirette, estendendolo poi anche quelle indirette. Sempre la CGE ha affermato
anche che la norma è da considerarsi direttamente applicabile davanti alla magistratura nazionale, a prescindere dal
recepimento interno del principio. Con la sentenza Defrenne del 1976 è stata poi riconosciuta l’efficacia diretta del
principio anche nei rapporti fra privati.
11
dagli articoli 100 e 235
12
. Il primo fungeva da base giuridica generale per il
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli
Stati membri che avessero avuto un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul
funzionamento del mercato unico. Il secondo dotava di una base giuridica accessoria
quei provvedimenti che si rendevano “necessari, nel funzionamento del mercato
comune, ad uno degli scopi della Comunità” ma che non erano stati previsti dal
trattato che non conferiva alla comunità i poteri d’azione a tal uopo richiesti.
Entrambi gli articoli quindi legittimavano quanto sopra detto a proposito della
subordinazione della politica sociale rispetto all’obiettivo primario dell’instaurazione
del mercato unico, ed inoltre richiedevano l’unanimità in sede di Consiglio, che
rappresentava un ulteriore intralcio all’attuazione di una politica sociale comunitaria.
Sostegno dell’impiego e regolazione del mercato del lavoro.
Il Trattato di Roma non prevedeva una vera e propria politica dell’occupazione, ma è
possibile parlare in proposito di una più modesta politica di sostegno all’occupazione.
Nonostante l’occupazione fosse una preoccupazione centrale del trattato, come si
evince dal preambolo ove si afferma che gli Stati firmatari riconoscono come scopo
essenziale il miglioramento costante delle condizioni di occupazione, scarsi si
presentavano essere gli strumenti di cui la nascente Comunità Economica Europea si
dotava per affrontare il problema della disoccupazione in chiave sociale, nella
convinzione che il miglioramento delle condizioni occupazionali sarebbe stato un
effetto automatico dello sviluppo economico.
L’azione comunitaria tesa a sostenere l’occupazione si concretizzava nelle norme
riguardanti la libera circolazione dei lavoratori, la formazione professionale ed il
Fondo Sociale Europeo
13
.
La libertà di circolazione dei lavoratori era sancita dall’articolo 48 per quanto
riguardava i lavoratori subordinati; dall’articolo 52 sul diritto di stabilimento e
12
Cfr. Quaderni Federalisti, nuova serie, n. 33 in http://www.cifeitalia.org/quaderni_%20federalisti/33.pdf.
13
Tale classificazione è adottata da buona parte dalla dottrina, v. Roccella, Treu, op. cit., p. 6 e Kravaritou-Manitakis P,
op. cit., p. 20.
12
dall’articolo 59 sulla libera prestazione dei servizi con riferimento ai lavoratori
autonomi
14
. Intimamente connessi alla libertà di circolazione dei lavoratori
risultavano altresì essere gli articoli 50 e 51, relativi allo scambio di giovani
lavoratori ed alla sicurezza sociale dei lavoratori migranti
15
.
Attuando la possibilità per i lavoratori subordinati di spostarsi senza impedimenti
all’interno del territorio comunitario per rispondere ad offerte di lavoro effettive e
prevedendo “l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i
lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre
condizioni di lavoro” (art. 52), il trattato intendeva favorire movimenti migratori da
Paesi con deficit strutturali di occupazione verso quei Paesi con una maggiore
richiesta di lavoratori, attuando così una forma di riequilibrio che avrebbe dovuto
aumentare il livello occupazionale della Comunità favorito dall’allargamento del
mercato del lavoro e quindi configurandosi quale “strumento d’ordine sociale”
16
.
Similmente a quanto detto precedentemente, anche queste disposizioni lasciavano
all’automatismo del nascente mercato unico europeo il realizzarsi di istanze sociali.
Un altro modo previsto dal trattato per realizzare una politica di sostegno
all’occupazione era “l’adozione di principi generali per l’attuazione di una politica
comune di formazione professionale che [potesse] contribuire allo sviluppo
armonioso sia delle economie nazionali sia del mercato comune” (articolo 128).
Rispetto alle più blande norme previste nelle altre materie del lavoro, dove si parla di
armonizzazione delle normative nazionali, gli Stati membri affermarono in modo
maggiormente deciso il loro impegno sociale nel campo della formazione
professionale, parlando esplicitamente di una “politica comune”
17
. Il trattato
riconosceva inoltre alle istituzioni comunitarie un ruolo maggiormente decisivo in
materia. Rispetto agli altri aspetti di politica sociale, per i quali si prevedeva
14
La libera circolazione delle persone cui l’articolo 3 c) si riferisce unitamente a quella dei capitali e dei servizi, è da
intendersi in chiave prettamente economica. La libera circolazione delle persone che prescinde dalle attività economiche
sarà invece attuata dagli Accordi di Schengen del 1985 e la relativa Convenzione di applicazione del 1990 (cfr.
Galantino L., Diritto comunitario del lavoro, terza edizione, 2001, Giappichelli editore,Torino, p. 67).
15
Cfr. Mazzoni G., op. cit., p. 19.
16
Così si esprime Lambert L., membro nel 1960 dell’allora Direzione Affari Sociali della CEE, cit. in Mazzoni G., op.
cit., p. 14.
17
Cfr. Kravaritou-Manitakis, op. cit., p. 26 e Roccella M., Treu T., op. cit., p. 7.
13
un’armonizzazione risultante dalla collaborazione degli Stati membri che poteva
essere tuttalpiù favorita dalla Commissione, gli indirizzi di politica comune in
materia di formazione erano fissati dal Consiglio “su proposta della Commissione e
previa consultazione del Comitato Economico e Sociale”.
Il terzo elemento di sostegno dell’impiego e regolazione del mercato del lavoro era
rappresentato dal Fondo Sociale Europeo, regolamentato dal Capo II del Terzo
Capitolo riguardante la politica sociale, dagli articoli che andavano dal 123 al 127.
Il fondo aveva il compito di “promuovere all'interno della Comunità le possibilità di
occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori”. La mobilità dei
lavoratori veniva così promossa in modo diretto, riflettendo la convinzione che il
semplice abbattimento degli ostacoli che limitavano la libertà di circolazione non
sarebbe stato sufficiente ad aumentare la mobilità
18
.
Inoltre il fondo costituiva lo strumento operativo e finanziario per realizzare la
politica comune di formazione professionale
19
. Pur se non previsto fra gli obiettivi del
fondo, esso ha avuto l’effetto indiretto di armonizzazione delle disposizioni degli
Stati membri, armonizzazione necessaria per utilizzare lo strumento finanziario
20
, a
conferma di quanto sopra detto riguardo alla non rigidità della classificazione fra
norme che si prefiggono l’armonizzazione dei sistemi sociali degli Stati membri e
quelle di sostegno all’occupazione.
Questo era in sintesi il quadro che regolava la politica sociale all’indomani della
creazione della Comunità Economica Europea. Molte delle norme in questione erano
di natura programmatica e quindi non precettiva. Particolare rilievo assumevano le
dichiarazioni di principi quali la libera circolazione dei lavoratori subordinati, la
conseguente parità di trattamento fra lavoratori di nazionalità diverse (art. 48) e la
parità uomo - donna (art. 119), per il fatto che si trattava di norme self – executing e
che disponevano di una propria base giuridica.
18
Cfr. Roccella M., Treu T., op. cit., p. 7.
19
Cfr. Galantino L., op. cit., p. 62.
20
Cfr. Petrilli G., citato in Mazzoni G., op. cit., p. 6.
14
Fino al primo programma di azione sociale del 1974, che costituirà fattore di impulso
per la politica sociale, l’azione comunitaria si indirizzò principalmente verso la
regolamentazione della libera circolazione dei lavoratori, tenendo conto degli aspetti
di protezione sociale dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, nell’elaborazione di
studi e ricerche e nella considerazione di aspetti sociali all’interno di politiche
settoriali come quella dei trasporti e quella agricola, oltre che nell’adozione di pareri
non vincolanti da parte del Comitato Economico e Sociale, creato dal Trattato di
Roma come organismo consultivo, ma nulla più
21
.
1.2 Il vertice di Parigi e il programma di azione sociale del 1974.
Durante gli anni ’60, oltre allo scarso sviluppo della politica sociale, si registrò un
aumento delle disparità economiche e sociali fra gli Stati membri della Comunità
Economica Europea. La fede del mercato come automatico generatore di benessere e
livellamento sociale venne quindi scossa
22
. Ad esso si aggiunse, come fattore che
imponeva di portare l’attenzione alla politica sociale, il forte clima di tensione sociale
che caratterizzava l’Europa dalla fine degli anni ’60
23
.
La politica sociale fu oggetto di riflessione nel vertice di Parigi del 1972, dove i capi
di Stato o di governo degli Stati membri della CEE giunsero ad affermare che la
politica sociale rivestiva “un'importanza pari a quella della realizzazione dell'unione
economica e monetaria”, di cui si cominciò a parlare nel corso dello stesso vertice.
Nonostante l’arditezza di tale affermazione, che rimaneva comunque una
dichiarazione astratta e senza nessun valore pratico, l’intenzione era quella di evitare
il fenomeno del dumping sociale e le conseguenti distorsioni alla concorrenza causate
da normative sociali non armonizzate. Ne è un esempio la legislazione comunitaria
21
Cfr. Grandi M., L’Europa sociale fra divergenze e convergenze, in Lavoro e Diritto, 1992, p. 6.
22
Cfr. Quaderni Federalisti, nuova serie, n. 33, in http://www.cifeitalia.org/quaderni_%20federalisti/33.pdf.
23
Cfr. Roccella M., Treu T., op. cit., p. 10.
15
che fu adottata sulla parità uomo – donna, fortemente voluta dalla Francia che aveva
una normativa con elevati standards di protezione e che avrebbe potuto rappresentare
uno svantaggio economico per il Paese all’interno del mercato comune
24
.
Al vertice seguì, nel gennaio del 1974, l’adozione da parte del Consiglio di un
programma di azione sociale
25
, che fu il primo di una serie di programmi in campo
sociale.
Sotto l’impulso delle dichiarazioni programmatiche contenute nel documento, si
adottarono una serie di direttive che riguardavano diversi aspetti di politica sociale,
anche se non si toccarono tutti i punti previsti nel programma di azione. Fra le più
significative vanno annoverate le direttive in materia di parità fra lavoratori di sesso
maschile e quelli di sesso femminile
26
, di sicurezza nel lavoro
27
, di formazione
scolastica dei figli dei lavoratori migranti
28
, di diritti dei lavoratori in caso di
trasferimento di imprese
29
e di insolvenza del datore di lavoro
30
.
Vi fu quindi un utilizzo della direttiva allo scopo di armonizzare le legislazioni degli
Stati membri (tutte le summenzionate direttive si pongono infatti questo scopo)
attraverso il ricorso all’articolo 100 del trattato. La direttiva è lo strumento giuridico
comunitario più adatto per armonizzare le legislazioni nazionali perché lascia libertà
agli Stati membri su come attuare il risultato che si prefigge
31
.
L’armonizzazione di aspetti di politica sociale venne quindi sottratta alla mera
collaborazione fra Stati membri, come l’articolo 118 disponeva, anche se l’uso degli
articoli 100 e 235 come base giuridica presentavano i suddetti limiti riguardo al
24
Ibidem.
25
Il programma di azione sociale del 1974 è pubblicato in G.U.C.E., n. C 013 del 12/02/1974 pp. 1-4. Esso è stato
adottato dal Consiglio, visto il relativo progetto della Commissione, il parere del Parlamento Europeo e il parere del
Comitato Economico e Sociale.
26
Segnatamente la direttiva 75/117/CEE del Consiglio sulla parità di retribuzioni, in G.U.C.E. n. L 45 del 19/02/1975,
pp. 19-20, che utilizza la base giuridica fornita dall’articolo 119 e ne rappresenta una disposizione di attuazione e la
direttiva concernente la parità di trattamento in materia di accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione
professionali e le condizioni di lavoro, in G.U.C.E. n. L 39 del 14/02/1976, pp. 40 -42, che invece si rifà all’articolo
235.
27
In tema di sicurezza nel lavoro, numerose direttive vennero elaborate nella seconda metà degli anni ’70 e nel corso
degli anni ’80, a seguito dell’adozione di due programmi specifici adottati con decisione del Consiglio nel 1978 e 1984.
Cfr. Roccella M., Treu T., op. cit., p. 267.
28
Direttiva 77/486/CEE in G.U.C.E. n. L 199 del 06/08/1977 pp. 32-33.
29
In G.U.C.E n. L 61, del 05/03/1977, pp. 26 – 28.
30
Direttiva 80/987 in G.U.C.E. n. L 283 del 28/10/1980, pp. 23-27.
31
V. ex articolo 189 (ora 249): “la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.
16