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L'atto di uccidere attraverso la guerra.
L'atto tipico che gli uomini compiono in guerra non è morire, è
uccidere.
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Le parole della storica militare Joanna Bourke sono
perentorie: la storia insegna che il fine di ogni guerra è
l’annientamento del nemico, colui che rappresenta una minaccia per i
nostri interessi economici, politici o per la nostra sopravvivenza
fisica e culturale. In linea di principio, falciare vite umane non è una
componente indispensabile della guerra, esistono modi di colpire gli
esseri umani che non implicano lo sterminio. Tuttavia, l'eliminazione
fisica dell'avversario si è imposta nella strategia e della prassi
militare. Questa tipologia di omicidio si avvale delle legittimità
conferitagli dallo Stato, in quanto atto approvato da leggi emanate
dalle massime autorità civili; spesso è oggetto del consenso della gran
parte della popolazione. Inevitabilmente, i costi di ogni intervento
bellico sono migliaia di morti, feriti e mutilati, crudeltà di ogni tipo
e il collasso economico di intere nazioni.
Se questa è la realtà, possono esistere missioni di pace o guerre
umanitarie? O definire una guerra con questi termini è soltanto sinonimo
di ipocrisia?
Quando i nostri militari perdono la vita nei teatri bellici all'estero ─
di fatto una delle poche occasioni in cui il Paese si ricorda di loro ─
si fa strada molta retorica. Emerge, sempre più forte, la convinzione
che i soldati siano, a tutti gli effetti, operatori di pace, destinati a
soccorrere i deboli e a portare la pace nel mondo; non uomini addestrati
ad uccidere, inviati in missione per combattere e spesso odiati dai
popoli verso i quali credono di prestare soccorso. Perché nei teatri di
guerra il rispetto per la vita rischia di annegare, la follia e gli
istinti isterici di sopravvivenza prendono il sopravvento sulla ragione;
la mediazione tra le parti per una risoluzione pacifica della crisi
finisce per diventare l'ultima delle opzioni. Nei casi più estremi, le
uniche regole vigenti restano uccidere e, in alternativa, morire.
Il giornalista Massimo Centini esprime una peculiare interpretazione
dell'omicidio. Il cosiddetto Peccato di Caino, l'uccisione all'interno
1 Bourke J. (2001), Le seduzioni della guerra : miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma
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della propria specie, è una prerogativa dell'uomo
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. Fra gli animali il
fenomeno è decisamente più limitato, perché indebolisce la forza del
gruppo, in contraddizione con le finalità della sopravvivenza. In ogni
caso gli animali uccidono per una serie di motivazioni "naturali",
legate alla soddisfazione di bisogni elementari, differenti da quelle
parafiliache e passionali che spingono l'uomo.
Uccidere costituisce un'azione che può non essere spacciata come
crimine, se vi sono alcune situazioni particolari. La lettura che
vogliamo dare al fenomeno cambia a seconda del punto di vista. Capita
sovente, di fronte a due contendenti, di schierarsi a favore di uno
anziché dell'altro; di conseguenza, quest'ultimo subirà il torchio della
nostra condanna e noi ne desidereremo la sconfitta, e, a volte, anche la
morte. Il nostro atteggiamento nei confronti della vita umana può
cambiare a seconda delle condizioni: quando un nostro simile attenta
alla nostra vita, uccidere diventa una necessità alla quale non ci si
può sottrarre. Il predatore va eliminato, i sensi di colpa dovrebbero
venire meno, il fatto può essere rielaborato a livello psichico, per
vincere il rimorso della propria coscienza. Sentiamo il bisogno di
riconoscere nella nostra vittima un'alterità che la ponga in una
dimensione esterna a quella dell'uomo, giustificando così l'omicidio.
L'ammazzato è un altro, per caratteristiche etniche, razziali, sociali,
culturali e quindi "meno umano", inferiore; oppure nemico, un predatore
che costituisce un pericolo per la nostra esistenza.
Per la psichiatria, l'impulso di uccidere è presente in ognuno di noi e
traspare principalmente nei pensieri, anche se può esprimersi con gesti,
parole e azioni violente in numerose occasioni:
"Il desiderio di uccidere un uomo e una donna è molto forte in noi, tanto da poter affermare che ciascuno, in
condizioni di impunità e di assoluta segretezza, avrebbe qualcuno da uccidere immediatamente. Se non
uccidiamo è per la vergogna e la paura della pena, non certo per il rispetto dell'uomo in quanto tale. Ciascuno
di noi ha almeno un nemico, antipatico e odioso, che gli ostacola il corso esistenziale. Un predatore, un
totalmente diverso da noi, un quasi-uomo. anzi, un animale. Le offese con cui lo definiamo riportano
l'animalità (porco, maiale), o, ancora meno, alla materia organica
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."
Centini sostiene che l'omicidio è diventato un fenomeno culturalmente
sostenibile. L'uccisione dei propri simili ha trovato una serie di
giustificazioni: la guerra, la lotta contro la criminalità e la pena di
2 Centini M. (2001), I serial killer, Xenia Edizioni, S. Vittore Olona (Mi), p. 23
3 Andreoli V. (1996), citato in Centini M. (2001), I serial killer, Xenia Edizioni, S. Vittore Olona (Mi), p. 27
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morte, l'eutanasia e il sacrificio naturale.
Le sovrastrutture sociali e religiose hanno definito leggi specifiche
che governano gli atteggiamenti dell'uomo nei confronti dei suoi simili
e riflettono i movimenti di pensiero del periodo. Tali regole, che in
genere sortiscono l'effetto di inibire il disordine a la violenza, in
taluni casi sono andate contro la ragione e il diritto alla vita. La
storia della nostra specie, infatti, ha conosciuto momenti in cui
uccidere un indiano o un dissidente religioso non costituiva né peccato
né reato, così come era considerato giusto bruciare streghe e eretici.
Deve essere considerato anche il contesto in cui si svolge il crimine:
l'uccisione di un essere umano non viene considerata riprovevole se
eseguita come pena o avviene in guerra. Il livello di accettazione del
crimine cambia in relazione all'ambiente. Alcuni principi morali, che da
un punto di vista teorico appaiono molto solidi, di fatto vengono a
mancare in determinate situazioni. Riportando le parole di Lombroso, il
comportamento dell'uomo risente dei comportamenti della collettività in
cui è inserito; vige il principio di emulazione, processo di imitazione
destinato ad affermarsi in particolare tra quanti dimostrano maggiore
fragilità psicologica e quindi sentono impellente la necessità di non
essere inferiori agli altri presi a modello.
Nel 1915 Freud pubblica il saggio Considerazioni attuali sulla guerra e
la morte. Siamo in guerra e l'autore, di fronte alla prospettiva di
perdere i figli impiegati sul fronte, analizza l'accettazione della
morte e la propensione all'omicidio.
Ognuno di noi, nel suo inconscio privo di negazioni, è convinto della
propria immortalità e ha la tendenza naturale a trasformare la morte da
fatto necessario a fatto casuale. Insistiamo sulla sua natura
accidentale: incidente, malattia, vecchiaia. La tenace resistenza con
cui ci leghiamo all'illusione di eludere la morte comporta la nostra
impreparazione a fronteggiare le pulsioni distruttive, degli altri, ma
soprattutto le nostre. La distruttività va intesa come istinto, incapace
di qualunque evoluzione positiva, aggressività innata che risiede nel
nostro inconscio. Non ammettiamo la nostra morte,
d'altra parte, noi troviamo assolutamente naturale la morte di stranieri e di nemici, infliggiamo loro la morte
volentieri, così come faceva l'uomo primitivo. Il nostro inconscio si accontenta di pensare alla morte e di
augurarla senza realizzarla.
Ma sarebbe un errore sottovalutare questa realtà psichica rispetto alla realtà di fatto. Questa realtà è già
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abbastanza grave e carica di conseguenze. Nei nostri desideri inconsci noi sopprimiamo ogni giorno, e ad
ogni ora del giorno,tutti quelli che si trovano sul nostro cammino, che ci hanno offesi o danneggiati.
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.
Qualsiasi relazione interpersonale, anche quella più tenera ed intima, è
ambivalente: oltre all'amore sorge una certa dose di ostilità che può
stimolare l‘inconscio desiderio di morte. Tuttavia, di fronte al
cadavere di una persona amata, sorge un conflitto interiore tra il
rimpianto per la perdita e la soddisfazione scaturita dall'odio. Il
conseguente senso di colpa fa sì che la nostra reazione si sostanzi nei
comandamenti morali, e il più importante è non uccidere. Tale
proibizione, prima imposta soltanto per i propri cari, si è estesa anche
agli estranei e ai nemici.
L'azione della guerra ci libera dalle stratificazioni della civiltà e
dai divieti morali, lasciando riapparire i nostri istinti originari.
Non uccidere è una proibizione così imperiosa che può rivolgersi solo ad
un impulso particolarmente forte, di fatto non c'è bisogno di proibire
ciò che nessuno desidera. Ne consegue che discendiamo da una serie di
generazioni di assassini che con il tempo hanno acquisito delle tendenze
sociali. Sprofondati nella guerra, diventiamo sordi ai comandamenti
morali:
Sopravvive in noi solo l'uomo primitivo. Essa ci impone l'atteggiamento degli eroi, che non credono alla
possibilità della propria morte; essa ci indica negli estranei dei nemici che bisogna eliminare o la cui morte
dobbiamo augurarci; essa ci raccomanda di restare calmi di fronte alla morte di una persona cara
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.
Quando gli scontri selvaggi saranno finiti, il soldato vittorioso
tornerà felice a casa, con sua moglie ed i suoi figli, senza essere
minimamente turbato dal ricordo di tutti i nemici uccisi.
Il nostro atteggiamento convenzionale nei confronti della morte è
incompatibile con la guerra. Non è più possibile negare la morte, si è
costretti a convivere con la sua presenza. Gli uomini muoiono realmente,
e non più uno ad uno, ma a decine di migliaia ogni giorno; non si tratta
più di morti accidentali.
Non è possibile porre fine alle guerre finché le condizioni di vita dei
popoli saranno così diverse, e cosi violenta sarà l’avversione che li
divide. Non dovremmo forse cedere a questa realtà ed adattarci alla
guerra? Freud pone questo interrogativo. Ciò presenterebbe il vantaggio
4 Freud S. (1915), Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in "Imago", n. 4
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di rendere più sopportabile l’esistenza, evitando di reprimere le
pulsioni del nostro inconscio: soltanto se saremo disposti ad accettare
la morte potremo sopportare la vita.
Centini afferma che l'assassinio occupa una parte fondamentale nella
fantasia dell'uomo: dalla letteratura mitologica fino al cinema,
l'uccisione costituisce un'azione determinante per la narrazione. La sua
grande diffusione attraverso i mass media ha profondamente cambiato il
nostro atteggiamento naturale nei suoi confronti, al punto che spesso
finzione e realtà si confondono tra loro.
Freud ha dimostrato la nostra tendenza a mettere da parte la morte; è
comprensibile quindi che cerchiamo nel mondo della finzione, nella
letteratura e nel teatro ciò che abbiamo respinto. Vi troviamo ancora
degli uomini che sanno morire e sanno uccidere: abbiamo la possibilità
di immaginare una condizione nella quale ci riconciliamo con la morte.
Ci identifichiamo con un eroe nella sua morte, e tuttavia gli sopravviviamo, ben disposti a morire in modo
tanto innocuo un'altra volta, con un altro eroe
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.
Secondo Joanna Burke, prima di ogni prospettiva di combattimento reale,
uomini e donne, soprattutto nel periodo infantile, inventano storie sul
piacere derivato dall'uccidere. Tale comportamento trova luogo nel
giocare ai soldatini, con i videogame, nella letteratura e nel cinema.
Non esiste alcun legame diretto tra tra l'appassionarsi a storie di
combattimento e l'impulso di uccidere: spesso il desiderio di sparare
con le armi da fuoco, il fascino di essere tiratori infallibili e
l'immaginario di possedere un'arma sono dissociati dal conseguente atto
di distruzione.
La letteratura e la cinematografia di guerra esercita una forte
attrazione: di fatto tutto appare più nobile ed esotico rispetto alla
vita quotidiana. In genere vi è una rappresentazione degli avvenimenti
patriottica ed eroica che non ha mai perso il suo fascino, come le gesta
straordinarie dei superuomini, che non mancano mai di ammazzare in
continuazione. Buoni e cattivi si distinguono sempre nettamente.
Questa sorta di intrattenimento incoraggia molti uomini a presentarsi
volontari alla chiamata alle armi, per cogliere la possibilità di
emulare gli eroi d'infanzia. Per chi cresce giocando ai soldati, con le
6 Freud S. (1915), Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in "Imago", n. 4
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