L’origine del genoma umano
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spiegare i fenomeni dai quali è stata formulata, ma deve essere anche in grado di
prevederne di nuovi da verificare in futuro e non è fissa ed immutabile ma è da
sottoporre continuamente a verifica. Infatti, quando una teoria in seguito
all’interpretazione di qualche nuovo fenomeno, entra in contraddizione con i concetti
che essa esprime, viene opportunamente corretta e modificata. E quando non è più in
grado di spiegare in modo chiaro e coerente i fatti osservati viene definitivamente
abbandonata (www.cosediscienza.it/bio/08_uomo.htm).
Fu Charles Darwin, nel 1871, ad affermare per primo, nel suo libro “The descent of
Man” (L’origine dell’uomo), che anche l’uomo, al pari di tutti gli esseri viventi, è
soggetto alle leggi che governano i fenomeni naturali. Anche l’uomo, pertanto, deve
aver avuto degli antenati con caratteristiche simili a quelle degli animali cui egli oggi
assomiglia di più, cioè le scimmie. Da ciò l’idea di Darwin che l’uomo discende
dalle scimmie. In realtà, l’uomo non può derivare da un animale che gli è
contemporaneo. Egli affermò semplicemente che uomo e scimmia dovevano aver
avuto, in un tempo non molto lontano, antenati comuni e che se si procedesse molto
indietro nel tempo, si risalirebbe a quei pochi organismi primordiali che sono stati gli
antenati di tutte le forme viventi attualmente presenti sulla Terra.
I creazionisti, dal canto loro, con l’intento di sminuire la teoria evoluzionistica di
Darwin, sostengono che si tratta “solo di una teoria” e pertanto è assurdo pretendere
che da essa possa scaturire la verità (Darwin, 1871).
La teoria evoluzionistica di Darwin, si basa principalmente su due teorie: la teoria
della discendenza comune e la teoria della selezione naturale. Secondo la teoria della
discendenza comune due specie hanno origine a partire da un antenato comune
ancestrale. Questo concetto è alla base degli studi filogenetici. L’assioma
fondamentale del darwinismo è che tutti gli organismi viventi generano più individui
di quanti ne possano sopravvivere e che la probabilità di sopravvivenza è maggiore
in quegli individui che presentano caratteristiche vantaggiose. Se queste
caratteristiche sono ereditarie, esse si diffonderanno nella popolazione, mentre
tenderanno a scomparire le caratteristiche meno vantaggiose o sfavorevoli. La
conservazione di caratteristiche vantaggiose e l’eliminazione di quelle sfavorevoli
viene indicata come selezione naturale. La lotta per la sopravvivenza, che ne deriva,
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esiste non solo fra organismi di specie diverse, ma anche fra organismi della stessa
specie. (Darwin, 1871).
La teoria evoluzionistica di Darwin si può considerare tale poiché, in accordo con la
definizione di teoria, è derivata da osservazioni naturalistiche durate decenni ed
elaborate alla luce di diverse discipline quali la biogeografia, la paleontologia,
l’embriologia, la morfologia. Solo in seguito i ricercatori l’hanno rielaborata grazie
all’apporto di nuove discipline quali la genetica, la biochimica molecolare, la
genetica delle popolazioni, e all’introduzione di nuove tecniche come
l’archeoantropologia molecolare che ha reso possibile una più accurata datazione dei
reperti fossili umani. Tuttavia nonostante le prove sempre più numerose e specifiche
a favore della teoria di Darwin, come la variazione della farfalla Biston betularia,
dovuta a cambiamenti ambientali e come la selezione di ceppi batterici antibiotico-
resistenti a dimostrazione della mutazione e della selezione naturale, non pochi
continuano a negarne la validità scientifica (Lalli, 2005).
Prima che Darwin pubblicasse il suo libro, nella valle del fiume Neander presso
Düsseldorf, in Germania, vennero rinvenuti i fossili di un cranio e di alcune ossa
degli arti appartenuti ad un essere sicuramente umano, ma dalle caratteristiche
strutturali molto particolari (Arsuaga, 2001). Quel reperto inizialmente non venne
interpretato su basi evolutive ed alcuni eminenti biologi del tempo ritennero potesse
trattarsi dei resti di un uomo moderno, deforme o gravemente malato. Per altri,
invece, si trattava di un soldato cosacco dell’esercito russo (le gambe arcuate erano la
prova di una vita passata a cavallo) che aveva partecipato alla guerra contro
Napoleone nel 1814 e che, stremato dalla stanchezza (le arcate sopraorbitarie
prominenti erano il risultato del continuo aggrottamento delle sopracciglia per il
dolore), si era rifugiato in una caverna dove aveva trovato la morte (Arsuaga, 2001).
Successivamente, però, Thomas Henry Huxley (1862), amico e sostenitore di
Darwin, lo interpretò correttamente. Si trattava di un individuo umano primitivo, e a
cui fu dato il nome di “Uomo di Neanderthal” (Homo neanderthalensis). L’uomo di
Neanderthal doveva essere un individuo tarchiato, alto circa un metro e mezzo, con
un cranio di spessore abnorme, lungo e stretto, ma con una capacità notevole (oltre
1.500 cm³), superiore alla media dell’uomo attuale; esso presentava inoltre la fronte
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sfuggente e le arcate sopraorbitarie molto prominenti (Arsuaga, 2001). Tutte queste
caratteristiche portarono ad immaginare gli uomini di Neanderthal come esseri
dall’aspetto brutale che abitavano le caverne e che procedevano con un’andatura
curva in avanti, simile a quella delle attuali scimmie antropomorfe. In realtà l’uomo
di Neanderthal non era affatto un essere bestiale, ma aveva un’intelligenza e
svolgeva un’attività molto simile alla nostra. Egli viene attualmente considerato
un’altra specie del genere Homo: Homo neanderthalensis. Egli quindi non è un
nostro antenato, ma una specie di uomo che ha avuto un iter evolutivo divergente
rispetto al nostro, iter evolutivo che lo ha portato all’estinzione. I nostri veri antenati
hanno invece abitato l’Africa almeno 3,5 milioni di anni fa (Arsuaga, 2001). Grazie a
questa scoperta, unitamente alla teoria di Darwin, la comunità scientifica prese
coscienza che anche l’uomo, come qualsiasi altra specie vivente, doveva aver avuto
una propria storia evolutiva e si mise alla ricerca delle tracce della sua origine.
Nacque in questo modo la paleoantropologia, cioè la scienza che si occupa della
ricerca e della catalogazione dei reperti fossili del genere umano. Tutti i ritrovamenti
fossili riguardanti la specie umana provengono in prevalenza dall’Africa, anche se
alcuni reperti importanti sono stati trovati anche in Asia e in Europa. I reperti fossili,
attualmente esistenti, pur non essendo numerosi si sono dimostrati importanti per
tentare di ricostruire la storia evolutiva dell’uomo. Le scoperte di questi ultimi
vent’anni hanno rimandato molto indietro nel tempo la data dell’origine della nostra
specie, che prima si collocava intorno ai 500.000 anni (Arsuaga, 2001). Queste
ultime scoperte hanno anche chiarito definitivamente che il genere umano ha avuto le
sue origini in Africa e non in Europa o Asia, come si era creduto. In realtà il
convincimento che l’Europa fosse stata la culla dell’umanità non aveva alcun
fondamento scientifico, ma si basava esclusivamente sulla presunzione che la civiltà
europea fosse la più evoluta di tutte (Brunet et al., 2002).
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GLI STUDI DELL’HOMO
Con la presa di coscienza che anche l’uomo è parte integrante
dell’evoluzione, contrariamente a quanto affermato dalle teorie
creazionistiche, nel corso del tempo è aumentato l’interesse degli studiosi verso
questo argomento tanto da determinare lo sviluppo e l’affermazione di studi
tassonomici e filogenetici. Tali studi coinvolgono tutti gli esseri viventi che si
suppone abbiano avuto un antenato comune all’uomo. Un significativo contributo è
stato fornito, a partire dalla fine degli anni ‘80, dalla genomica, la disciplina che
studia la sequenza del DNA del genoma nei diversi organismi. Negli ultimi vent’anni
ha permesso di chiarire i meccanismi molecolari di molti processi biologici, in
particolare, di quelli che operano nel produrre la variabilità fenotipica. Inoltre
insieme alla biologia evoluzionistica dello sviluppo ha portato alla scoperta che gran
parte dei geni dello sviluppo embrionale sono condivisi da specie evolutivamente
molto lontane tra loro. Risulta, ad esempio, che i complessi di geni che regolano, nei
pesci, lo sviluppo e il differenziamento delle porzioni basali della pinna sono gli
stessi che in anfibi e in mammiferi regolano lo sviluppo dell’intero arto, con la sola
esclusione delle dita. Il fatto che gli stessi geni, con un ruolo chiave nel generare la
forma biologica, operino in animali così diversi come gli insetti e i mammiferi,
rappresenta una delle dimostrazioni più significative dell’origine comune degli
animali. La biochimica e la biologia molecolare hanno fornito nuove prove
dell’evoluzione, rivelando in particolare l’universalità del codice genetico e le
affinità strutturali tra le proteine di gruppi diversi, e contribuendo così a mettere in
luce le relazioni evolutive fra i grandi gruppi zoologici (Klein e Takahata, 2002).
I lavori di biologia molecolare iniziarono già nel 1967, quando due giovani
biochimici, Sarich e Wilson, dell’Università di Berkeley in California, avendo
confrontato le proteine presenti nel sangue delle scimmie antropomorfe con quelle
dell’uomo, conclusero che gorilla, scimpanzé e uomo erano molto simili fra loro,
mentre si notavano differenze più marcate con orangutan e gibbone (Sarich e Wilson,
1967). Essi, inoltre, sulla base delle loro misurazioni, riuscirono anche a stabilire che
l’uomo si sarebbe staccato dagli altri primati soltanto cinque milioni di anni fa.
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Pertanto, stando agli studi dei due scienziati americani, l’uomo e le due scimmie
antropomorfe africane avrebbero dovuto avere ancora un progenitore in comune in
tempi molto recenti. Per i paleontologi, questa affermazione era un assurdo perché
tutte le testimonianze fossili e geologiche indicavano che la separazione fra le due
linee evolutive era avvenuta una ventina di milioni di anni fa, e non solo cinque
come asserivano Sarich e Wilson. Il lavoro dei due ricercatori americani si basava su
di una premessa molto semplice e cioè sul fatto che le differenze riscontrabili
all’interno di una determinata molecola proteica, presente in organismi di specie
diverse, avrebbero dovuto essere tanto maggiori quanto più lontano fosse stato il
tempo del distacco di una specie dall’altra. E questo perché i cambiamenti sulle
proteine, dovuti alle mutazioni del patrimonio genetico, si dovrebbero accumulare
nel tempo ad un ritmo costante. Per determinare con precisione il momento del
distacco fra le due specie Sarich e Wilson sfruttarono la teoria proposta da Pauling, il
quale studiò le correlazioni esistenti fra DNA e strutture proteiche e intuì che il DNA
avrebbe potuto costituire una specie di orologio molecolare poichè le mutazioni che
si verificano su di esso, essendo eventi casuali, come quelli che avvengono nelle
sostanze radioattive, avrebbero dovuto accumularsi con regolarità (Sarich e Wilson,
1967). Nelle sostanze radioattive gli atomi si trasformano ad un ritmo costante in
atomi non radioattivi, ed una volta nota la velocità di decadimento è possibile stimare
il trascorrere del tempo misurando la quantità di sostanza radioattiva residua in un
determinato campione. L’orologio molecolare non misura una diminuzione, come
avviene nelle sostanze radioattive, ma un accumulo. Il problema, in questo caso, era
calibrare l’orologio stesso, ossia il ritmo con cui si accumulavano le mutazioni.
Sarich e Wilson riuscirono, dopo lunghe ricerche, a determinare la velocità con la
quale si accumulavano le differenze sulle diverse proteine (Sarich e Wilson, 1967).
Essi ad esempio riuscirono a stabilire che il citocromo c (una proteina essenziale nel
processo di respirazione cellulare) modifica l’1% della sua molecola ogni venti
milioni di anni, mentre l’emoglobina fa altrettanto in solo sei milioni di anni. A
questo punto non rimaneva che scegliere il momento da cui far partire l’orologio.
Questo doveva corrispondere alla data di una biforcazione dell’albero genealogico
già nota sulla base delle tecniche convenzionali. Si decise quindi di iniziare a contare
il tempo da trenta milioni di anni fa, cioè dall’epoca in cui secondo i paleontologi le