cresciuto, arrivando a contare circa otto persone – con questo intento. Mi rispose che non
c’erano problemi, «ma», mi disse, «non ci capirai mai nulla».
Sono trascorsi due anni, da allora, e ancora non posso dire che avesse torto.
4
1. Definizione del problema
Considerazioni preliminari
Questa tesi si pone lo scopo di indagare una realtà socio-culturale che pertiene
quasi esclusivamente al contesto urbano: la vita di strada. Ossia la vita delle molte persone
che per motivi diversi hanno perduto, in maniera più o meno definitiva, le risorse materiali
e culturali, quali sono la casa, il lavoro e la famiglia; si tratta di persone che conducono la
loro esistenza, almeno al presente, lungo le strade e negli interstizi delle grandi città nelle
quali è più “facile” – o quantomeno possibile – sopravvivere di espedienti.
La città dove ho condotto la ricerca, cui questa tesi si riferisce, è Roma; la Stazione
Termini è il luogo in cui ho incontrato le persone e le storie che hanno rappresentato il
referente empirico per la formulazione delle ipotesi teoriche che seguiranno. “Termini”,
così come viene chiamata la stazione centrale nel gergo romano, accoglie al proprio
interno, e lungo il suo perimetro, molti degli uomini e delle donne che vivono in strada;
qui, specialmente nei mesi invernali, essi trovano riparo, recuperano le risorse necessarie
alla sopravvivenza, ed intrattengono le loro relazioni.
“Barboni”, “clochard”, “homeless”, “senza fissa dimora”, sono i termini, di uso
ormai comune, con i quali queste persone vengono definite dalle istituzioni urbane, dai
cittadini che li incontrano, e dalle scienze sociali che studiano questa realtà. Sono termini
con un diverso significato – in senso etimologico, semantico e idiomatico – che vengono
usati ed interscambiati per parlare di un fenomeno che, apparentemente, non si riesce a
definire. Le persone che vivono in strada, infatti, non costituiscono una realtà sociale
uniforme, né sono rappresentabili, in termini culturali, come una comunità capace di
autodefinirsi collettivamente. Provengono, invece, dai posti e dai percorsi più disparati;
sono di età e sesso diversi, vivono e praticano la strada in forme differenti; attribuiscono ed
elaborano significati molteplici alla loro esistenza.
L’eterogeneità sociale e culturale di questa “umanità” ci pone di fronte ad un
quesito: cosa stiamo cercando di definire? È cioè indispensabile comprendere – e
riconoscere – su quali basi percettive e cognitive si costruisce la ricerca, quali siano i
presupposti mediante cui si definisce la questione oggetto di indagine, e quale sia
5
l’approccio teorico-metodologico che a suddetta indagine viene rivolto. Ebbene, appare
evidente che il fenomeno della vita di strada è percepito, da una consolidata tradizione di
studi, innanzi tutto come un “problema sociale” riconducibile ad una questione tanto ampia
e diffusa, quanto controversa: la povertà.
In Italia gli studi sociali sulla povertà iniziano ad essere condotti a partire dal
secondo dopoguerra, e da subito si definisce un approccio ben preciso: «Per essere oggetto
di studio specifico e riferito alla globalità del fenomeno, la povertà doveva essere
affrontata come un tema che potesse essere suscettibile di intervento politico e sociale» (F.
Martinelli 1999, pag. 49). Ricerca ed intervento, dunque, si muovono di pari passo, dal
momento che l’una legittima l’altro, e viceversa; inoltre la ricerca si deve rivolgere alla
«globalità del fenomeno» “povertà”, a livello nazionale. Solo alla fine degli anni ’70, le
ricerche sulla povertà assumono anche un carattere locale; scrive ancora Martinelli:
Gli studi localistici, come le ricerche romane della scuola di Ferrarotti, le indagini di Stagni, i
riferimenti del sondaggio sulla povertà del Censis, tentavano di tenersi legati alla
considerazione delle realtà empiriche, ispirati da un impegno che tuttavia si limitava alla
documentazione delle condizioni di povertà, a scoprirne cause e dimensioni qualitative,
giungendo raramente a formulare proposte di intervento sociale in collegamento con istituzioni
pubbliche ed associazioni private, come era stato nel periodo degli anni ’50. [ibid., pag. 65]
A partire da questi studi, dunque, una parte dell’analisi sociale della povertà si
separa dalle proposte di intervento, ispirandosi ad una metodologia anche qualitativa volta
ad individuare le molteplici dimensioni del fenomeno.
Il dibattito sulla povertà ha portato ad individuare due diverse categorie: la povertà
assoluta e la povertà relativa; la prima «di chi non dispone di mezzi per soddisfare i
bisogni primari (cibo, riparo, igiene)», e la seconda «di chi non dispone di un livello di
reddito almeno pari – convenzionalmente – al decile o al quintile più basso nella
distribuzione del reddito nazionale pro capite» (A. Gazzola 1997, pag. 32). A queste due
fasce di povertà il “Secondo rapporto sulla povertà in Italia” – pubblicato nel 1992 – ne
aggiunge una terza, riferita a quei gruppi di persone difficilmente raggiungibili dalle
rilevazioni: la povertà estrema, intesa come «la condizione umana nella quale la grave
insufficienza di reddito economico si abbina ad una serie di elementi negativi tra loro
correlati, quali la mancanza di salute, di famiglia, di lavoro, di casa, di conoscenze, di
sicurezza che collocano di fatto la persona ai margini della società e ne rendono
6
problematica l’integrazione».
1
È in quest’ultima categoria di povertà che vengono fatte
rientrare le persone senza dimora; una povertà «cumulativa e multidimensionale»
2
, che
viene a determinarsi, tra l’altro, lungo «percorsi di impoverimento» le cui cause «sono
sempre meno riconducibili ad indicatori di tipo economico. Mentre accrescono le
componenti culturali, antropologiche e psichiche».
3
Ebbene questa tesi muove i suoi primi passi proprio da quest’ultima precisazione, e
cioè dal fatto che la realtà delle persone senza dimora necessita di essere indagata non solo
in quanto epifenomeno della povertà, ma anche come una realtà antropologica complessa
ed articolata. La vita delle persone di strada infatti, sebbene presenti forti caratteri di
disagio socio-economico, non si esprime esclusivamente in termini di emergenza e di
deprivazione. Essa piuttosto viene quotidianamente ri-definita dai suoi attori intorno a
pratiche e a relazioni che riescono a soddisfare il loro bisogni essenziali e in alcuni casi a
mantenere queste persone entro i loro progetti di vita.
In questi termini, dunque, il problema della povertà non assume solo un carattere
relativo, ma tende a divenire secondario. Innanzitutto perché la sua dimensione principale
(quella economica) non assume per le persone senza dimora lo stesso rilievo che questa
può avere per persone anche solo marginalmente inserite in un contesto sociale: chi vive in
strada non soffre propriamente di una «grave insufficienza di reddito», bensì si trova al di
fuori di ogni relazione economica o contrattuale e sopravvive ogni giorno del proprio
“niente” finanziario. È questo un dato che emerge non solo dall’evidenza delle condizioni
reali, ma anche dalle parole con cui le stesse persone descrivono la loro situazione
economica. A tal proposito vorrei qui riportare alcuni estratti delle interviste che Franco
Martinelli ha incluso nel suo lavoro sui «senza casa a Roma»; alla domanda relativa alle
«condizioni finanziarie», rivolta a «isolati senza casa: ospiti, in dormitorio, per strada» (F.
Martinelli, op. cit., cap. 5), i soggetti interpellati rispondono:
“Le mie condizioni sono scarsissime, non ho soldi…”; “Niente, non ho niente, vivo così…”;
“Non ho neanche una lira e devo rubare anche stanotte…”; “Le mie condizioni sono disastrose,
vengo a chiedere il pasto per mangiare, non ho soldi…”; “In questo momento non ho niente,
nemmeno un soldo per prendere l’auto…”; “Le mie condizioni sono zero, zero proprio, girare
parrocchia per parrocchia, chiesa per chiesa…”; “Dipendo ancora dal Centro Fraternità, vitto e
1
Commissione d’indagine sulla povertà e l’emarginazione 1992, Secondo rapporto sulla povertà in Italia,
Angeli, Milano, pag. 87.
2
M. Bergamaschi, “Rottura dei legami sociali nei sistemi urbani complessi: un’ipotesi di lettura”, in P.
Guidicini e G. Pieretti (a cura di) 1993, pag. 116.
3
P. Guidicini, “Dalla crisi di interdipendenza nuovi segnali di povertà”, in P. Guidicini e G. Pieretti (a cura
di), op. cit., pag. 25.
7
alloggio me lo danno loro…”; “Sono disastrose, al momento non ho un lavoro e praticamente
non ho niente…”; “Tristi, fanno pietà, non ho neanche una lira, niente. Solamente mi devo
arrangiare…”; “Non ho niente da pensare, perché non mi hanno aiutato, mai nessuno, perciò
dove devo andare?”; “Non ho niente, sono bianco come la neve, proprio sballato.”; “Adesso
non ho niente…”; “Per ora non ho nulla, niente, non ho soldi e per ora mi sono rassegnato a
questo fatto, almeno io sono fatto così; quando li ho li spendo per vivere; quando non ce l’ho
non vado a cercarli. Praticamente, finché vivo, finché mi nutro l’importante è quello; poi dei
soldi ne posso pure fare a meno.”; “…Per i soldi se ho bisogno di mille lire giro una chiesa o
due…”.
In sostanza le persone che vivono in strada non hanno soldi – ad eccezione di
coloro (pochi) i quali percepiscono una pensione minima, o ricevono aiuti dalla famiglia –
ed imparano gradualmente a farne a meno: quando ci sono li usano e quando non ci sono
ricorrono a risorse alternative. Come dicevo poc’anzi, la loro vita presente ruota intorno ad
esigenze minime e a progetti estremamente limitati, rispetto ai quali la loro “povertà
economica” non rappresenta tanto un problema, quanto piuttosto una realtà innegabile
nella quale si sforzano ogni giorno di sopravvivere, mediante pratiche che con il tempo si
consolidano ed attraverso relazioni umane che condividono la medesima condizione.
Con questo non si vuole affermare che la vita di strada sia perfettamente sostenibile
o priva di sofferenza; tutt’altro. Ciò che qui mi preme sottolineare è il fatto che la
condizione delle persone senza dimora non può essere analizzata solamente con parametri
relativi ad un comune ordine sociale: perché non solo il dato economico, ma anche quello
della «salute», della «famiglia», del «lavoro», della «casa», della «conoscenza» o della
«sicurezza» (solo per citare i punti indicati nella definizione di “povertà estrema”)
assumono un carattere relativo, che deve essere problematizzato alla luce dei cambiamenti
e degli adattamenti che ogni singola persona opera nella propria prospettiva culturale.
Se dunque è innegabile che le persone senza dimora si trovino in una condizione
sociale di povertà estrema, è altrettanto innegabile che queste persone continuano a vivere:
determinando relazioni, inventando pratiche, trasmettendo saperi impliciti, tracciando
traiettorie ed infine individuando spazi – materiali e simbolici – di una sopravvivenza
limitata ma comunque reale. Con la ricerca cui questa tesi si riferisce, ho tentato di
individuare e di interpretare alcuni dei suddetti elementi della vita di strada, convinto della
necessità di un impegno conoscitivo maggiore che non sia rivolto esclusivamente ad
isolare le cause sociali o ad ipotizzare possibili interventi funzionali; ma che prenda in
esame anche gli aspetti umani e culturali – e dunque imprescindibili – di questa realtà. In
8
strada, negli interstizi urbani, nei presunti “nonluoghi” della città, le persone senza dimora
costruiscono, inventano, abbandonano e ri-definiscono il loro personale rapporto con la
realtà: con la storia, la loro storia; con lo spazio che gli è concesso o che riescono a
contendere alla città “domiciliata”; con le persone che hanno accanto e con quelle che
incontrano. Tempo, spazio, e relazioni: sono queste le dimensioni elementari lungo le quali
si dispiega la vita di queste persone; e la vita di ognuno di noi.
1.2. La vita di strada
Il senso delle “considerazioni” che hanno introdotto il presente capitolo è volto a
sottolineare, e a motivare, la necessità di allertare lo sguardo scientifico, rispetto a
quell’insieme di pre-nozioni ed orientamenti di valore che spesso accompagnano gli studi
sulle persone che vivono in strada. Nozioni sulla “povertà”, sull’”intervento sociale” e
sulla “devianza”, rischiano, infatti, di emergere – con disinvoltura – come chiavi di lettura
di una questione non definita: è mia opinione, infatti, che un’intesa scientifica, e di senso
comune, riguardo alla questione delle persone senza una dimora non sia ancora stata
raggiunta. Perché si tratta, innanzi tutto, di «una realtà sociale e umana che tende a sfuggire
a rigide categorizzazioni amministrative»
4
e a tipologie di carattere scientifico.
L’esistenza di chi vive in strada rappresenta, di certo, una realtà complessa che per
diverse ragioni si inscrive all’interno delle questioni e delle problematiche di interesse
socio-antropologico; ma queste discipline, purtroppo, hanno posto – e si sono poste –
troppe poche domande, per poter dare delle risposte significative. Occorre quindi
riconoscere che ancora sappiamo poco, molto poco, su questa realtà, per poterla
interpretare; ed accettare che molti degli approcci di ricerca, e delle categorie concettuali
impiegate, si sono rivelate inadeguate alla comprensione di un “fenomeno” che, al
momento, possiamo solo monitorare.
Appare dunque necessario muovere i primi passi partendo da acquisizioni
elementari e pertinenti. L’obiettivo di un tale “cammino” è quello di imparare – dalla
“strada” e dalle “discipline della città” – ciò che va guardato e compreso, e ciò che va
rivisto o dimenticato. Attraverso l’approccio etnografico alla realtà in questione; attraverso
l’impiego delle categorie teorico-concettuali del sapere antropologico, e della sua peculiare
4
M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di) 1995, pag. 36.
9
«immaginazione» (U. Hannerz 1980, trad. it. 1992, pag. 80); attraverso l’apporto
dell’ampio panorama di riflessioni in merito alle dinamiche urbane (sociologia e filosofia);
si cercherà di proporre, in questa tesi, una ipotesi teorica che possa muoversi, seppure
gradualmente e nei limiti del possibile, all’interno una complessità socio-culturale che,
quanto mai, necessita di essere rispettata.
Il primo passo di questo percorso sarà quello di definire l’improbabile concetto di
vita di strada: “improbabile” perché non si tratta propriamente di un concetto bensì di una
realtà, tanto vera quanto assurda, complessa ed indefinibile in termini esaustivi, che non
può essere né spiegata, né descritta e né compresa sino in fondo. Non esistono, a mio
avviso, concetti o teorie o metodologie di ricerca capaci di penetrare questo mondo, che
più lo si interroga e più appare come un “buco nero” senza ragione. Cercare di
comprendere la vita di strada, senza stravolgerla o semplificarla in rigidi schemi
interpretativi, senza esaltarla romanticamente o umiliarla con freddo cinismo, significa
accettare di perdersi nella sua complessità, e procedere per tentativi, attraverso molteplici
piani di astrazione e di narrazione, verso una possibile via d’uscita.
1.2.1 La vita: corpo-spazio-pratiche
Cosa significa parlare di vita di strada? Significa innanzi tutto parlare del concetto
di vita nella sua accezione più elementare: vita come presenza di un “corpo” in uno
“spazio”. La vita, in quanto esistenza biopsichica, implica l’esistenza di un corpo fisico,
interiormente animato ed esteriormente localizzato in quella porzione di territorio in cui
esso vive, ossia sta. Ciò significa che il corpo è uno spazio ed è nello spazio, cioè nel luogo
istantaneo in cui si trova. Vita e spazio, quindi, sono correlati, in prima istanza, da un
rapporto di coincidenza; ed il corpo – che incarna la vita e si presenta come spazio nello
spazio – è il nesso concreto tra questi due concetti.
Ma esiste una seconda relazione tra vita e spazio, che è il rapporto di necessità:
«Ogni società è fatta di luoghi e di corpi, ovvero di corpi che vivono, operano,
interagiscono, abitano certi luoghi. […] Come non possiamo pensare a una società se non
in quanto costituita da individui che coincidono visibilmente con i loro corpi, così non
possiamo considerare una società se non occupante un certo spazio, e più precisamente
luoghi dello spazio. […] Già da queste semplici notazioni è possibile intuire un nesso tra
luoghi e corpi. I corpi si muovono o risiedono in certi luoghi; i corpi non possono fare a
meno dei luoghi» (F. Remotti 1993, pag. 31).
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Quanto dice Remotti, oltre a chiarire il rapporto di necessità tra “vita” («corpo») e
“spazio”, ci consente di rilevare il nesso concreto attraverso cui si esprime questa
necessità: quell’insieme di operazioni, movimenti ed interazioni che qui chiameremo
“pratiche vitali”: pratiche abitative, relazionali, fisiologiche, motorie, cognitive, che
rappresentano quell’insieme di attività – materiali e simboliche – necessarie alla vita (per
riprodurla ed esprimerla), e che necessitano di uno spazio dove realizzarsi.
La vita, dunque, esiste perché è corpo, che la fa coincidere con lo spazio in cui si
trova; e continua ad esistere perché è un insieme di pratiche vitali, che la fanno necessaria
di uno spazio in cui muoversi ed esprimersi.
Ebbene, ritengo che la vita di strada sia riconducibile innanzi tutto a questi tre
concetti elementari, coincidenti e necessari: corpo-spazio-pratiche. Le persone di strada, o
perlomeno quelle che ho incontrato nel corso della mia ricerca, “vivono” di questo: del
loro corpo, di ciò che esso riesce a fare ed è in grado di sopportare; degli spazi urbani cui
riescono ad accedere, e di cui parleremo tra breve; e delle pratiche vitali grazie alle quali
sopravvivono, e attraverso cui esprimono una forma di vita che, sebbene non sia stata
scelta, non coincide solamente con la povertà o con l’esclusione sociale.
E arriviamo qui ad un punto importante, nella definizione dell’oggetto di questa
tesi: un punto che emerge dalla scelta di parlare di vita, anziché vite, di strada. Nella mia
ricerca – che fa riferimento ad un campione di ricerca composto da un limitato numero di
persone (i 12 componenti del gruppo principale, la “Famiglia di Via Marsala”; ed altre 20
persone, all’incirca, che per ragioni e percorsi diversi sono venute in contatto con essa) –
non ho inteso indagare le biografie o le singole esperienze di strada; ho preferito, piuttosto,
concentrarmi sulla vicenda relazionale che ha coinvolto, e riunito, i protagonisti di questo
lavoro (la Famiglia), e più in generale, sulle pratiche di interazione e relazione che
quotidianamente si determinano, e si dissolvono, in strada. Questo orientamento di ricerca,
unitamente ai dati osservati e raccolti sul campo, mi hanno indotto a considerare la vita di
strada come una esperienza collettiva.
Le persone senza una dimora provengono da esperienze biografiche differenti, e
vivono la strada in forme spesso molto diverse tra loro. Ciò nonostante la vita di strada è
attraversata da complesse relazioni interpersonali mediante le quali si stabiliscono amicizie
e collaborazioni, si insegnano e si mostrano pratiche e percorsi possibili, si trasmettono
saperi impliciti; in strada valori quali la solidarietà ed il rispetto assumono un’importanza
fondamentale, e sebbene non siano “sacralizzati” come norme morali inviolabili, ricoprono
una funzione importante all’interno delle relazioni individuali e di gruppo. Ma la vita di
11
strada non è solamente un insieme di scambi e di interazioni; né rappresenta una rete di
relazioni che possa essere studiata o riprodotta.
La strada è, fondamentalmente, un’esperienza – difficile, sofferta e complessa – ai
limiti dell’inconcepibile; ma allo stesso tempo reale e innegabile quanto un «dato di fatto»,
come ebbe a definirla Sandro.
5
Chi vive in strada sa – e solo loro lo sanno – cosa vuol dire.
È per questo che valori come la solidarietà non vengono praticati per la presenza di un
ordine morale superiore; quanto piuttosto per il fatto che ognuno in strada è solo come ogni
amico, conoscente o estraneo che ha accanto, e sa quanto è importante in certi momenti un
gesto di affetto o un piccolo aiuto; anche solo un cartone di vino la sera di natale, quando
per strada non passa nessuno e fa un freddo cane.
6
In strada le persone sanno riconoscere
la paura, la sofferenza e la solitudine di chi non ha un posto o una famiglia dove andare, né
il coraggio per tornare indietro; perché la conoscono. Sanno cosa vuol dire vivere in strada,
e lo sanno solo loro, perché ci vivono: è per questo che si aiutano; ed è per lo stesso motivo
che, spesso, si odiano.
1.2.2. La strada: attraversamenti di spazi sovra-determinati
A questo punto è possibile introdurre il secondo termine della definizione da cui
siamo partiti: la “strada”. Luogo tutt’altro che generico; socialmente, culturalmente e
politicamente connotato (e dominato); è lo spazio volto a consentire, e a controllare, la
circolazione di merci e persone.
stràda, s. f. 1. striscia di terreno che si estende nel senso della lunghezza, con
superficie piuttosto regolare, costruita e sistemata dall’uomo per permettervi il transito di
persone e veicoli che si spostano così da un luogo all’altro all’interno di una città o anche fuori
di città […] 3. sempre nel sing., con riferimento al fatto che nelle città è luogo frequentato da
gente volgare e spesso priva di scrupoli, diventa sinonimo di ambiente malfamato: donna,
ragazzo di strada II come luogo in cui si aggirano mendicanti, persone senza occupazione né
5
Taccuino, venerdì 1° febbraio 2002.
6
È accaduto la sera del 24 Dicembre del 2001. Di ritorno dal supermarket di Via Giolitti, Nicolas ed io siamo
passati davanti al gruppetto di Tury e Jimmy, due ragazzi africani, di cui conosco solo i nomi e poco altro.
Avevamo con noi tre cartoni di vino ed una bottiglia di vodka, per festeggiare il natale insieme al resto della
Famiglia; saranno state le sette di sera. Avevo offerto io. Forse perché mi sentivo in colpa al pensiero che di
lì ad un’ora sarei dovuto andare via, per cenare con la mia famiglia. Forse perché negli ultimi giorni la
Famiglia si muoveva poco, e non c’erano soldi, né vino. Comunque era la vigilia di natale, e decisi di offrire
da bere. Passammo davanti a Tury e Jimmy seduti insieme a qualcun altro che non ricordo, in Via Marsala.
Nicolas, che poco conosceva quei due ragazzi se non per i litigi e le botte che si erano scambiati nei giorni
precedenti, mi disse di fermarmi. Prese dalle mie braccia uno dei tre cartoni che trasportavo, e lo portò a
Tury. Poi tornò indietro, senza dire nulla; e insieme andammo a festeggiare con la Famiglia.
12
fissa dimora, diventa sinonimo di vita misera e indigente (cfr.lastrico): ridursi in mezzo a una
strada; mettere qu. in mezzo a una strada .
7
La definizione di strada contempla, dunque, il transito e lo spostamento, «da un
luogo all’altro», come uniche pratiche positive. Ogni altra attività, che non sia prevista e
regolamentata dalle leggi (fiere e mercati; manifestazioni e cortei), acquista in strada un
carattere negativo: fuori dalle norme e dalle consuetudini, la strada diviene un «ambiente
malfamato» perché «frequentato da gente volgare e priva di scrupoli»; ma è anche il luogo
della rovina, del «lastrico», sinonimo di «vita misera e indigente». Ebbene, per quanto
possano non esserci obiezioni significative da opporre alla definizione di strada data da un
dizionario, c’è sicuramente tanto da aggiungere.
Innanzi tutto la strada è, in questa sede, uno spazio urbano, un luogo della
metropoli. Definire il concetto di strada significa, dunque, poterla riconoscere all’interno
della struttura metropolitana. La città è rappresentata da un insieme di spazi funzionali e
controllati, ed esprime ciò che possiamo definire come l’«ordine spaziale pianificato dalle
istituzioni», nonché l’«organizzazione spaziale del processo produttivo»: essa è, cioè,
un’opera di «razionalizzazione della società» (M. Ilardi 1999). Se sino ad ora il concetto di
“spazio” è stato immaginato come l’elemento essenziale e necessario all’espressione della
vita, e se la sua connotazione – fisica, culturale e sociale – è stata ricondotta alle pratiche
vitali; adesso, parlando di spazio urbano, è bene tenere presente che la città – come insieme
di spazi, di corpi e di pratiche vitali – è immancabilmente sovra-determinata
dall’organizzazione istituzionale della società e dalla razionalizzazione del processo
produttivo. Gli spazi della città, dunque, coincidono con la loro funzione sociale; e i corpi,
così come le pratiche e i comportamenti che vi si esprimono, tendono a conformarsi alle
norme ed alle consuetudini che regolano quegli spazi e che assicurano il corretto
svolgimento delle funzioni.
Possiamo, allora, provare ad osservare la dislocazione degli spazi urbani, attraverso
una lente semplificatoria che ne isoli le funzioni e le pratiche interne di relazione. In questo
modo potremo individuare quattro tipologie di luoghi:
- i luoghi della produzione;
- i luoghi del consumo;
- i luoghi d’uso (privato e pubblico);
- gli interstizi.
7
Il dizionario della lingua italiana, De Agostini, Novara 1995.
13
In termini di relazione – corpo/corpo e corpo/luogo – i primi due spazi (della
produzione e del consumo) configurano rapporti di tipo contrattuale; in termini fisici, si
tratta di spazi spesso coincidenti tra loro, in cui si producono e/o si consumano merci,
redditi, servizi, cultura, tempo libero ed ogni altro bene, risorsa o idea che la nostra società
sia riuscita a trasformare in merce.
I luoghi d’uso pubblico sono quegli spazi formalmente pubblici, in cui si esprime il
diritto di cittadinanza (rapporti di carattere giuridico), nonché la propria essenza vitale ed
intellettuale (rapporti umani). Luoghi d’uso pubblico sono: le strade e le piazze; le stazioni
ferroviarie e le metropolitane; i parchi urbani; i luoghi di culto; gli uffici pubblici; e tutti
quegli spazi in cui l’accesso e la fruizione (sebbene regolamentati e controllati) sono
consentiti all’intera cittadinanza, senza particolari restrizioni. I luoghi d’uso privati sono
invece le abitazioni; ossia l’elemento fisico di cui maggiormente si compone una città.
L’abitazione – la casa – è un luogo d’uso, in quanto i rapporti che ne esprimono la
funzione non sono di tipo contrattuale, bensì sono rapporti umani e giuridici (la famiglia è
la sintesi di entrambe). In termini di fruizione, inoltre, l’uso della casa è tutelato dalla
stessa Costituzione, che sancisce, con l’art. 14, l’inviolabilità del domicilio; ben diversa,
invece, è la questione che riguarda l’accesso. La casa, infatti, lungi dal rappresentare un
diritto costituzionale, appare piuttosto come una risorsa, immancabilmente scarsa, il cui
raggiungimento rimane subordinato a vincoli di tipo burocratico (assegnazione di case
popolari) o economico-contrattuali (acquisto o locazione privata): in sostanza, se ne
assicura il diritto d’uso senza rendere certo quello di accesso.
Gli interstizi, infine, rappresentano quell’insieme di spazi, sia pubblici che privati,
di cui la città si è – apparentemente o momentaneamente – dimenticata. Sono i luoghi
aperti o gli edifici abbandonati, le aree di confine, gli spazi inaccessibili alla circolazione
cittadina, le zone in cui il controllo è sospeso: costruzioni dismesse, vuoti urbani, argini del
fiume, gallerie, propaggini ferroviarie, sottoponti, e tutti quei luoghi che, seppure recintati,
rimangono incustoditi e non-praticati.
Le persone che vivono in strada praticano diverse tipologie di spazi: l’esperienza
spaziale di chi non ha una casa, infatti, si caratterizza per il suo essere “trasversale” rispetto
ad una molteplicità di aree urbane, in cui si esprimono funzioni sociali e pratiche culturali
assai differenti. In sostanza, però, lo spazio vitale delle persone senza dimora – che qui
viene definito con il termine di “strada” – è costituito da due delle tipologie su indicate: i
luoghi d’uso pubblico, aperti, poco controllati o molto affollati (strade, piazze, stazioni); e
gli interstizi. Si tratta cioè di quell’insieme di spazi che si caratterizzano per il loro essere
14
un “fuori” – rispetto al “dentro” abitativo, produttivo e consumativo – e che vengono
continuamente messi in connessione tra loro, a ragione dei complessi percorsi di
attraversamento che le persone di strada compiono ogni giorno. In realtà, l’orizzonte di
movimento delle persone di strada risulta essere assai più complesso, dal momento che
anche i luoghi del consumo e della produzione, nonché gli spazi abitativi, possono rientrare
nelle loro traiettorie: chi vive in strada, infatti, a volte lavora; a volte fa la spesa, o
semplicemente entra in una profumeria per prendere dei campioncini di profumo; altre
volte riesce ad affittare una camera, o riceve ospitalità da un amico; ma non sempre, e non
tutti.
L’assunzione di una simile complessità – lungi dal diluire il concetto di “strada”,
che da quanto detto sembrerebbe coincidere con l’intera città – ci porta a rilevare che ciò
che definisce questo spazio non è tanto l’insieme dei luoghi che lo compongono, quanto
piuttosto le pratiche che lo attraversano. La strada è infatti uno spazio che coincide con la
vita di chi la abita: viverla significa portarsela dietro – e dentro – nel corpo, nella mente,
nell’aspetto, nei gesti, nei rapporti con gli altri e nelle proprie traiettorie. Entrare in un
supermercato per comperare un cartone di vino, del tonno, dei würstel e un filone di pane
già tagliato non è come fare la spesa per la settimana. E non tanto per il fatto che si hanno
meno soldi in tasca o un aspetto trasandato; quanto perché il luogo da cui si proviene è la
strada, ed è in strada che si ritorna una volta usciti dal supermercato. Ciò è ben diverso da
“uscire dall’ufficio”, “passare a fare la spesa” e poi “filare a casa”: è diversa la condizione
socio-economica, sì; è diverso lo stato mentale ed emotivo, nonché probabilmente la
visione del mondo cui si fa riferimento, certo; ma sono anche diverse le traiettorie e il
modo di attraversare e di vivere la città. È questo il dato che – più di ogni indicatore
misurabile – ci consente qui di definire e di localizzare la vita di strada all’interno della
società metropolitana.
Il termine “attraversamento” è forse quello che meglio esemplifica gran parte delle
pratiche spaziali che definiscono la strada. “Attraversare” significa «passare da una parte
all’altra», ossia «varcare»: qualcosa, una soglia, una linea, un confine. Ebbene, è questo ciò
che le persone di strada fanno quotidianamente: attraversano, e mettono così in evidenza,
quell’insieme di confini, concreti o simbolici, che affollano gli spazi e la vita urbana:
confini fisici, come un muro o un cancello, che racchiudono e proteggono le aree
incustodite in cui è possibile dormire; confini sociali, come quelli che separano un angolo
di marciapiede da una profumeria; confini culturali, che dividono la casa dalla strada;
confini relazionali, che proteggono le traiettorie “civilmente disattente” dei molti passanti
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intercettati dalle performance di richiesta; confini giuridici, che dispongono le norme di
accesso e di fruizione degli spazi urbani e che a volte chi vive in strada non rispetta;
nonché i confini temporali, che separano la notte dal giorno e che spesso scandiscono il
passaggio dagli “interstizi” (in cui si dorme) ai “luoghi pubblici” (in cui si staziona durante
il giorno).
Questa pratica di attraversamento dei confini – che, salvo qualche eccezione, non
sembra divergere molto da ciò che ogni cittadino domiciliato fa ogni giorno – possiede
una caratteristica ed una conseguenza particolari: la prima è di apparire socialmente come
una “violazione”; la seconda, ossia la conseguenza, è quella di mettere in evidenza, e
“svelare”, la fitta rete di confini che si dispiega all’interno della città. La pratica di
attraversamento delle persone di strada, oltre a connettere spazi che sono materialmente e
simbolicamente diversi tra loro, svela – attraverso l’evidenza di corpi non-sociali e di
comportamenti non-urbani – la presenza dei molti confini che separano e dominano gli
spazi e le persone. Di questi confini l’intera cittadinanza – compreso chi scrive – possiede i
mezzi e le chiavi d’accesso (auto, abbigliamento, denaro, documenti di identità; nonché
ruoli, status e titoli): esse consentono di attraversare i confini senza violarli – e dunque
senza farne esperienza – e di ribadirne l’esistenza e la necessità. Chi vive in strada non
possiede queste chiavi: ha solamente il proprio corpo e le pratiche che conosce, per vivere
in città.
Le persone di strada a volte si trovano – più per necessità che per interesse – a
violare confini fisici o formali, come un recinto o un divieto. Assai spesso però le loro
pratiche vitali e la loro stessa presenza in un luogo, comportano la violazione di quei
confini sociali e culturali che, una volta svelati, appaiono tanto assurdi quanto “sacri”:
riposare, coi vestiti logori, su una panchina; mangiare seduti davanti a una chiesa; bere e
poi crollare addormentati lungo il marciapiede; entrare, sudati e claudicanti, nel centro
commerciale della Stazione; fermare una persona e “recitargli” una battuta spiritosa in
cambio di qualche moneta. Sono comportamenti e pratiche che spaventano e disorientano
la società – violata nel suo ordine civile ed estetico – e che comportano spesso, per chi li
attua, umiliazioni, insulti, ed estenuanti controlli di polizia.
Nonostante questi “inconvenienti” – nonostante cioè vi siano continue limitazioni,
poste dalla cultura dominante, alle pratiche urbane di chi non ha una casa – le persone di
strada continuano, ogni giorno, a delineare il proprio spazio vitale tramite gli
attraversamenti, materiali e simbolici, dei confini che organizzano e regolano la società
metropolitana: facendo ciò, essi connettono tra loro spazi contrapposti, spesso estranei gli
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uni agli altri, e “costruiscono” un luogo fittizio ma necessario – dunque reale – cui
abbiamo dato il nome di “strada”.
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