E’ nato così un ampio filone di studi sul voto, per enuclearne paradossi ed
ambiguità. Quando si parla di paradosso del voto si intende l’assurdità logica
per cui date delle preferenze individuali, la preferenza sociale, cioè
l’alternativa che la società seleziona come risultato di una votazione, è quella
preferita da una minoranza o, addirittura, da uno solo, nonostante la procedura
della votazione rispetti i criteri formali di democraticità.
Se ciò è vero, è gioco facile per chiunque manipolare le procedure di voto per
arrivare al risultato a lui più congeniale. Vedremo alcuni paradossi, dove qui, il
termine paradosso, è utilizzato in senso meno generale rispetto all’espressione
“paradosso del voto”. Si tratta, infatti, di casi particolari che derivano tutti dalla
generica condizione di paradossalità prima enunciata. In alcuni casi, le
ambiguità derivano direttamente dal sistema di conteggio dei voti utilizzato,
senza che gli elettori intervengano direttamente per influenzare l’esito.
Vedremo, però, soprattutto esempi di manipolazione sia da parte di agenti che
esprimono le loro reali preferenze, che di elettori che mascherano l’ordine di
preferenza reale nel breve periodo per giungere al risultato per loro migliore
nel lungo periodo.
La teoria del voto non ci dice come risolvere queste incoerenze, ma è uno
strumento importante perché ci avverte dell’esistenza di paradossalità. Tale
teoria, inoltre, è uno strumento fondamentale anche nella fase di elaborazione
delle procedure di voto, sia perché mette in guardia dall’esistenza di possibili
aberrazioni, ma anche perché consente di analizzare le procedure per valutare
se rispecchino criteri basilari come l’imparzialità o l’efficacia. Un’analisi a
maggior ragione più importante se riferita a istituzioni sovranazionali come
l’Unione Europea, in cui si intersecano vari piani di interesse, nazionali e
sovranazionali, nonché esigenze di democraticità delle decisioni e di efficienza
del processo decisionale. Il caso dell’Unione Europea, e, nello specifico, del
Consiglio dei Ministri, è particolarmente interessante perché si tratta di un
sistema di voto ponderato, dove ad ogni membro sono assegnati dei pesi
diversi, per cui si postula una disuguaglianza costituzionalmente riconosciuta
tra gli Stati membri. Il problema diventa spinoso a causa dell’allargamento, per
8
le conseguenze che ciò comporta per il funzionamento delle istituzioni. Infatti,
all’aumentare del numero di membri di un’assemblea, occorre verificare quali
soglie di maggioranza rendano più efficace il processo decisionale, e se i pesi
assegnati ai vari Stati mantengano una certa eguaglianza tra gli elettori
indiretti, cioè i cittadini.
La teoria del voto ci aiuta a capire, non solo eventuali aporie dai principi
informatori dell’Unione, ma anche verso quale direzione l’Unione si stia
muovendo. Infatti, a fronte di una comunità di Stati sempre più numerosa, è
possibile concepire un equilibrio tra “unione di Stati” ed “unione di popoli”?
Se questo è l’obiettivo, lo strumento principale per raggiungerlo resta sempre il
voto. E’ in quel momento che emergono tutte le difficoltà e le divergenze, ed è
proprio compito del sistema di voto cercare di tener conto dei principi
informatori di un sistema e creare un certo equilibrio.
A questo proposito, nel corso del lavoro utilizzeremo alcuni indici di analisi
delle procedure elettorali, che ci permetteranno di fare un confronto tra il
sistema di voto previsto per il Consiglio dal Trattato di Nizza e quello previsto
dal Trattato di Lisbona, relativamente all’Europa a 27. Tali indici si basano a
loro volta sugli indici di potere di voto, che misurano qual è il potere effettivo
che una particolare procedura attribuisce a ciascun membro. Si tratta di uno
strumento particolarmente utile in un sistema di voto ponderato, dove i pesi
possono nascondere delle grosse disuguaglianze. Calcoleremo, dunque, gli
indici di potere che le diverse procedure attribuiscono a tutti gli Stati membri.
Questi ci serviranno per fare un primo confronto tra i due sistemi, valutando
quale rispetta maggiormente una certa eguaglianza tra gli Stati. Gli indici di
potere ci permetteranno, soprattutto, di calcolare degli indici di efficienza e
imparzialità per le due procedure, per capire le differenze ed i punti deboli dei
due sistemi, nonché avere dei punti di riferimento per un processo di
miglioramento degli stessi.
Da qui, dunque, la grande utilità della teoria del voto. Se, infatti, è vero che
essa non può dirci come risolvere il paradosso del voto, ci permette, tuttavia, di
analizzare in profondità un sistema di voto, tanto più importante quando da
9
esso derivano decisioni che riguardano milioni di cittadini ed il prestigio di
un’organizzazione come l’Unione Europea.
In pratica, la teoria del voto ci permette di dare una valutazione concreta sullo
scarto tra l’ideale ed il reale.
10
11
TEORIA DEL VOTO
1. Democrazia e principio maggioritario
Nel corso della storia si è molto dibattuto sull’essenza della democrazia, sullo
scarto tra l’ideale e il reale. In particolare, il rapporto tra fini e mezzi ha
suscitato un vivo interesse, perché se non è possibile raggiungere il fine, allora
il concetto stesso di democrazia resta quasi esclusivamente teorico. In genere,
lo strumento utilizzato per raggiungere i fini democratici è il voto, sia per
eleggere i rappresentanti a cui il popolo delega il potere decisionale, che nelle
istituzioni in quanto sedi decisionali. Rousseau, ultimo fautore della
democrazia diretta, scriveva nel Contratto sociale che “il popolo è libero solo
nel momento in cui va a votare, e subito dopo ridiventa servo”. Più realistica
della democrazia diretta, la democrazia rappresentativa si basa sul principio
descritto da Montesquieu nell’Esprit des lois, secondo cui “il popolo, ciò che
non può fare da solo, lo rimette ai suoi ministri”. Oggi, visti i cambiamenti
intercorsi, diciamo il contrario, cioè che il popolo non può fare niente da solo,
ma deve rimettere tutto ai suoi “ministri”, ovvero ai suoi rappresentanti.
Per quanto diverse possano essere le teorie sulla democrazia, hanno comunque
tutte un comun denominatore nella partecipazione attraverso il voto. Si discute
su quale sia la forma di partecipazione migliore, quale sia la procedura
decisionale migliore, ma la premessa è che non si può prescindere dal voto. In
effetti, rispetto alle altre forme di governo, la democrazia è caratterizzata
innanzitutto dalle regole che presiedono alla scelta dei capi, attraverso
l’elezione periodica, che esclude sia la successione per eredità che la
cooptazione, per evitare che la classe politica si autoalimenti senza sottoporsi
al controllo dei cittadini; a questo si aggiungono le regole per prendere delle
decisioni collettive pacificamente e con il massimo consenso. L’applicazione
corretta di tali regole non garantisce che la classe politica eletta sia in assoluto
la migliore, così come non c’è nessuna garanzia che la decisione presa
“democraticamente” sia la più saggia. Tuttavia, “solo in un regime
12
democratico la classe politica può essere cambiata senza spargimento di
sangue”
1
, così come si presume che una decisione assunta da un’istituzione
democratica sia a vantaggio dei più e che possa essere cambiata con lo stesso
criterio con cui è stata presa. Questo approccio ci induce a parlare di
democrazia come metodo, cioè come insieme di regole del gioco che
stabiliscono come si devono prendere le decisioni, e non quali decisioni si
devono prendere.
La principale tra queste regole è il principio di maggioranza, in base al quale il
risultato di una decisione collettiva è quello che ottiene l’approvazione della
maggioranza dei componenti della collettività, in cui la quota minima richiesta
è quella del 51%.
Per Bobbio tale regola deve essere catalogata insieme agli universali
procedurali, cioè i principi di base su cui si deve fondare la democrazia.
Nell’elenco degli universali, troviamo i diritti politici, di cui sono soggetti tutti
gli individui che abbiano raggiunto la maggiore età, senza distinzione di razza,
sesso, religione e condizione economica; l’eguaglianza nel voto, cioè il voto di
tutti i cittadini deve avere uguale peso; il diritto di votare liberamente, secondo
la propria opinione, formatasi il più liberamente possibile; la pluralità, che
garantisce la libertà di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che
abbiano programmi ed idee alternative; la possibilità della minoranza di
diventare a sua volta maggioranza; e, soprattutto “sia per le elezioni che per le
decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel
senso che si consideri eletto il candidato o si consideri valida la decisione che
ottiene il maggior numero di voti”
2
. Gli universali sono regole che stabiliscono
non già che cosa si deve decidere, ma chi e come. Si tratta, cioè, di quelle che
abbiamo definito le regole del gioco, criteri meramente formali che hanno il
vantaggio, però, di dare al concetto di democrazia un significato ristretto e
chiaro, migliore di quello molto più ampio di democrazia come governo del
popolo. E’ senza dubbio vero che non si può ridurre la democrazia alla sola
1
Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1945.
2
Norberto Bobbio, Teoria generale della scienza politica, 1999, Einaudi editore, p.381.
13
applicazione di tali regole formali, perchè vorrebbe dire stabilire un’equazione
semplicistica e per certi versi pericolosa. Tuttavia, possiamo dire che se le
regole del gioco, o universali procedurali, non sono una condizione sufficiente
della democrazia, sono comunque una condizione necessaria. Infatti, se non si
può ridurre il concetto di democrazia alla sola democrazia formale, allo stesso
tempo basta l’inosservanza di una sola di queste regole perché un governo non
sia democratico.
Regola di maggioranza e democrazia. Nonostante l’importanza delle regole
del gioco per la democrazia, sarebbe sbagliato pensare che democrazia e
principio maggioritario siano sovrapponibili. Infatti, altre forme di governo,
oltre alla democrazia, utilizzano la regola di maggioranza, né questa
rappresenta il modo esclusivo di prendere decisioni.
L’idea che ci sia una completa sovrapposizione deriva dall’interpretazione
errata della classica definizione di democrazia come “governo della
maggioranza”. Infatti, l’ideale di democrazia implica un sistema che
contrappone al governo dei pochi o del singolo (oligarchia e monarchia) il
governo dei molti. Tuttavia, sarebbe una forzatura logica e terminologica far
discendere da questo l’idea secondo cui la democrazia sia esercitata tramite il
principio maggioritario. Infatti, da Hitler ad Hamas, per restare nel mondo
contemporaneo, la storia ci offre tanti esempi di governi tutt’altro che
democratici eletti con la regola della maggioranza, e le cui decisioni sono
frutto dell’applicazione di tale regola. La democrazia è il governo della
maggioranza, non il governo tramite la maggioranza.
In effetti, la storia del principio di maggioranza non coincide con la storia della
democrazia come forma di governo. Già il diritto romano riconosceva la
necessità di utilizzare la regola della maggioranza, in quanto procedura più
idonea per la formazione di una decisione collettiva. Quando due o più
individui si riuniscono in una collettività, universitas per lo ius latino, danno
vita ad una totalità distinta e superiore rispetto alle parti, in cui i componenti
non sono più chiamati ad agire uti singuli, ma uti universi, e sono, di
14
conseguenza, tenuti ad esprimersi non separatim, ma collegialiter. E’ in questo
momento che inizia il dibattito sulla natura, la funzione e le modalità della
regola di maggioranza, dibattito che non ha nulla a che vedere con quello su
natura, funzione e modalità della democrazia o di altre forme di governo. In
altre parole, il principio di maggioranza è concepito in funzione delle
problematiche che sorgono quando un individuo agisce insieme ad altri
individui, mentre non è connesso alla nascita della democrazia, né è escluso
che possa essere compatibile anche con altre forme di governo. Il connubio tra
regola di maggioranza e democrazia è successivo, e devono verificarsi
determinate condizioni storiche perché una decisione presa a maggioranza sia
anche accettabile secondo i canoni sostanziali della democrazia.
Perché il principio di maggioranza è una condizione necessaria della
democrazia? Esistono alcuni argomenti che giustificano la razionalità della
regola di maggioranza, che permette di associare un criterio quantitativo ad
una scelta come un’elezione o una decisione, che sono meramente qualitative.
In particolare, c’è chi sostiene che la maggioranza è una regola razionale
secondo il valore, chi invece ritiene che sia razionale secondo lo scopo.
Secondo gli argomenti assiologici, essa permette meglio di altre di soddisfare i
valori di libertà ed uguaglianza. Tuttavia, sono argomentazioni poco
convincenti. Infatti, per quanto riguarda l’uguaglianza, questa è una
precondizione perché valga il principio di maggioranza, cioè è necessario che
tutti siano ritenuti eguali perché la maggioranza non sia viziata. Per cui,
l’eguaglianza giustifica la maggioranza e non il contrario.
Per quanto riguarda la libertà, l’idea è che il principio di maggioranza consente
la “massimizzazione della libertà”, o “massimizzazione del consenso”, dove la
libertà è intesa come autodeterminazione, cioè “essere liberi” significa ubbidire
alle leggi a cui si è dato il proprio consenso. Non sembra, però, che questo
abbia a che fare con la democrazia, perché l’autodeterminazione o il consenso
del maggior numero non sono l’elemento caratterizzante della democrazia.
Perché un sistema sia democratico, occorre piuttosto sapere quanti sono coloro
che beneficiano dei vantaggi del principio di maggioranza, quanti coloro a cui
15
è concesso di autodeterminarsi o di esprimere il proprio consenso; poiché tali
possibilità devono essere concessi a tutti, è più opportuno dire che sia il
suffragio universale a caratterizzare la democrazia. Solo dopo si procede
materialmente al conteggio dei voti, e si applica la regola di maggioranza per
quantificare concretamente i “molti”. Come criterio tecnico, è indifferente che
i voti sino dati liberamente, perciò dire che la maggioranza massimizza la
libertà implica attribuirle una virtù che non le appartiene.
Questa conclusione ci conduce all’altra categoria di argomenti che giustificano
il principio di maggioranza, cioè gli argomenti tecnici. Infatti, intesa nel senso
appena definito, la maggioranza diventa un espediente tecnico cui si ricorre per
contare i voti. Secondo tali argomenti, la regola sarebbe razionale secondo lo
scopo, perché si può raggiungere una decisione collettiva tra persone che
hanno opinioni diverse, cosa che non è consentita dall’unanimità.
In una collettività, si può richiedere che una decisione abbia il massimo
consenso possibile, ed allora si utilizza l’unanimità; questo, tuttavia, porta
all’inazione, soprattutto se la collettività è abbastanza numerosa. La regola di
maggioranza viene proposta per permettere la formazione di una volontà
collettiva in un’assemblea, in opposizione all’unica regola alternativa,
l’unanimità, che ostacola o addirittura preclude la formulazione di una volontà
collettiva o la permette solo in casi eccezionali, quali quelli in cui si ricorre
all’acclamazione o al consenso tacito. Dove non è possibile il consenso totale,
ma solo parziale, la regola della maggioranza impone di considerare come
consenso totale il consenso parziale della maior pars, in base alla ovvia
constatazione che, se fosse richiesto il consenso totale, non si arriverebbe mai
o quasi mai ad una decisione, che è l’obiettivo di qualsiasi collettività. D’altra
parte, se fosse richiesto un consenso parziale minore a quello manifestato dalla
maggioranza, la decisione non potrebbe essere considerata collettiva nella
stessa misura in cui lo è una approvata a maggioranza. In effetti, l’unanimità
sminuisce il carattere della collettività, perché gli individui, avendo il liberum
veto, agiscono comunque uti singuli. Nel momento in cui si costituisce un
gruppo, o si vuole accentuare la collegialità di una decisione, il passaggio dalla
16