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Guidano e, soprattutto, di Liotti: è apparso evidente come l’uomo, attraverso la
coscienza, viva in una narrazione in cui la sua storia, intrecciata nel tempo, che è
passato, presente e futuro, gli permette di dare un senso di coerenza nella
rappresentazione di sé, degli altri e della realtà.
Il terzo capitolo è stato dedicato interamente all’approccio narrativo e, in
particolare, alla posizione teorica di Bruner e Veglia. L’uomo è un essere culturale
che si differenzia dalle altre specie. La chiamata a costruire liberamente significati
e a condividerli grazie alla capacità di raccontare e condividere storie è stato il
tema costitutivo. Ciò che motiva l’essere umano a raccontarsi, è la possibilità di
crearsi all’interno di una narrazione che gli indica una direzione per cercarsi un
suo personale senso nell’andare nel tempo e nella storia.
Il metodo ricostruttivo teorizzato da Veglia ha rappresentato il senso da
cui si è mossa la trattazione di questa parte: le storie che vengono narrate per
condividere i significati della vita umana, possono essere lette e attuate secondo
cinque temi di vita fondanti e irrinunciabili: l’Amore, il Valore, il Potere, la
Libertà e la Verità attraggono la ricerca di significato dell’uomo.
La seconda parte della tesi ha sviluppato il percorso che ha portato la
teologia a emanciparsi da un’identità autoesplicativa per narrarsi all’uomo come
antropologica e fondamentale.
Nel quarto capitolo ho cercato di delineare i concetti storici e fondanti di
una teologia, nata e sviluppatasi dopo l’avvento di Cristo che, sostanzialmente, ha
costruito una propria strada senza mai effettivamente riuscire a incontrare l’uomo
nella sua umanità.
Il quinto capitolo descrive come la teologia contemporanea del novecento
abbia ridiscusso i fondamenti della fede, riportandoli in un orizzonte di evidenze
umane condivise. L’uomo inizia a guardare la propria fede come a un’esperienza
antropologica fondante la sua ricerca di significato nel mondo.
Nel sesto capitolo, il cuore della questione si sviluppa intorno al modo in
cui la teologia fondamentale diventa metodo per rivelare all’uomo che la fede è
costitutiva dell’uomo. Nella manifestazione della verità, Dio chiede all’umanità
un affidamento per condividere un viaggio, un senso e un futuro possibile:
attraverso l’Evento incarnato, entrato nella storia come storia, l’uomo è libero di
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diventare se stesso e di avere valore. È questa la Storia della rivelazione che ha
come compimento l’Amore.
Infine, la terza parte della tesi è stata dedicata al confronto e alle
considerazioni finali. Dopo aver parlato di alcuni concetti, rintracciabili e
raffrontabili nelle due prospettive, ho confrontato i due approcci, sia dal punto di
vista metodologico che di contenuto, per verificare una loro possibile
integrazione.
11
PARTE I
L’APPROCCIO NARRATIVO IN PSICOLOGIA
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CAPITOLO PRIMO
IL COSTRUTTIVISMO
“E il gabbiano Jonathan Livingston visse il resto dei
suoi giorni esule e solo. Volò oltre le Scogliere Remote. Il suo
maggior dolore non era la solitudine, era che gli altri gabbiani
si rifiutassero di credere e aspirare alla gloria del volo. Si
rifiutavano di aprire gli occhi per vedere” (Bach, 1977).
La riscoperta del mentale nell’ambito dell’indagine psicologica ha
favorito una più radicale revisione epistemologica che investe i fondamenti stessi
della conoscenza e che ha confermato la tendenza all’interdisciplinarità promossa
dalle scienze cognitive. N’è testimonianza il confluire di diversi approcci
disciplinari verso l’epistemologia costruttivistica. In reazione al “realismo
metafisico” sottostante i criteri di scientificità naturalistici, il costruttivismo ha
intentato “un processo senza appello alla percezione priva di concettualizzazione,
al puro dato, all’assoluta immediatezza, all’occhio innocente, alla sostanza come
sostrato” (Goodman, 1978).
Contrariamente a quanto appare al senso comune, secondo i costruttivisti
non esiste un mondo reale preesistente e indipendente dall’osservatore, ma
esistono diverse “versioni del mondo” che dipendono dai punti di vista
osservativi. In opposizione all’epistemologia rappresentazionista, che postula un
soggetto “recettore” di realtà oggettive, la nuova epistemologia riscopre la matrice
costruttiva e dialogica del sapere anticipata da un’antica tradizione filosofica.
Ogni percezione, giudizio, operazione cognitiva non è un rispecchiamento di cose,
ma un’operazione procedurale, costruttiva, in cui l’osservatore è implicato in un
processo autoreferenziale (ibidem).
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La concezione costruttivistica della realtà, sostenuta da apporti di
discipline diverse come la biologia, la cibernetica e la fisica, ha avuto accoglienza
in psicologia soprattutto in alcuni ambiti della psicologia cognitivista e della
psicologia sistemica, con importanti implicazioni per la ricerca e le applicazioni
cliniche e sociali.
Sul piano teorico, il recupero di una visione solistica della persona e del
suo ruolo attivo, di “inventore di realtà” (Watzlawick, 1984), ha portato alla
formulazione di modelli interpretativi più complessi che fanno riferimento
all’uomo non tanto come “elaboratore d’informazioni”, quanto come “costruttore
di significati”, e all’ambiente non più come luogo di stimolazioni esterne, ma
come universo di simboli e d’esperienze.
Il cognitivismo deriva come diretta filiazione dal comportamentismo
classico (Gardner, 1985). Intorno alla metà degli anni settanta si verifica una crisi
epistemologica del comportamentismo che è crisi sui generis: non è infatti tanto
dovuta ad una mancanza di risultati quanto ad una crisi di carattere esplicativo, nel
senso che il comportamentismo non riesce più a spiegare nemmeno i risultati dei
successi che ottiene (Bara, 1996). L’origine del cognitivismo è quella
dell’introduzione di una variabile in più nello schema semplice del
comportamentismo, composto da uno stimolo ambientale e una risposta
comportamentale. L’idea (Guidano, 1991), nella sua semplicità, era appunto
diventata inutile, in quanto non riusciva a spiegare quasi più niente. La nascita
dell’idea cognitivista è infatti l’introduzione della famosa “O” tra la “S” e “R”,
come ammettere in fondo che tra lo stimolo ambientale e la risposta
comportamentale ci siano delle variabili intraorganismiche specificate da questa
“O”. Variabili individuabili in pensiero, immaginazione, fantasie, aspettative,
ragionamento, dialogo interno, così come allora usava chiamarlo (ibidem). Questa
piccola variazione permetteva per la prima volta di poter prendere in
considerazione i fenomeni mentali fino ad allora considerati sinonimo di
stregoneria ed eresia come durante tutto il Medioevo. Essi potevano essere trattati
alla stregua di oggetti legittimi di indagine, ricostruzione e intervento (Gardner,
1985). L’ottica che ne è derivata è più elaborata rispetto alla precedente, quella
comportamentistica. La metafora base era di paragonare l’individuo ad uno
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scienziato: l’attività di quest’ultimo è costantemente diretta a quello che fa, quello
che studia, agli esperimenti che progetta (Reed, 1989). Facendo così lo scienziato
corre sempre sui binari della teoria scientifica cui aderisce; allo stesso modo
l’attività di un individuo che agisce, dice e pensa, è sempre diretta, corrispondente
o dipendente dalla teoria di sé e del mondo che lui stesso si è formato (Bara,
1996). Questa teoria veniva equiparata ad una specie d’insieme, ad una
configurazione di convinzioni articolate e disposte in modo gerarchico tra loro; si
ammette sostanzialmente che ogni convinzione produceva delle aspettative e si
sviluppava all’interno di una persona attraverso quello che veniva chiamato
“dialogo interno” (Guidano, 1991).
La metafora dello scienziato si è ulteriormente formalizzata in quella
della “mente come computer” (Gardner, 1985). La teoria dell’elaborazione e
dell’informazione ha avuto proprio nel cognitivismo una fondamentale
applicazione. Fermandoci a questo aspetto della metafora mente-computer,
possiamo cogliere il punto di passaggio che poi darà luogo al cognitivismo post-
empirista.
Se si considera attendibile questa metafora e diciamo che la mente
funziona come un computer, risulta immediato che la mente funziona secondo un
programma, un ordinamento che sta fuori di lei, come succede ad un computer
(Thagard, 1998). Quest’ultimo funziona in base ad un programma preciso ma
questo programma, che fa fare le operazioni che vogliamo alla velocità che
vogliamo, dipende da un ordine logico-matematico, grazie al quale si possono
costruire un’infinità di programmi con cui poi il computer funzionerà (ibidem).
È questo il punto base per cui, dalla fine degli anni settanta, si è
cominciato a rivedere profondamente tutto. Il problema non era più soltanto
quello di ampliare un paradigma, inserire ulteriori elementi e renderlo più
complesso e articolato ma cambiare l’orientamento epistemologico (Bara, 1996).
Le domande di fondo, che ci propone Guidano (1991), “che cos’è il
mondo?”, “cos’è la realtà?”, “cos’è il nostro essere individui in questa realtà?”,
cercavano risposte sotto un’altra impostazione. In quella empirista classica, come
si desume dalla metafora del computer, il tema di fondo è questo: esiste un ordine
esterno univoco e uguale per tutti, in cui è già contenuto in qualche modo il senso
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delle cose; tutta la conoscenza è semplicemente una riproduzione, una
rappresentazione che corrisponde in maniera più o meno esatta ad una
riproduzione di quest’ordine (Bara, 1996).
In quest’ottica l’unico modo per poter valutare la validità di un dato di
conoscenza è quello che si realizza attraverso un criterio di corrispondenza,
quando si misura il dato di conoscenza in questione con l’ordine degli assiomi
razionali, logici, standardizzati, assunti ad essere l’ordinamento di base del mondo
(Viggiano, 1995).
1.1 L’idea di post-razionalismo
Verso la fine degli anni ottanta in psicologia è entrata in crisi
l’epistemologia empirista (Guidano, 1991).
Secondo quest’ultima, la realtà acquista un carattere sostanzialmente
oggettivo, indipendente e univoco, cioè uguale per ogni essere umano; essa,
infatti, esisterebbe indipendentemente dai nostri modi di percepirla e i significati
di questa realtà tenderebbero a restare oggettivamente contenuti nelle cose stesse.
Sulla stessa linea argomentativa (Caramelli, 1983), la conoscenza
acquista una certa validità solo se esiste un’adeguata corrispondenza tra le
rappresentazioni dell’ordine esterno che ha il soggetto conoscente e l’ordine
esterno stesso. Questa situazione epistemologica sulla realtà e sulla conoscenza è
valida tanto nella corrente empirista quanto nella sua contraria, il razionalismo
(Thagard, 1998). Questo impianto teorico è stato fondato a partire dal 1600 fino
alla nostra epoca e corrisponde al pensiero di Bacone (Abbagnano, Fornero,
1991), per il quale i sensi ci danno una rappresentazione immediata, riferita a
quello che è la realtà; ogni osservazione comprende un’istantanea fotografica che
coglie la realtà esterna “così com’è”. Guidano, pioniere dell’approccio post-
razionalistico, chiama ciò la posizione dell’osservatore privilegiato (1988a,
1991). Lungo il processo storico avviene che i criteri vanno mutando (Gardner,
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1985): il paradigma empirista è sostituito dal razionalismo, rappresentato dal
Circolo di Vienna, nel quale la realtà si spiega con gli assiomi, i principi della
logica simbolica e l’analisi del linguaggio, alla base di tutta la conoscenza
razionale. La realtà oggettiva e identica per ogni essere umano si trasporta dunque
in un universo principalmente astratto, costituito dalle dimensioni del carattere
razionale. Come si può dunque notare, tanto l’empirismo quanto il razionalismo
sostengono, a parte le loro differenze, una stessa concezione della realtà e sul
conoscere entrambi postulano la rappresentazione di un ordine che è esterno
all’osservatore (Viggiano, 1995).
1.2 Modifica della relazione osservatore/osservato
La visione descritta è stata scossa nelle sue fondamenta per il mutamento
capitato nella relazione tra osservatore ed osservato (Guidano,1988a). Il primo
pensatore che vede ciò con chiarezza è Russell che, nella sua famosa lettera a
Frege del 1902, considera la conoscenza da un punto di vista autoreferenziale.
Nelle scienze “dure”, troviamo la svolta più importante nella fisica,
mediante i suoi modelli di fisica quantistica (Planck, 1966), nel principio di
indeterminazione (Heinsemberg, 1966) e nella teoria della relatività (Einstein,
1933). Nelle nuove teorie in fisica, diventa quindi incompatibile un osservatore
puramente neutro e passivo nella sua osservazione. Egli di fatto non appare come
un individuo oggettivo, né le sue osservazioni corrispondono alla realtà così
com’è; nella relazione tra osservatore e osservato introduce, con la sua
osservazione, un ordine in ciò che osserva, e ciò dipende dalla sua struttura
percettiva più che da qualche obiettivo esterno a lui (Guidano, 1988a). Ciò che si
comincia a notare chiaramente è una maggiore coscienza che quella realtà nella
quale viviamo è co-dipendente dai nostri modi di ordinarla ed è inseparabile da
ogni percezione umana. Il mondo delle regolarità che sperimentiamo è un mondo
costruito da parte di ogni osservatore (ibidem). È evidente che tutto ciò comporta
conseguenze imprevedibili per la psicologia, per il fatto di situare su un piano
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epistemologico primario la figura dell’osservatore. Ciò che l’osservatore osserva
dipende molto dal suo “apparecchio percettivo” (ibidem) piuttosto che dalla
struttura obiettiva ed esterna a lui delle cose. Questo cambiamento ha modificato
la figura dell’osservatore, visto ora come un ordinatore di ciò che percepisce. La
conoscenza diventa il mezzo con cui un individuo organizza i relativi rapporti con
l’ambiente (Belardinelli, 1991). Di conseguenza essa viene considerata come un
processo d’organizzazione dell’organismo che considera l’ambiente in cui si
sviluppa ed è strutturata in funzione dei bisogni e delle richieste della persona e
non di quelle di un ordine esterno. Rispetto ad un individuo in cui la conoscenza è
considerata come una forma di auto-organizzazione, essa non è qualcosa che
viene dall’esterno, ma che viene dall’interno e che va, direzionalmente, verso
l’esterno (Guidano, 1988a). La conoscenza è il modo con cui l’organismo
trasforma e modifica l’ambiente per trovare il relativo adattamento, laddove
adattamento significa trasformare l’ambiente in sé. Questa visione cambia anche
la nozione di realtà, poiché, se l’organismo è sempre teso ad auto-organizzarsi, la
conoscenza è il modo in cui essa trasforma l’ambiente nel modo più simile a se
stesso. Se si accetta che la conoscenza di ogni organismo è auto-organizzata, si
nega l’esistenza di una realtà esterna all’individuo, la stessa per ognuno
(Maturana, Varela, 1985). La “realtà” di cui si parla è un “fluire”, un continuo
andare e venire, una rotazione continua di tutte le cose. È un qualcosa che si
presenta simultaneamente in molti sensi e in differenti livelli d’articolazione, con
la caratteristica che nessun livello può essere ridotto ad un altro. Tutti i livelli
dell’osservazione di questo processo multiplo sono autonomi (ibidem); non è mai
possibile attribuire un significato unico ed esaustivo a ciascuna osservazione che
proviene sempre da un singolo osservatore con un proprio punto di vista
(Guidano, 1991). Da un’ ottica post-razionalista il problema, pertanto, è riuscire a
sapere chi è l’osservatore, ricostruire la sua naturalezza per ri-progettarvi ciò che è
l’esperienza umana e come estrarne i suoi significati (Veglia, 1999).
Con il termine costruttivismo (Belardinelli, 1991) si indica tale
orientamento, condiviso da diverse discipline, secondo il quale la realtà non può
essere considerata qualcosa di oggettivo, indipendente dal soggetto che la
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esperisce, perché è il soggetto stesso che crea, costruisce, inventa ciò che crede
che esista.
1.3 Origini del costruttivismo
Ripercorrendo la storia, si può riconoscere nel filosofo italiano
Gianbattista Vico (Von Glasersfeld, 1984) la paternità del pensiero costruttivista.
Egli spiega che la mente umana giudica le cose lontane e inaccessibili
tramite ciò che le è familiare e vicino (Abbagnano, Fornero, 1991). La frase
vichiana si riferiva alle grandi distanze nella storia, distanze di secoli e millenni.
La psicologia costruttivista, ignara di Vico, reinventa quell’idea, denominandola
“assimilazione” (Piaget, 1926), e ne fa un principio universale, applicabile non
solo ai ricordi di tempi lontani nella storia delle civiltà, ma a tutto ciò che viene
percepito, soprattutto a ciò che, nella storia dell’individuo, viene ripreso dopo un
intervallo di tempo relativamente breve. Secondo questo principio, non si può
ricostruire il passato se non attraverso i concetti ed i ragionamenti del presente
(ibidem).
Agli inizi del XVI secolo, Vico fu il primo a mettere in discussione il
metodo scientifico introdotto da Descartes, facendo corrispondere la conoscenza
razionale alla costruzione della mente che organizza l’esperienza, da cui la nota
affermazione verum ipsum factum (il vero è il fatto stesso) (Abbagnano, Fornero,
1991).
Anche nelle teorie degli empiristi inglesi Locke, Berkeley e Hume
(ibidem), emerge il dubbio che le qualità che comunemente si associano alle cose
dipendono in realtà non dalle cose stesse ma dalla riflessione dell’osservatore che
costruisce le relazioni attraverso i concetti di tempo, spazio, movimento, numero,
causa, ecc..
Successivamente è stato Kant (1793) a delineare i concetti al pari di
principi regolatori dell’esperienza (i precursori di ciò che oggi viene chiamato
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schema o costrutto): essi non sono dunque uno specchio fedele della realtà, ma
agiscono come una sorta di guida funzionale nell’interazione con il mondo.
È nel nostro secolo che ci scontriamo con l’esplosione del movimento
costruttivista ad opera di numerosi studiosi che, dai diversi campi scientifici e
spesso inconsapevoli l’uno dell’altro, sono giunti alle medesime rivoluzionarie
conclusioni (Belardinelli, 1991).
La svolta epistemologica prospettata dal costruttivismo è, in realtà, in
aperto contrasto con i criteri scientifici del naturalismo e del positivismo che
hanno condizionato la nascita e lo sviluppo della psicologia (Viggiano, 1995). La
stessa fiducia in una realtà esterna ed indipendente dall’osservatore è messa in
crisi dalla “scoperta” del ruolo essenziale della presenza umana all’interno del
campo di osservazione (Guidano,1991). Il realismo ingenuo del senso comune,
che la scienza classica aveva fatto proprio, perde terreno di fronte al
riconoscimento delle condizioni effettive della conoscenza, che non ci permettono
di affermare l’oggettività dei dati. Per quanto strano possa sembrare è un premio
Nobel per la fisica, Schrodinger (1958), ad affermare che “l’immagine che ogni
uomo ha del mondo è, e rimane per sempre, una costruzione della sua mente, e
non si può provare che abbia alcuna altra esistenza”.
Questo paradigma, che richiede di mettere in parentesi l’oggettività
(Guidano,1991), trova infatti la sua genesi e le sue più rilevanti applicazioni
nell’ambito delle scienze “forti” (fisica, biologia, cibernetica in primis), ma ha
radici profonde nella storia del pensiero, tanto da richiamare l’antica evidenza
mostrata dai presocratici: noi non possiamo conoscere direttamente le cose, ma
solo la nostra esperienza delle cose.
L’affermazione del primato dell’esperienza su ogni conoscenza esatta e
la valorizzazione dei significati che si creano nello scambio tra soggetti sono i
temi-guida del costruttivismo (Casonato, 2000) che lo rendono particolarmente
adatto alla psicologia.
Gli oggetti di cui si occupa la “scienza dello psichico” si presentano,
infatti, originariamente e spontaneamente, come fenomeni significativi, come
inevitabilmente riferiti alla soggettività e all’intersoggettività (Maturana, 1993). Il
nuovo sguardo scientifico consente, così, di recuperare un’ immagine dell’uomo
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quale presenza attiva e intenzionale del proprio mondo, un’immagine molto più
fedele all’esperienza di quanto lo fossero certe rappresentazioni tramandate dalle
teorie che hanno, per lungo tempo, dominato la scena psicologica (Reed,1989).
Piuttosto che un organismo in balìa delle stimolazioni ambientali o un insieme di
tratti misurabili o ancora un elaboratore d’informazioni, il soggetto umano torna
ad essere un agente responsabile dei significati e dei mondi che contribuisce a
creare (Guidano, 1991). Ciò vale anche per l’uomo-psicologo, finalmente
restituito al reale contesto relazionale e liberato dall’obbligo di quella neutralità
che, nello scambio tra persone, assume il senso di una disposizione innaturale. Il
ricercatore non è più un individuo impegnato soltanto sul versante razionale e
professionale, ma una presenza intera di fronte ad altre presenze (ibidem). Questa
visione restituisce alla conoscenza e alla pratica psicologica la partecipazione in
prima persona che i metodi naturalistici avevano eclissato nell’adeguamento a
procedure standard e nell’esattezza della loro esecuzione. Soprattutto nel campo
della psicologia clinica, dove l’incontro umano è il centro di ogni agire
professionale (Bara, 1996), il costruttivismo può offrire a tale agire un’adeguata
legittimazione scientifica, troppo spesso cercata, con forzature ormai riconosciute
da molti, nelle procedure misurazionistiche ispirate al positivismo (Belardinelli,
1991). L’incertezza, il dubbio, la struttura ipotetica è, nel costruttivismo, il modo
strutturale della conoscenza umana sull’umano (Piaget, 1970).
1.4 La vita come processo cognitivo
Vivere significa conoscere e conoscere significa vivere: è attraverso il
processo cognitivo, che nasce dall’esperienza individuale, che ogni essere vivente
genera il proprio mondo (Guidano,1991). L’esperienza vissuta è il punto di
partenza di ogni conoscenza e l’uomo compie le proprie esperienze attraverso il
proprio corpo, avente struttura determinata. Soggetti diversi rispondono in
maniera diversa ad uno stimolo e la risposta sarà determinata dal modo in cui
l’osservatore è strutturato (Guidano, 1988b). È la struttura dell’osservatore che
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determina come esso si comporterà e non l’informazione ricevuta (ibidem).
L’informazione in sé non ha esistenza o significato se non quello che le attribuisce
il sistema con cui interagisce, perciò non può avere un’esistenza oggettiva e
poiché il principio di oggettività è intrinseco al significato convenzionale del
termine informazione, si conclude che non esiste l’informazione. Tutte quelle
proprietà che si credeva facessero parte delle cose, si rivelano così proprietà
dell’osservatore e la realtà non può essere considerata in senso oggettivo poiché è
il soggetto che ne fa esperienza nel costruirla attraverso il processo cognitivo
(Watzlawick, 1984)
Se ogni soggetto costruisce la propria realtà quale i suoi sensi gli
presentano (soggettivismo) e questa realtà è mutevole nel tempo e nello spazio in
ragione dello stato in cui egli stesso e l’oggetto osservato si trovano (relativismo),
piano ontologico e piano gnoseologico si sovrappongono poiché, dal momento
che ognuno crea il proprio mondo attraverso il processo cognitivo, non esiste più
alcuna vera differenza tra ciò che si conosce e ciò che è (Belardinelli, 1991).
“Tutto ciò che è detto, è detto da qualcuno” (Maturana, Varela, 1985).
Questa affermazione ben riflette i cambiamenti avvenuti nel campo
dell’epistemologia moderna da Popper (1975) in poi. Non esistono fatti nudi,
ovvero al di fuori delle teorie; al contrario, ogni osservazione è ritenuta possibile
solo alla luce di teorie, e nessuna conoscenza è data dall’ambiente, ma è sempre lo
sviluppo di una conoscenza precedente.
Il manifesto del costruttivismo potrebbe cominciare con le parole di
Piaget, quando dice:
“L’intelligenza […] organizza il mondo, organizzandosi essa stessa” (Piaget, 1937).
L’approccio costruttivista tiene quindi in considerazione il punto di vista
di chi osserva ed esamina, e considera il sapere non ricevibile in modo passivo,
ma il risultato delle azioni di un soggetto attivo (Piaget, 1970). La realtà sarebbe
dunque creata dall’uomo e dal suo continuo esperire con essa. Egli la determina
dal modo, dai mezzi e dalla sua disposizione ad osservarla, conoscerla e
comunicarla (Watzlawick, 1984). Si forma nei processi d’interazione ed attraverso
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l’attribuzione di significati dell’esperienza umana. La “costruzione” si poggia su
mappe cognitive che servono agli individui per orientarsi e costruire le proprie
interpretazioni (Bara, 1996). Ogni individuo costruisce una sua mappa di
significati che gli consentono di vivere in quello che ciascuno sperimenta come il
“suo” mondo. L’ambiente in quest’ottica cessa di essere luogo d’informazioni da
dare all’uomo, per divenire luogo d’incontro, sperimentazione, possibilità e
opportunità (Guidano, 1991).
1.5 Il significato e la funzione del costruttivismo
Nella prefazione al suo romanzo The Magus, Fowles (1965) racconta che
ha smesso di sperare di riuscire mai a convincere gli studiosi contemporanei di
finirla di aspettarsi che egli riveli, o che mai possa farlo, il significato del suo
romanzo. Egli asserisce che il romanzo è come il test di Rorschach; esso richiede
che il lettore determini il significato del lavoro da sé: “Il suo significato è quella
qualunque reazione che esso provoca nel lettore e per quanto mi riguarda non c’è
nessuna reazione «giusta»” (ibidem). Questa è una visione che sembra condivisa
da Bruner (1988) che scrive: “Infine, è il lettore che deve scrivere da solo ciò che
intende fare con il testo”. E se tutto il mondo fosse un testo scritto, forse, da un
autore sconosciuto? Che si tratti di finzione letteraria o del mondo naturale, il
“lettore” di esso non è il recipiente passivo di una conoscenza ricevuta ma deve
assumere la posizione di un agente attivo che costruisce ed organizza i significati
a partire dagli incontri di vita (ibidem). Nessuno si avventura nel mondo senza un
proprio testo in mente e così le interpretazioni di ogni persona del mondo naturale
e sociale si basano, in larga parte, su una lettura di quel testo interiore.
Anche se esistono vari modelli costruttivisti, essi hanno tutti in comune
la credenza epistemologica che una realtà totalmente obiettiva, che si distacca dal
soggetto conoscente, non potrà mai essere pienamente conosciuta. Essi rifiutano la
corrispondente teoria della verità, che postula che le nostre rappresentazioni
mentali rispecchiano una realtà oggettiva, “lì fuori”, come veramente è