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Se il discorso sul bene comune, sull’individuazione e sul soddisfacimento di
bisogni individuali (socialmente situati e costruiti, e come tali di natura
pubblica) si va atrofizzando, sembra assolutamente necessario individuare
quelle culture e quelle pratiche, presenti nel Terzo Settore e al di fuori di esso,
che a tale deriva privatistica si oppongono sviluppando modelli originali
d’intervento. La modalità organizzativa dell’impresa sociale, ovvero dell’agire in
campo economico con il fine di curare e di riprodurre i legami sociali
fondamentali, è una risposta alla crisi in sintonia con gli assunti di base di quel
sistema al tramonto.
L’innovazione necessaria nelle modalità relazionali, nel “come” dell’offerta dei
servizi di utilità sociale e nel loro rapporto con la sfera economica, si
accompagna in questo caso alla centralità di un orizzonte che risulta
intrinsecamente politico. L’esperienza dell’imprenditoria sociale ci insegna come
i servizi possano essere ambiti di costruzione della cittadinanza, attraverso la
partecipazione collettiva all’individuazione e al soddisfacimento dei bisogni
sociali.
Su tutte queste premesse, è nata la ricerca qui presentata, intesa come un
viaggio - per certi versi si potrebbe dire etnografico - all’interno di una
particolare esperienza d’impresa sociale.
Lo scopo di questa esplorazione non è stato quello di cercare conferme a
qualche teoria pregressa, ma piuttosto di mostrare la pericolosità dei tentativi di
ridurre le problematiche del Welfare a una banalizzazione di natura
economicistica.
La ricchezza della materia sociale in gioco e delle risposte che la società è in
grado di produrre, attraverso un processo che potremmo definire di “autocura”,
mostrano chiaramente la presenza di significative risorse a disposizione di
politiche pubbliche che siano per una volta coraggiose, e non a ruota di
decisioni prese al di fuori degli ambiti democratici. Queste risorse, le dinamiche
alla base della loro costituzione, i processi di valorizzazione delle differenze e
d’investimento sulle zone di confine saranno indagate nelle prossime pagine.
Sarà esposto il caso concreto del Centro sociale Leoncavallo di Milano, non
perché in qualche modo generalizzabile: al contrario, si tratta di una situazione
molto particolare, unica. Eppure, descrivendo il “come” dell’intervento di questo
attore rispetto al trattamento dei beni e dei problemi già appannaggio del
Welfare State, emergono alcuni tratti, nemmeno troppo sfocati, di un modello di
servizio pubblico non statale. Un’esperienza che non solo mantiene fede alla
scommessa universalistica ed egualitaria del sistema keynesiano, ma anche in
grado di apportare innovazione nei campi laddove questo ha fallito: quello della
partecipazione e delle relazioni, innanzitutto; nonché in quello del rapporto con
la sfera economica e della sua possibile reincorporazione sociale.
Tracce di un modello di servizio nella direzione di un “Welfare civile”: uno
spazio pubblico di discussione e di decisione, che non si esaurisca nello Stato
ma neppure nella scomparsa delle istituzioni di mediazione. In cui non si perda
il nesso vitale tra bisogni e diritti, minacciato dalle retoriche complementari della
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carità e della competitività. Dove l’universalismo e l’apertura alla relazione con
l’“altro” siano, infine, in dialettica con quella “prossimità” produttrice
dell’indispensabile fiducia intersoggettiva, il cui progressivo venir meno ha tanto
contribuito alla crisi di legittimazione dello stesso modello statale.
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La struttura del lavoro è dunque la seguente.
Nel Capitolo primo, verrà ripercorsa, a grandi linee, la letteratura sulla crisi
del Welfare State. Si evidenzieranno le principali – e più comunemente indicate
- cause del fenomeno e l’individuazione pressoché unanime del Terzo Settore
quale protagonista principale degli scenari di Welfare futuri, basati
sull’affermarsi del cosiddetto “mercato sociale”. Un Terzo Settore che risulta
però al suo interno molto variegato e i cui sviluppi possono portare a esiti
radicalmente diversi da quelli ipotizzati.
Sarà messa dunque in luce la prospettiva del “Welfare civile” ed il ruolo di
primo piano assegnato all’impresa sociale come valido riferimento, analitico e
normativo, per una trasformazione che sfugga alla deriva privatistica,
mantenendo lo statuto pubblico dei beni e dei problemi trattati.
Nel Capitolo secondo, sarà analizzata la storia del caso oggetto di studio – il
Leoncavallo – mettendo in luce come, fin dalla sua nascita quale attore di
“movimento” abbia, non senza contraddizioni e temporanee involuzioni,
organizzato le proprie risorse nella direzione dell’elaborazione – intuitiva ed
empirica prima ancora che culturale – di un modello particolare d’intervento
sociale. Un intervento sociale nell’ambito dei servizi d’utilità collettiva,
consolidatosi nel tempo nella direzione dell’impresa sociale, pur mantenendo
una particolare attenzione alla mobilitazione politica.
Come vedremo, il processo di progressiva istituzionalizzazione dell’attore in
questione è sfuggito alle chiusure di una pratica routinaria e di ritualismo
organizzativo.
Nel Capitolo terzo, l’attenzione sarà invece focalizzata sui processi
organizzativi del Centro sociale Leoncavallo, adottando alcuni strumenti
dell’approccio di Karl Weick: il focus sarà sull’organizzare, nel suo significato di
attività interpretativa del mondo volta a costruire un senso socialmente
condiviso della realtà, piuttosto che sull’organizzazione.
La periodica ridefinizione degli assunti di base dell’azione, caratteristica delle
dinamiche del Leoncavallo, sarà un elemento determinante per mettere in luce
il nesso tra le dimensioni individuale, “comunitaria” e sociale, all’interno di un
processo, per molti versi, di institution building.
Nel Capitolo quarto, si andrà a considerare il campo d’intervento del soggetto
analizzato, con particolare attenzione al peso, anche quantitativo, che il Centro
sociale riveste nel settore nonprofit milanese, soprattutto con riferimento ai
modelli di sviluppo locale basati sull’economia sociale.
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Sarà pertanto descritta la sua strutturazione interna, i servizi offerti, i suoi
frequentatori (sui quali è stata realizzata una survey campionaria), mettendo in
luce anche la difficoltà d’incasellare un attore di questo tipo nelle categorie
diffuse all’interno del dibattito sul nonprofit. Si tenterà di far emergere le
potenzialità, sociali ed economiche, di questo attore su scala metropolitana.
Nel Capitolo quinto, infine, sarà analizzato più da vicino il funzionamento dei
servizi d’utilità sociale erogati dal Leoncavallo, nei termini di processi attivati e
di output prodotti.
Con l’ausilio fondamentale del materiale raccolto tramite le interviste,
saranno messe in luce le modalità concrete con cui, nel Centro, sono
quotidianamente trattati i beni e i problemi sociali lasciati in eredità dal Welfare
State. Le macro-dimensioni delle relazioni sociali, della partecipazione,
dell’economia e del lavoro costituiranno il quadro analitico all’interno del quale
situare il ragionamento sui servizi in questione.
Le Conclusioni saranno affidate a poche pagine, trattandosi, in realtà, di
ipotesi riformulate sulla base di dati empirici, piuttosto che sulla dimostrazione
della validità di un qualche modello teorico. Ripercorrendo infatti gli elementi
salienti emersi dall’analisi del Leoncavallo, cercherò di fornire le linee-guida di
un tipo ideale di servizio di pubblica utilità, in grado di proseguire, in forme
rinnovate, la scommessa universalistica ed egualitaria del Welfare State.
Come si vedrà, durante tutto il corso del lavoro, questa ipotesi di servizio,
rafforzata, a mio avviso, dall’analisi condotta sul caso specifico, rivela, fin da
subito e apertamente, il suo carattere politico, di natura intrinsecamente
pubblica.
Pertanto, l’eventuale, ma non remota, affermazione di tale ipotesi di servizio
di pubblica utilità richiederà necessariamente un confronto, e forse uno scontro,
sul campo delle decisioni politiche, nonché su quello, strettamente connesso,
degli orientamenti culturali e simbolici.
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Capitolo primo
Ripensare il Welfare:
una questione pubblica, una questione organizzativa
La crisi del Welfare State
Nell’ultimo decennio, in Italia, come nel resto del mondo occidentale, si è
registrata una vasta convergenza politica, teorica e di opinione pubblica sulla
necessità di riformare in modo sostanziale il Welfare State.
Questa condivisione della problematica sopra esposta, però, entra subito in
crisi quando si passa a considerare quale sia effettivamente il soggetto da
riformare e come ciò debba avvenire. Infatti, già nella precisazione data al
termine Welfare State si registrano importanti differenze nella letteratura del
settore, innanzitutto con riferimento al carattere analitico-descrittivo oppure
teorico-intepretativo delle varie definizioni proposte (La Rosa, 2001).
Se, nel primo caso, il consenso è decisamente più vasto, trattandosi di
inquadramenti per così dire “tecnici”, nel secondo le posizioni appaiono
decisamente più variegate e, non di rado, in contrasto tra loro, comportando
spesso rimandi di natura normativa.
Una volta operata dunque la preliminare distinzione tra Welfare State e
politiche sociali, ovvero tra forma statuale (“Stato del benessere”) e più ampi
interventi di utilità sociale (messi a punto anche da soggetti privati) si possono
selezionare, tra le molte altre, due definizioni analitico-descrittive sulle quali il
dibattito teorico concorda.
La prima è fornita da Maurizio Ferrera (1993): per Welfare State si deve
intendere “quell’insieme di interventi pubblici, connessi al processo di
modernizzazione, che forniscono protezione sotto forma di assistenza,
assicurazione e sicurezza, introducendo specifici diritti sociali nel caso di eventi
prestabiliti e specifici doveri di contribuzione finanziaria”.
La seconda, invece, elaborata da Wilensky (1980), afferma che “il Welfare
State è caratterizzato dal fatto che il governo assicura standard minimi di
reddito, alimentazione, salute, abitazione, educazione a ogni cittadino come
diritto politico e non come carità”.
Spostando l’attenzione sul versante teorico-interpretativo, grande influenza
ha avuto - non solo a livello nazionale - la posizione di Pierpaolo Donati (1985).
Egli innanzitutto precisa che il Welfare State risulta “un assetto societario
complessivo, alla ricerca del massimo di integrazione fra agire economico,
orientato all’accumulazione del sistema per il consumo privato, e agire politico
di democrazia sociale, sotto l’egida di una autorità politico-statuale forte,
legittimata sulla base di tale funzione integrativa”.
Ciò premesso, Donati definisce quindi il Welfare State “come sistema sociale
specifico, che esiste allorché, in una nazione, il sistema politico-amministrativo
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si orienta a garantire alla popolazione dei bisogni sociali fondamentali,
assumendo tale obiettivo come compito specifico dello Stato parlamentare e
riferendolo in modo universalistico al cittadino in quanto tale, quindi
considerando la semplice cittadinanza come fonte di tali diritti sociali, tra i quali,
non ultimo, è quello di una piena partecipazione a tutti i momenti della vita
sociale (obiettivo o natura distributiva universalistica)”.
Un’altra interpretazione è poi quella avanzata da Offe (1982), secondo il
quale “lo Stato assistenziale, come formula di compromesso politico fra le classi
sociali, ha funzionato come la più importante formula di pace sociale delle
democrazie capitalistiche avanzate nel periodo successivo alla Seconda Guerra
Mondiale.
Questa formula consiste fondamentalmente di due punti:
1. L’esplicito obbligo dell’apparato dello Stato verso i cittadini a fornire
assistenza e sostegno a coloro che subiscono danni dagli specifici bisogni e
dai rischi propri di una società dominata dal mercato. Tale assistenza è
giuridicamente garantita ai cittadini che possono perciò pretenderla come
loro diritto.
2. Il riconoscimento formale del ruolo svolto dai sindacati sia nella
contrattazione collettiva, sia nella formazione delle divisioni pubbliche”.
Alla base della nascita del Welfare State, viene individuato, in modo
concorde nella letteratura, il processo di modernizzazione. Processo inteso
come sviluppo di un insieme di fattori, tra i quali, come sottolinea Michele La
Rosa (2001), spiccano per importanza l’ampliamento e l’istituzionalizzazione del
mercato del lavoro, lo sviluppo del sistema internazionale, l’incremento della
popolazione, l’intensificazione dei conflitti distributivi, lo sviluppo della
democrazia di massa, e il più complessivo fenomeno della crescita economica.
Se queste sono le basi riconosciute della genesi del Welfare State, le sue
finalità sono, invece, riconducibili a tre grandi opzioni teoriche. Una liberale e
neo-liberale che considera il Welfare State come forma di perequazione delle
opportunità verso la mobilità; una marxista e neo-marxista come gestione del
conflitto di classe attraverso compromessi e scambio politico; una solidaristica
come espressione a livello politico della solidarietà sociale.
Non mi addentrerò qui nel dibattito complesso e diversificato che si è
sviluppato nei decenni attorno a queste tre macro-opzioni, i cui contenuti
esulano dagli obiettivi principali di questo lavoro. Mi limiterò invece, prima di
considerare la crisi che il Welfare State sta attraversando ormai da diversi anni,
a un riferimento alla sua tripartizione per modelli, come è stata autorevolmente
proposta da Richard Titmuss (1974).
Secondo Titmuss, come evidenzia ancora La Rosa, sulla base della
differenziazione dei criteri ordinatori delle scelte nell’allocazione del benessere
sociale, si possono individuare infatti: a) The Residual Welfare Model of Social
Policy, dove il mercato e la famiglia sono canali naturali attraverso i quali si
soddisfano i bisogni e solo quando falliscono devono intervenire
temporaneamente le istituzioni sociali; b) The Industrial Achievement –
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Performance Model of Social Policy, dove i bisogni sono soddisfatti in base al
merito, alla performance lavorativa, alla produttività, mentre le istituzioni di
benessere costituiscono aggiuntivi all’economia; c) The Institutional
Redistributive Model of Social Policy, dove le istituzioni sociali sono prioritarie
nella società e forniscono servizi universalistici al di fuori del mercato.
I differenti orientamenti di Welfare State a cui si è sopra accennato sono oggi
tutti in difficoltà: da quello “residuale” degli Usa (in cui povertà e marginalità
sono in continua crescita), a quello “totale” dei Paesi scandinavi (in crisi per
ragioni economiche e per la deresponsabilizzazione, indotta a livello sociale
dalla delega eccessiva allo Stato), a quello più articolato e “segmentato” vigente
nel nostro Paese, definito da Maurizio Ferrera (1993) “occupazionale misto”,
data la compresenza di un Sistema Sanitario Nazionale e di un sistema
previdenziale basato sul lavoro.
La crisi del Welfare State sta rimettendo in discussione non solo le modalità
attraverso le quali rispondere ai bisogni sociali, ma la stessa idea di
cittadinanza, così come questa si è andata sviluppando dal Settecento a oggi,
nelle sue tre fondamentali dimensioni: civile, politica e sociale.
Tornerò sul tema in modo approfondito in seguito; per ora, ci soffermeremo
sinteticamente sulle cause principali di questa crisi epocale, così come sono
state messe in luce dal dibattito internazionale.
Sempre seguendo l’analisi di Ferrera, si può dire che, già nella seconda metà
degli anni Settanta, si era aperta in Italia e nel mondo occidentale un’epoca di
crisi nelle politiche pubbliche, legata tanto alle più generali congiunture
economiche mondiali, quanto a profondi mutamenti in atto nella struttura
sociale.
Il difficile passaggio verso un’economia postindustriale si accompagnava a
una messa in discussione dei ruoli tradizionali, a partire dal rapporto tra i sessi
e la configurazione della famiglia. Parimenti, cambiava la struttura demografica,
con il calo delle nascite e il conseguente invecchiamento della popolazione.
Mentre lo Stato-nazione andava perdendo influenza, in seguito allo sviluppo del
“transnazionalismo”, le aspettative diffuse tra la popolazione crescevano,
caricando di domande un sistema statale che cominciava palesemente ad
incrinarsi.
Se concentriamo poi la nostra attenzione sul caso italiano possiamo
distinguere, come fa La Rosa (2001), tra cause endogene e esogene della crisi
del Welfare State.
Tra le cause esogene, effetto di una rottura nelle transazioni tra Stato e
società civile, rientrano:
- la comparsa sulla scena pubblica di “nuovi soggetti” (anziani,
adolescenti...) e il conseguente emergere di nuovi bisogni sociali
differenziati (tossicodipendenza, Aids, ma anche bisogni socio-culturali e
aggregativi);
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- il sovraccarico di domanda rispetto alle possibilità dello Stato (la sempre
più diffusa richiesta di servizi “su misura” da parte dei cittadini);
- il crescente neo-corporativismo societario (che sposta il focus dai
problemi collettivi verso le particolari esigenze di ceto o di gruppo)
- l’eccesso di delega, spesso acritica e segnale di un crollo nella
partecipazione democratica da parte dei cittadini nei confronti del sistema
pubblico.
Tra le cause endogene della crisi, invece, hanno sicuramente pesato:
- il progressivo eccesso di autoreferenzialità del sistema statale;
- la perdita di correlazione tra aumento del prelievo fiscale e miglioramento
della qualità dei servizi;
- le caratteristiche della regolamentazione contrattuale e giuridica del
settore pubblico;
- l’invadenza partitica;
- la carenza di modelli organizzativi adeguati e di capacità consolidate
rispetto alla gestione del sistema nel suo complesso.
Gli ultimi tre fattori, com’è noto, hanno caratterizzato in particolare la
situazione italiana.
La crisi del Welfare State ha dunque origini lontane, legate in parte alla
strutturazione stessa del sistema e, in parte, alle epocali trasformazioni che si
sono prodotte nel mondo occidentale negli ultimi decenni.
Prima di addentrarci maggiormente in alcuni processi inerenti il versante
endogeno della crisi, con particolare riguardo all’ambito dei servizi di utilità
sociale, sarà bene, però, soffermarsi un momento sugli aspetti, per così dire,
ideologici della crisi stessa. Infatti, sulla base della situazione altamente
problematica appena sintetizzata, si è innestata ormai da tempo la perniciosa
retorica neo-liberista, la cui forza di penetrazione, simbolica ed effettiva, si è
velocemente dimostrata enorme.
La complessità della crisi di un modello sociale e politico, che durava da
decenni, è stata così spesso ridotta alla sua banalizzazione di matrice
economicistica.
Si è assistito allora, e tuttora si assiste, a una sorta di competizione “a senso
unico” tra schieramenti politici e culturali un tempo opposti, finalizzata a
spiegare a tutti noi che il nuovo Welfare, ritenuto l’unico possibile, sarà quello
“delle opportunità” e non più quello dei diritti garantiti. Ovvero un sistema in cui
tutti avranno le stesse chances di riuscita, a parità di condizioni di partenza
(parità che peraltro nessuno chiarisce come perseguire).
Sarà però anche un Welfare “caritatevole” mirato ad ‘‘aiutare chi è rimasto
indietro’‘, in un’ottica residuale che elimina completamente il portato di due
secoli di lotte per i diritti di cittadinanza.
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Sarà infine un Welfare efficiente, ma nel senso che dovrà adottare l’ottica
della competitività, facendo proprio l’assunto liberista (ampiamente smentito
dalla storia), secondo il quale il mercato è in grado soddisfare quasi tutti i
bisogni umani, a parte quelli di soggetti appartenenti a categorie residuali e che,
in quanto tali, devono essere destinatari di un’assistenza ai limiti della
beneficenza.
Si tratta dunque di una competizione ideologica e politica che, di fatto,
espelle la questione dei diritti di cittadinanza e della giustizia sociale da un
discorso in cui prevale un ragionamento strumentale costi-benefici. Ciò che non
vi rientra, viene relegato all’ambito della morale individuale, della coscienza e
della volontà del singolo, impegnato ad aiutare chi non sarà più garantito dal
sistema pubblico dato per storicamente superato.
Appare allora evidente che, al di là delle strumentalità e delle ideologie oggi
in campo, la crisi del Welfare State non possa essere letta senza un riferimento
chiaro alle passate premesse del sistema in questione. Queste ultime,
parzialmente tradite già al momento della loro attuazione, rischiano oggi di
essere seppellite dall’ondata del “pensiero unico” di matrice utilitaristica che
relega la questione della cittadinanza universale e dell’eguaglianza sociale nella
soffitta delle utopie fallite del Novecento.
L’importanza di ribadire queste premesse è ora più che mai evidente, dato il
forte rischio che gli obiettivi di giustizia sociale alla base di quel processo di
institution building vengano travolti dalla più generale critica nei confronti dello
Stato in quanto tale.
Prima di considerare alcuni aspetti centrali dell’attuale trasformazione del
Welfare statale in quello che viene spesso definito “mercato sociale”, ritengo di
primaria importanza:
- sottolineare le tematiche alla base della costruzione di quel modello
d’organizzazione della sfera della riproduzione sociale;
- definire a grandi linee i nodi problematici fondamentali che stanno
portando al suo dissolvimento e quindi alla sua progressiva
delegittimazione.
Infatti, anche se il dibattito politico odierno si sviluppa come se la questione
fosse di secondaria importanza, non è inopportuno ricordare le premesse del
Welfare State keynesiano. Esse si collegavano a un orizzonte di sviluppo
inclusivo, basato: sulla promozione dei diritti di cittadinanza universali, a partire
dalla fruizione concreta di servizi; e dal continuo rigenerarsi del discorso
pubblico sulla natura del bene comune e sulle pratiche coerenti con la sua
realizzazione.
Questa componente normativa della scommessa del Welfare va riportata
allora in primo piano. Soprattutto nel momento in cui un’ideologia forte – che
pur nega di esserlo - tende a strutturare il dopo-Welfare secondo princìpi
palesemente opposti a quelli che informavano il modello sociale precedente.
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Il Welfare State tra scommessa universalistica e deriva privatistica
Dal punto di vista politico, la costruzione sociale delle istituzioni di Welfare ha
rappresentato un momento storico di coinvolgimento collettivo e di massa
innanzitutto nella dialettica democratica e civile sulla definizione dei beni
pubblici. Questi processi hanno a lungo alimentato una vita quotidiana della
sfera pubblica a cui, in principio, non era estranea la stessa azione volontaria,
nata non in opposizione ma all’interno dello sviluppo del Welfare State.
La scommessa alla base del Welfare keynesiano era dunque essenzialmente
legata al carattere redistributivo e perequativo che tale sistema avrebbe dovuto
avere. Attraverso l’accesso a un insieme di servizi socio-assistenziali, sanitari
ed educativi, la massa dei cittadini avrebbe potuto tradurre i diritti formali sanciti
dalla Costituzione in diritti sostanziali, vale a dire in forme di cittadinanza attiva.
A fondamento di questo discorso, vi erano. da un lato, gli ideali di progresso
e di emancipazione provenienti direttamente dal secolo dei Lumi; dall’altro, le
ben più prosaiche necessità funzionali di un assetto produttivo fordista che
aveva bisogno di ridurre al minimo la conflittualità operaia, anche a costo di
concessioni rilevanti sul piano della sicurezza sociale e della qualità della vita
delle masse (Guttman, 1998; de Leonardis, 1990; Paci, 1989).
Rispetto infatti ai rapporti tra la sfera economica e quella sociale, l’incontro
tra queste due spinte era all’origine di quell’equilibrio temporaneo tra società e
mercato sostanziatosi appunto nel Welfare State postbellico. In questo senso, si
può dire, in un’ottica polanyiana (Cella, 1997), che tale esito rappresenta, per
molti versi, l’istituzionalizzazione statale della necessità della società di
proteggersi dalla potenziale distruttività dell’economia e, soprattutto, del
mercato.
Lo Stato sociale segna infatti la massima separazione dell’economico,
rappresentato dal mercato e dalla fabbrica, dal sociale, identificato
principalmente nei servizi alla persona. La difesa si può dire che consistesse,
dunque, nell’espulsione dell’economico dalla sfera della riproduzione sociale.
D’altro canto, sarà proprio questa scissione a far sì che la successiva
“vittoria” del mercato, divenuto principio primo di regolazione sociale, si stia oggi
traducendo in un processo di re-embedding all’interno del quale l’economico
tende a inglobare sempre più il sociale, privato degli strumenti istituzionali e
simbolici necessari per la propria difesa.
D’altronde, l’agire tipico del settore nonprofit sembra offrire la possibilità di
una nuova forma d’incorporazione dell’economia nella società, insieme
all’eventualità opposta di una definitiva omologazione della seconda ai princìpi
della prima.
Due elementi fondamentali sono allora individuabili nella genesi del Welfare
State, come nodi attorno ai quali è nata, cresciuta e infine entrata in crisi
un’esperienza collettiva durata decenni. Il primo è quello relativo alla
partecipazione civile, rispetto alla costruzione di una sfera pubblica di natura
universalistica e dall’orizzonte egualitario. Il secondo attiene invece alla natura
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e all’equilibrio relativi ai rapporti tra società ed economia, tra lavoro e
riproduzione sociale.
Il Welfare avrebbe potuto rappresentare, da questo punto di vista, la
quadratura del cerchio, in quanto sistema di istituzioni aperte alla
partecipazione collettiva e, nel contempo, ambito di regolazione dei rapporti tra
economia e società. In questo modo, il discorso sulla sfera pubblica avrebbe
interessato anche il settore produttivo, sul quale la cittadinanza avrebbe avuto
diritto di parola.
Come sappiamo, tuttavia, le cose sono andate ben diversamente, dal
momento che il Welfare ha progressivamente perduto la sua caratteristica di
spazio di discussione sul bene comune e, come conseguenza della crisi fiscale
e di legittimazione, sta ora perdendo la sua capacità regolativa.
Il campo nel quale il fallimento del Welfare si è mostrato in modo più palese è
sicuramente quello organizzativo. Le culture e le pratiche che hanno informato
di sé la vita quotidiana dello Stato sociale hanno infatti ben presto portato allo
scoperto dapprima le contraddizioni tra le premesse partecipative del sistema e
il suo effettivo operare.
Parallelamente, ma con effetti visibili solo a posteriori, le stesse modalità
gestionali hanno contribuito sostanzialmente a produrre quella crisi economica
e fiscale del sistema nel suo complesso che, complice la crescente
delegittimazione sociale, conduce oggi verso un progressivo smantellamento
del Welfare.
Le due aree principali su cui il modello di Welfare statale entra in crisi sono
dunque quella economica e quella politica: il terreno organizzativo, con
particolare riferimento all’ambito relazionale, rappresenta invece il campo su cui
la crisi si manifesta.
Rispetto alla componente più propriamente economica della crisi, non mi
soffermerò qui sulla sua dimensione fiscale, su cui peraltro si è innestata una
propaganda finalizzata alla delegittimazione del Welfare che travalica i problemi
di natura finanziaria. M’interessa, piuttosto, mettere in luce la questione
dell’efficacia e dell’efficienza dei servizi sociali, assistenziali ed educativi erogati
dall’attore pubblico.
Si tratta di servizi messi in crisi anche dalla sostanziale difficoltà dimostrata
nel gestire risorse e pratiche in un’ottica “produttiva” e non, invece, di sotto-
utilizzo, quando non di sperpero, del capitale economico-sociale di cui
disponevano.
Culture e pratiche dei servizi di Welfare hanno trattato il lato economico della
propria azione prevalentemente nell’ottica dei finanziamenti richiesti e ricevuti, e
non invece come risorse da investire, ovvero capitali da far fruttare a fini sociali.
L’economico è stato così ridotto a una questione esterna alla logica del servizio,
un problema di conti da quadrare alla fine di un processo i cui riferimenti erano
sempre extra-economici.
Come si diceva sopra, in termini polanyiani ciò ha significato, anche su scala
societaria, favorire un disembedding dell’economia dalle relazioni sociali. Un
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Welfare nato anche come sistema di protezione della società dalle componenti
distruttrici del mercato espelle gli aspetti economici dalle dinamiche sociali,
trattandoli come variabili esogene di cui tenere conto, ma su cui non intervenire
direttamente.
Efficienza ed efficacia sono considerate criteri non trasferibili nei contesti di
servizi che trattano i bisogni sociali delle persone e non le domande dei
consumatori. In tempi più recenti, sotto la pressione della crisi fiscale e
dell’inefficacia dimostrata dai servizi, questi criteri - con un radicale mutamento
di prospettiva - vengono invece assunti come linee-guida di un Welfare che
deve modellarsi sulle dinamiche tipiche dell’economia e del mercato.
Dalle istituzioni di protezione sociale si passa così a un re-embedding che
vede questa volta l’economico assorbire progressivamente il sociale,
diventando principale metro di giudizio su cui calibrare la realizzazione di
politiche e di interventi di Welfare.
Sul versante organizzativo, si è assistito dunque a un’era di sprechi, di
inefficienze, d’espulsione dell’efficacia dal linguaggio e dalle pratiche correnti
nei servizi. Sempre sul piano organizzativo, si afferma oggi invece con
prepotenza una logica condivisa, che riporta al centro del discorso l’efficacia e
l’efficienza, ma considerate secondo gli stessi parametri adoperati per le
performances di mercato.
L’organizzazione del servizio sociale – con l’intento di superare le rigidità
legate alla burocrazia e alla logica dell’adempimento – mutua termini, gerarchie
e procedure dall’azienda forprofit, gestendo risorse economiche e relazionali in
un’ottica costi-benifici valutati in termini strettamente monetari.
Si assiste, pertanto, a un rovesciamento di prospettiva che punta a
trasformare il burocratico nell’aziendale, ignorando le dimensioni pubblica e
relazionale legate alle culture e alle pratiche in cui il modello organizzativo del
Welfare si concretizzava. Così quel modello, che aveva sancito la separazione
dell’economico dal sociale e intendeva governare la sfera riproduttiva senza
avere rapporti diretti con quella produttiva, si trova ora messo in crisi proprio da
quell’autonomizzazione dall’economia che le sue pratiche avevano favorito.
Il mercato e i suoi princìpi, oggi vincitori, pretendono il monopolio del
discorso anche sul versante sociale, annettendo al proprio dominio semantico
termini come efficacia ed efficienza, la cui valenza extra-economica viene
pertanto ignorata ed espulsa.
Rispetto invece alla dimensione politica della crisi del Welfare statale,
m’interessa sottolineare uno degli elementi centrali che hanno contribuito alla
sua delegittimazione sociale: il rapporto tra la dimensione pubblica e quella
relazionale, a livello ancora una volta organizzativo. Se, infatti, il processo di
institution building relativo al Welfare ha prodotto e alimentato per anni una
sfera pubblica partecipata e viva, il consolidamento e le pratiche quotidiane di
queste istituzioni hanno progressivamente favorito la riduzione del pubblico a
statuale, estromettendo lentamente i cittadini dalla partecipazione a un sistema
che si faceva via via più specialistico e chiuso. L’istituzionalizzazione ha dunque
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coinciso con la creazione di un universo separato, estraneo alle dinamiche
sociali in cui era collocato.
Questa estromissione dei cittadini ha riguardato innanzitutto le relazioni
umane, impoverite dalle modalità di fruizione/erogazione dei servizi, e da
gerarchie la cui natura era strumentale all’erogazione/ottenimento di una
prestazione. Infatti, il contesto tipico del servizio statale spoglia l’utente del suo
bagaglio relazionale e della sua dimensione umana complessiva, immettendolo
in uno spazio asettico, dove gli unici rapporti sono di natura strumentale, legati
allo scopo della fruizione/prestazione del servizio.
Il lato “caldo” dell’interazione viene ignorato come qualcosa di estraneo e
inopportuno in un setting standardizzato e predisposto per trattare i “casi” e non
le persone. Dall’altro lato, quel che resta dei rapporti intersoggettivi, si struttura
su di un asse verticale, dove i detentori del sapere specialistico o delle risorse
materiali o informative necessarie al cittadino sono collocati in una posizione di
potere rispetto alla quale l’utente è all’ultimo gradino della gerarchia.
In questo senso, secondo de Leonardis (1990), si può dire che,
contraddittoriamente, nel Welfare State, si sono annidate culture e pratiche di
matrice privatistica, il cui esito è stato proprio la delegittimazione sociale delle
istituzioni di Welfare e del sistema statale in generale.
Laddove lo statuto pubblico dei beni trattati è stato negato da pratiche di
stampo privatistico - a partire dai contesti organizzativi dei servizi sociali - il
Welfare State ha prodotto contraddizioni evidenti tra la sua finalità
universalistica e quel privatismo considerato tra le principali cause
dell’allontanamento dei cittadini da un sistema pubblico-statuale percepito come
controparte, spesso ostile, e non come luogo di partecipazione civile.
Queste pratiche contraddittorie hanno a che vedere, innanzitutto, con la
qualità delle relazioni caratterizzate dalla rigida separazione tra erogatori e
utenti del servizio tipica delle strutture burocratiche e delle professioni in esse
svolte. La difesa dell’ambito specialistico d’intervento si traduce in una
resistenza a comunicare informazioni e a socializzare conoscenze, sia rispetto
ai fruitori sia agli altri operatori.
Il contesto tipico delle relazioni di servizio è fondato sul principio del setting
specialistico, ovvero uno spazio separato, sottratto all’occhio pubblico dove si
svolge un rapporto duale, sostanzialmente privato e fortemente gerarchizzato,
tra chi fornisce il servizio e l’“assistito”. In questa dimensione privatizzata, la
relazione duale enuclea artificialmente l’assistito dal suo contesto relazionale,
conferendo tutto il potere a chi detiene le risorse materiali e cognitive che danno
forma e sostanza alla relazione. Tipico esempio è il caso del rapporto medico-
paziente.
Questa modalità relazionale, a causa della sua forza normativa legata
all’istituzione sociale in cui viene continuamente reiterata, tende poi a riprodursi
anche al di fuori di quei contesti, dando luogo a un proliferare di relazioni
segmentarie tra individui isolati e avulsi dalla socialità.
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Il Welfare statale, dunque, tratta i cittadini, da un lato, come singoli portatori
di problemi privati che come tali vengono affrontati; dall’altro, li accomuna in
base a un principio classificatorio - le fasce di utenza - che aggrega, ma non
socializza, le loro istanze. Producendo così, di fatto, ulteriori separazioni
orizzontali all’interno dei fruitori dei servizi.
Si sviluppano allora culture della competizione, del particolarismo e della
segmentazione che contribuiscono a delegittimare l’edificio complessivo del
Welfare, incapace di garantire effettivamente la valenza pubblica dei beni e dei
problemi in oggetto, a partire dalla scarsa qualità delle relazioni al suo interno.
I diritti sociali sono quindi considerati come il diritto privato: beni e servizi si
pretendono da individui o da corporazioni, che ne rivendicano il possesso
particolare, ignorando completamente il loro essere pubblici e relazionali.
Indivisibili, appunto, se si vuole conservare il loro valore sociale. Il principio
redistributivo del Welfare, con il corredo di discussione pubblica sui fini comuni,
viene neutralizzato dai conflitti meramente distributivi, nelle dinamiche di
competizione per l’accesso a risorse e a benefici.
Lo stampo organizzativo del Welfare State tende dunque a generare blocchi
comunicativi, separazioni e segmentazioni dei rapporti sociali, isolamento: in
breve, privatismo. Come osserva Jürgen Habermas (1992), queste culture e
queste pratiche “facilitano un ritiro privatistico dalla cittadinanza”, sottraendo le
stesse istituzioni di Welfare allo sguardo e alla parola pubblici e degradandole a
meri strumenti, oltretutto inefficienti, del singolo.
In questo modo, il Welfare tende a smentire la ragione stessa della sua
esistenza, distribuendo beni e servizi nella forma privata invece di produrre beni
pubblici, a partire da quello fondamentale rappresentato dalla socialità e dalla
partecipazione al discorso sull’utilità collettiva.
La risposta che la società ha, nel tempo, elaborato alle contraddizioni del
Welfare è stata duplice. Da un lato, ha sviluppato un ampio consenso -
accresciuto dall’aggravarsi della crisi fiscale – verso il mercato, quale strumento
di regolazione sociale e di allocazione dei servizi più efficiente ed efficace dello
Stato, favorendo, come si è detto, la trasposizione dei criteri economici in
ambito sociale. Dall’altro, è iniziata quell’opera di trasformazione dell’azione
volontaria - nata in seno al Welfare State - in un settore autonomo di intervento
sociale, il settore nonprofit, in competizione spesso con lo Stato e tendente a
recuperare i rapporti con la sfera produttiva.
Questo processo può essere inteso come una riappropriazione della sfera
della riproduzione sociale da parte di attori non statali, alla cui base si colloca
l’esigenza di porre nuovamente al centro del servizio gli aspetti relazionali e
partecipativi, senza tralasciare l’importanza dell’efficienza e dell’efficacia, vale a
dire della produttività (Barbetta, 1996; Donati, 1996).
Ciò che si va tuttavia perdendo in questa risposta della società civile alla crisi
del Welfare è proprio la natura pubblica dei beni e delle relazioni in esso
trattate. Lo sviluppo del mercato sociale e dei suoi attori sta infatti comportando
un reiterarsi delle tendenze privatistiche, poiché raramente i soggetti del
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nonprofit si fanno carico della valenza pubblica delle tematiche affrontate.
L’ibridazione con il mercato vero e proprio e con le logiche del profit sta
ulteriormente mettendo a rischio lo statuto collettivo di questi beni e del discorso
su di essi.
Dunque il Welfare statale ha, per molti versi, contribuito in modo sostanziale
alla propria delegittimazione e allo sviluppo di modelli alternativi rispetto alla
sfera dei servizi sociali in senso lato.
Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo verrà considerata la necessità,
normativa, innanzitutto, ma anche funzionale, di proseguire la scommessa
universalistica del Welfare, anche se in forme più consone ai tempi mutati. Nel
prossimo paragrafo, invece, mi soffermerò ancora su quella particolare “ricetta”
proposta da molti come risolutiva per le tematiche in questione, vale a dire la
soluzione definita del “mercato sociale”.
Efficienza, equità, reciprocità: la “ricetta” del mercato sociale
Nella attuale discussione sul dopo Welfare, si fa sempre più spesso
riferimento al mercato sociale: quel luogo dove operano, in competizione o in
collaborazione tra loro, Stato, mercato e Terzo Settore, e dove si trattano beni e
servizi di natura sociale, in precedenza esclusivo appannaggio del Welfare
State.
Negli ultimi anni, esso è stato presentato nei più svariati ambienti politici,
economici e sindacali come “la ricetta” per uscire dalla crisi del Welfare post-
bellico, senza imboccare la strada della radicale privatizzazione sostenuta dai
fautori più accesi del neo-liberismo e del mercato auto-regolato. In questa
ricetta, sono di norma presentati come determinanti tre ingredienti:
- la rivalutazione delle virtù del mercato, sia nella versione banalizzata
dell’efficienza economicistica sia in quella, culturalmente più radicata,
della riscoperta del “lato buono” del mercato quale moltiplicatore di
relazioni sociali; ambito d’incontro tra modi di fare e di pensare spesso
molto distanti, collegati, gli uni agli altri, dalla mediazione dello scambio;
- la rivalutazione di forme di scambio e di commercio non riconducibili alla
dimensione monetaria, bensì afferenti alla sfera della reciprocità e del
dono: si tratta di forme attinenti all’economia informale e soprattutto al
settore d’intervento degli attori nonprofit;
- l’enfasi posta sulle capacità autorganizzative della società civile, tramite
appunto l’associazionismo e l’economia sociale, in relazione ai limiti della
regolazione statuale.
Il mercato sociale rappresenta dunque un’ipotesi molto concreta di
trasformazione del Welfare statale che, riorganizzando il sociale sulla base di
altri princìpi, apre nel contempo rilevanti interrogativi, il primo dei quali riguarda
proprio le accezioni da dare al termine “sociale”. Esso, infatti, può essere tanto
l’obiettivo dell’azione socio-economica di mercato quanto l’area su cui svariati