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1 FRA CINEMA E LETTERATURA
1.1 Quando il cinema era appena nato: la posizione dei letterati
Prima di addentrarci fra le pieghe del linguaggio cinematografico e delle tecniche narrative
è bene fare un breve excursus sulla storia del mezzo preso in esame.
Durante i primi anni del cinema la platea degli scrittori italiani si spaccò letteralmente a
metà. Molti erano entusiasti del nuovo mezzo espressivo e delle sue potenzialità. Molti altri
vedevano il cinema solo come una sequenza di immagini che ricalcavano le opere scritte,
sottraendo la loro aulicità e senza offrire nulla di nuovo in campo artistico.
Il fatto è che il cinema nasce come intrattenimento popolare. Nasce, per dirla tutta, per
fare soldi. E molti si discostarono da esso prendendo in considerazione solo la parte venale
del tutto. Quindi è chiaro che tanti scrittori pensassero che la trasposizione
cinematografica delle loro opere fosse un sottoprodotto di bassa qualità artistica.
Emblematica la dichiarazione di Verga: dopo aver spedito l’adattamento di Storia di una
capinera a Dina di Sordevolo le dice di non fare il suo nome «perché non voglio
confessarmi autore di simili contraffazioni artistiche».
E ancora, Pirandello mette in bocca al suo personaggio Serafino Gubbio
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parole di
avversione per il nuovo mezzo, prendendo in considerazione la meccanicità su cui si fonda.
In fondo è la macchina che fa funzionare la cinepresa prima e il proiettore poi, «Ma se è un
meccanismo, come può esser vita, come può esser arte?». La sua avversione si intensifica
dopo l’introduzione del sonoro, riguardo al quale si esprime così: «dare meccanicamente la
parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché, invece di creare
una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta
con la voce impressa nel film meccanicamente».
D’altra parte in molti erano entusiasti della la capacità che aveva il cinema: rappresentare
la vita dando spazio al meraviglioso. Nel 1916 scriveva Goffredo Bellonci: «la tecnica
cinematografica consente l’espressione dei più strani mondi fantastici, che la parola e il
pennello non potrebbero significare, o significherebbero in modo incompiuto».
Lo scrittore con il quale il cinema intraprese la collaborazione più stretta fu sicuramente
D’Annunzio. I suoi romanzi e le sue opere teatrali vengono regolarmente portate sullo
schermo, da Il piacere (1917) di Gastone Ravel a La Leda senza cigno (1917) di Giulio
Antamoro. Ma in generale è tutta la sfarzosità e l’ambiguità dannunziana a condizionare
pesantemente il cinema italiano degli anni ’10. In Italia nasce infatti il divismo
cinematografico alimentato dalle trame che vedono infiammarsi i personaggi di incredibili
passioni e di amori per i quali si sacrificherebbe tutto. Anche i costumi e le scenografie
sembrano essere «altrettante figurazioni del prezioso e sovraccarico universo divulgato da
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Pubblicato, con il titolo Si gira…, a puntate, sulla «Nuova Antologia» nel 1915, in seguito in volume nel
1916 e con lievi modifiche nel 1917. Infine, con correzioni formali, nel 1925 con il titolo Quaderni di
Serafino Gubbio operatore.
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D’Annunzio con la propria opera ma anche con l’esempio di vita
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». D’Annunzio poi è
maestro anche nel genere che in quegli anni va per la maggiore: il colossal cinematografico.
Nel 1914 infatti esce quello che ancora oggi è considerato il capolavoro del cinema italiano
di quel periodo, Cabiria di Giovanni Pastore. Un film smisurato sotto ogni punto di vista,
un colossal in piena regola, il cui soggetto e le cui didascalie sono firmate dal poeta.
Il cinema poi fu letteralmente acclamato dai futuristi. Il Primo manifesto per la
cinematografia futurista, pubblicato sul n. 9 dell’Italia Futurista, sottolinea le potenzialità
del cinema in quanto macchina e in quanto nuovo che avanza, capace di essere in accordo
con i nuovi ritmi della vita sociale. Gian Pietro Lucini già nel 1910, nella Solita canzone di
Melibèo aveva sottolineato la capacità del cinematografo di far tramutare la sua natura
riproduttiva in gioco, luce, moto. Un teatro meccanico contro un teatro letterario: «Un
teatro meccanico, dei quadri dissolventi, / Proiettati nel vuoto, fatti rivivere, così, per
giuoco; / Cinematografo, cervello e arte, / Un’arte che si inganna, che riveste d’ogni
preziosità / Questa tua fragile perversità
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».
1.2 Il cinema è una lingua?
Cos’è il linguaggio cinematografico? Da cosa è composto? E soprattutto, è giusto parlare
del cinema come una lingua?
Queste domande animarono un aspro dibattito negli anni sessanta, che ancora oggi rimane
aperto vista l’astrattezza dei temi trattati.
La posizione del semiologo francese Christian Metz è chiara. Nel suo saggio Il cinema:
lingua o linguaggio?
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afferma che il cinema non può essere assimilata ad una lingua
perché manca di unità come i monemi, cioè le più semplici unità linguistiche dotate di
significato. Essendo ogni inquadratura a sé, è impossibile isolare quelle che fungerebbero
da monemi. Inoltre il cinema non possiede i fonemi, cioè particelle che possono essere
combinate fra di loro per formare nuovi monemi. Un esempio semplicissimo: se in italiano
il fonema “cav” può essere per esempio combinato per formare le parole cavallo o caverna,
cioè due parole che hanno due significati diversissimi, nel cinema questo non è possibile.
Un cavallo costituisce un’entità a sé e sarebbe impossibile, anche pensando all’effetto
speciale più strabiliante, prenderne una parte e formare con essa il monema caverna.
Quindi al cinema mancherebbe la doppia articolazione presente in tutte le lingue e cioè
l’insieme di elementi che combinati tra loro danno vita ad infinite combinazioni, quindi ad
infiniti monemi.
2
G. Manzoli, Cinema e letteratura, Carocci, Roma, 2007, pag. 13.
3
G. P. Lucini, L’ora topica di Carlo Dossi, Ceschina, Milano, 1973, pag. 124
4
C. Metz, Il cinema: lingua o linguaggio, in Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1980
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Il semiologo adduce poi altri argomenti alla sua tesi: il primo è che, semplicemente, il
cinema non possiede un dizionario di “parole”, né le regole per organizzarle. Poi il cinema
non ha segni iconici convenzionali che rimandano lo spettatore ad altre cose, le nostre
lettere per intenderci. Ogni cosa nel cinema è un’entità a sé che rappresenta esattamente sé
stessa. Tornando all’esempio dell’inquadratura del cavallo: è un cavallo. E basta. Non è un
segno che rimanda a un altro significato. Infine dunque, e questo è l’ultimo punto di Metz,
il cinema non è un mezzo comunicativo ma espressivo, perché visto che ogni cosa non
rimanda, ma significa, le immagini non possono comunicare ma in quanto tali, in primo
luogo esprimono.
Il primo a confutare le tesi del semiologo fu Pierpaolo Pasolini nel saggio La lingua scritta
della realtà
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. Secondo lui il regista dispone eccome di monemi. Sono le inquadrature, che
egli pesca dalla propria immaginazione e dalla propria memoria. Pasolini quindi ribatte a
Metz dicendo che non è vero che l’unità minima di cui di cui dispone il regista è l’immagine
stessa. Le immagini diventano monemi perché Pasolini introduce un altro elemento
fondamentale, che hanno la funzione dei fonemi nella nostra lingua, cioè i cinèmi.
«Naturalmente i cinèmi sono delle immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti,
o quasi, in realtà. L’immagine nasce dalla coordinazione dei cinèmi.» (Pasolini, 1965 :
191)
I cinèmi sono gli oggetti che compongono l’inquadratura. Qualsiasi oggetto viene ripreso
dalla macchina diventa cinèma che compone il monema “inquadratura”. Pasolini afferma:
«Non posso dire che un inquadratura sia l’unità minima del mio discorso
cinematografico : perché se io escludo o l’uno o l’altro degli oggetti reali
dell’inquadratura, la cambio in quanto significante.» (Pasolini, 1966 : 202)
Quindi la tesi su cui si basa l’opinione di Metz non sarebbe più valida se accettassimo
l’esistenza dei cinèmi, la lingua cinematografica infatti acquisterebbe la doppia
articolazione che secondo il semiologo francese le manca.
Umberto Eco propone addirittura una tripla articolazione formata da segni che hanno un
senso autonomo, figure che sono assimilabili a significanti e cinemorfi, cioè gesti complessi
che si compiono nella successione delle immagini. L’esempio del cavaliere che propone
Giacomo Manzoli nel suo Cinema e letteratura è quanto mai calzante: «lo spettatore
tenderebbe a recepire detta persona come segno (“eroico cavaliere medioevale”, appunto)
sommando una serie di figure, l’armatura, la spada, i capelli biondi, il cavallo bianco, che
isolati dal contesto non significano nulla di preciso (un’armatura è un’armatura e basta)»
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.
Il gesto complesso potrebbe poi essere «l’uccisione del drago da parte del cavaliere»,
sempre citando Manzoli. Il fatto che i cavalieri uccidano i draghi è uno dei più vecchi
stereotipi e questa azione, questo gesto, complesso perché si svolge in più fotogrammi,
riempie di significato la figura del cavaliere.
5
La lingua scritta della realtà, in Pier Paolo Pasolini, Empirismo Eretico, 1972, Milano, Garzanti, 2000.
6
G. Manzoli, opera citata, pagg. 42‐43.
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Il dibattito naturalmente non può avere una chiosa univoca né accettata unilateralmente.
Le argomentazioni, come l’oggetto stesso dell’analisi, sono troppo rarefatte. Inafferrabili.
Comunque il lettore può farsi una propria opinione prendendo in considerazione le diverse
tesi.
La mia personale opinione è che il cinema sia una lingua a parte, che si può conoscere a
vari livelli, e che al livello più alto ha molto in comune con la scrittura. Mi spiego meglio.
Per girare un film, si devono avere delle competenze tecniche specifiche. Si devono
conoscere le luci, i nomi delle inquadrature, i nomi delle porzioni del set, gli effetti, le
dissolvenze, ecc. Questa è una parte importantissima della lingua cinematografica. È la
parte pragmatica, certo, ma assolutamente indispensabile. Però c’è tutta un’altra parte da
scoprire e da utilizzare. È quella poetica, evanescente, quella che Pasolini ha sempre
tentato di esplicare, magari con spiegazioni tutte sue, che infatti non hanno convinto molti
critici. È la lingua dell’arte. Che però è inafferrabile, inspiegabile e soprattutto non si può
insegnare.
È come se io conosco perfettamente la grammatica e tutte le regole di sintassi. Conosco
magari l’etimologia di tutte le parole che uso. Ho studiato la filologia e saprei perfino
scrivere le stesse frasi in altre due lingue diverse. Questo fa di me uno scrittore? La risposta
è un triste e inappellabile: no.
E cos’è che farebbe di me uno scrittore? Il genio, la capacità di raccontare, di descrivere i
sentimenti, di suscitare emozioni. Ma non è una cosa che si può spiegare. Si può affinare
magari, studiando alcune tecniche, con l’esperienza. Forse.
E anche nel cinema c’è quel salto che ti vede passare dalla pura tecnica, al sentimento, e a
mio parere è il salto che è presente in tutti i linguaggi dell’arte.
1.3 Immagini e parole
Se affrontiamo con uno scorcio obliquo le differenze fra immagini e scrittura possiamo
trovare molte affinità fra di loro.
Noi siamo abituati a confrontarci ogni giorno, scrivendo, con un insieme di simboli iconici
che nulla sembrerebbero avere in comune con le immagini. In realtà le cose non stanno
proprio così. Spostandoci verso oriente (in Cina e in Giappone), o indietro nel tempo (il
popolo egizio), incontriamo infatti gli ideogrammi. Già la parola dice tutto. L’ideogramma
è un simbolo, o nel caso degli egiziani: un’immagine, che rimandano ad un significato,
dandone l’idea. Un esempio semplicissimo: il disegno di un cobra nel linguaggio dei
geroglifici sta a significare esattamente la parola cobra. Sono quindi parole che nascono
dalle immagini. D’altronde nella storia dell’uomo prima ci furono le parole come suoni
emessi e poi come cose scritte.
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È chiaro che nel tempo il metodo di scrittura sia cambiato e si sia variegato in molti modi
diversi. Oggi noi non disegniamo un serpentello sul foglio per indicare il significato cobra,
ma mettiamo insieme delle specifiche lettere in uno specifico ordine. Ad un livello di
accezione più alto però si potrebbe dire che noi scrivendo, quindi alla fin fine disegnando
segni iconici, è come se disegnassimo immagini che attivano nel nostro cervello processi
per cui ad ogni immagine, venga associato un significato.
In pratica però vedere un’ immagine e leggere delle parole stampate ci coinvolgono e ci
comunicano in maniera molto differente.
L’immagine ci dà un’informazione immediata, univoca e precisa, che la scrittura non può
offrirci. Un esempio semplicissimo è l’identikit. Il testimone oculare descrive a parole la
faccia di chi ha visto commettere il crimine. A chi lo descrive? A un esperto disegnatore (o
tecnico di computer grafica), che ha il compito di tradurre le parole in immagine.
Pagine e pagine della più affettata descrizione del più talentuoso degli scrittori non sarà
mai equivalente, in termini di precisione, a visionare per pochi attimi la fotografia della
persona descritta. Chiunque si può cimentare nella descrizione quanto mai precisa di
Marilyn Monroe, ma la sua fotografia darà sempre un risultato più preciso e fulmineo. Ciò
non significa che le immagini siano migliori della scrittura. Assolutamente. Sono
semplicemente diverse e ognuna ha i suoi pregi, che anche in questo caso sono di
valutazione soggettiva.
La più evidente differenza è che la scrittura può alludere. Molte volte nemmeno i
protagonisti dei romanzi vengono descritti approfonditamente. Spesso ci si limita a darne
alcuni tratti, a tracciare alcune pennellate, o a soffermarsi su un particolare molto
evidente. È questo il bello: il non sapere. L’immaginarselo come vogliamo noi o se non ne
abbiamo voglia non immaginarselo affatto.
Il cinema invece è, se si può dire, più brutale. Ci mette di fronte il volto della protagonista,
che è quello e quello rimarrà per tutto il film, senza la possibilità di pensarlo diversamente,
o con un diverso colore di capelli. D’altra parte però l’immagine è caricata di un potenziale
sconosciuto alla scrittura, che non ha mezzi per esprimerlo in quel determinato modo.
Una banale, ma efficace, considerazione: nei film i personaggi sono sempre vestiti. È
semplice, ma alquanto significativa. Non è funzionale allo scorrere del racconto scritto
descrivere ogni volta, nel dettaglio, l’abbigliamento. Si può fare una prima volta, o se esso
subisce significative variazioni che riguardano la storia. Nella narrazione filmica ogni abito
diventa storia e il regista deve stare bene attento a sceglierli secondo la caratterizzazione
del personaggio.
L’eccezione che conferma la regola, a mio parere, è l’interpretazione di Marlon Brando in
Apocalypse Now diretto da Francis Ford Coppola nel 1979. In quel film veste i panni del
colonnello Kurtz, un uomo che si sta macchiando dei delitti più atroci nel nome di ideali a
cui crede ciecamente. Brando non ha mai voluto che il suo viso fosse ripreso interamente.
Un gioco di luci ed ombre cela gran parte dei suoi tratti durante i dialoghi. Questa è a mio
parere una chiara descrizione che si avvale delle allusioni, trasportata interamente sul