5
In quest’operazione, Egli non pretese di dire cosa il chassidismo fu storicamente,
ma cosa lui trovava nel chassidismo e quali valori credeva idonei a costituire delle risposte
alla crisi dell’uomo contemporaneo.
Ho fissato lo sguardo sull’espressione ebraica del santificare la vita usata dallo
stesso Buber per sottolineare quella relazione piena con il “Tu” di Dio e il “tu” dell’altro
ma, soprattutto, mi sono soffermata su alcuni aneddoti nei quali emerge tutta la forza del
chassidismo, che in qualità di movimento religioso che basa tutto il suo essere sull’amore,
non poteva che attirare la mia attenzione, in un momento storico in cui la religione sembra
più provocare rancori che amore, più dividere che unire.
Dentro queste coordinate la parola chassidica diventa vivente, creando, per
l’appunto, il linguaggio dell’amore. Tenendo presente questo, nel pensiero del nostro
autore, il volto dell’amore trova nella parola fondamentale “Io-Tu” l’espressione più alta.
Per comprendere al meglio il fascino di questo itinerario è necessario compiere un
ulteriore passo. Non posso non ricordare la monumentale opera di traduzione del testo
biblico che Buber portò avanti insieme all’amico Rosenzweig.
Opera significativa al di là dell’aspetto filologico, come momento di quella
integrazione dello spirito ebraico e della cultura tedesca, di cui egli fu sempre sostenitore.
Buber sentì il bisogno di accostarsi al testo sacro con tutto se stesso; per
comprendere i fondamenti e i criteri della sua traduzione ed esegesi biblica, è necessario
partire da quello che egli stesso riconobbe come il principio fondamentale che lo guidò fin
dall’inizio: la Scrittura è parola.
La parola della Bibbia è soprattutto parola d’amore; non è solo un testo letterario o
il documento scritto di un dialogo passato tra Dio e gli uomini; ma è il dialogo che
continua ogni volta che la Bibbia viene proclamata tra gli uomini; l’uomo che ascolta entra
nel dialogo con Dio: «Chi dice una parola fondamentale entra nella parola e la abita»
1
.
Da buon studioso e conoscitore delle diverse tradizioni religiose orientali, per lui il
paradigma del rapporto religioso resta quello costituito dal dialogo dell’uomo biblico con il
1
M. BUBER, Io e Tu (1923), in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1997
3
, p. 60.
6
suo Dio. Nella Bibbia, egli vede essenzialmente la storia della fede del popolo ebraico, il
dispiegarsi del dialogo tra il popolo eletto e l’Eterno.
Suddividerò il lavoro in 5 capitoli, procedendo per gradi. Dopo un breve sguardo
sui dati biografici (I), tratterò dell’approccio, ma soprattutto, dell’interpretazione che
Buber diede al Chassidismo, dal quale attinse quella straordinaria capacità di “raccontare”
il mondo degli uomini, delle cose e di Dio e di come queste si manifestano nella
quotidianità (II).
Fatto questo, proseguirò nell’esporre come il volto dell’amore possa essere
intravisto e trovi la sua più alta espressione nella parola fondamentale “Io-Tu” (III).
Un ulteriore passo mi vedrà sviluppare il tema della concezione della Bibbia quale
parola d’amore tra l’uomo e Dio, tra Dio e il suo popolo Israele. Mi è parso interessante
evidenziare tre figure bibliche che per il loro carattere emblematico rappresentano dei
momenti essenziali di tale cammino; Abramo quale «benedizione dialogale»
2
, portatore
della parola, intermediario per eccellenza nell’incontro tra Dio e Israele, e più in generale
tra Dio e l’uomo; Geremia che porta a pieno sviluppo la relazione dialogica tra Dio e
l’uomo; Giobbe che pur ribellandosi a Dio esige di dialogare con lui e ascoltare la sua
parola (IV).
Solo a questo punto tratterò dell’uomo “aperto e toccato” dalla parola e la
specificità dell’amore quale mistero personale. Mi soffermerò sull’originalità dell’amore
cristiano delineando, parallelamente, come l’uomo interpellato da Dio abbia una posizione
di notevole privilegio. In questo senso terrò presente come la libertà sia la condizione
fondamentale della persona, la quale implica necessariamente la possibilità di decidersi
responsabilmente (V).
2
M. BUBER, La fede dei profeti, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 91.
7
CAPITOLO I
UNA VITA IN DIALOGO
«La parola è l’abisso
sul quale cammina colui che parla»
3
Premessa
Figura di frontiera
4
, per lunghi decenni solitaria, teorico del chassidismo,
personalità di spicco nel dialogo filosofico e interreligioso, Martin Buber oggi ritrova una
sua non trascurabile collocazione nell’ambito di un panorama mondiale che sempre più
richiede la messa in campo degli strumenti del dialogo per fronteggiare i pericoli di guerra,
di lacerazione, di incomprensione che incombono sull’umanità. Al tema del dialogo
5
,
Buber, ha dedicato la sua vita e l’intera sua opera (spaziando dai testi filosofici e teoretici
al romanzo e ai racconti) può essere letta come una continua ricerca di quella alterità senza
la quale il mondo non è più umano.
3
M. BUBER, La leggenda del Baal-Schem (1908), Gribaudi, Milano 1995, p. 31.
4
Riguardo la bibliografia primaria buberiana rimando al testo P.A SCHILPP, M. FRIEDMAN (edd.), The
Philosophy of Martin Buber, Open Court, La Salle (Illinois) 1967, pp. 747-786. Per le principali monografie
sintetiche ed essenziali dedicate e Buber si vedano: M. A. BEEK - J. SPERNA WEILAND, Martin Buber,
Queriniana, Brescia 1972; G. BON, La filosofia dialogale di Martin Buber, Rosini, Firenze 1998; P. VERMES,
Martin Buber, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1990; A. POMA, La filosofia dialogica di Martin Buber,
Rosenberg & Sellier, Torino 1974; Un ulteriore approccio alla bibliografia secondaria è offerto da G.
FORNERO, Buber: la filosofia relazionale e dialogica, in Storia della Filosofia, vol. IV, t. II, UTET, Torino
1994, pp. 44-49.
5
L’opera buberiana è ampiamente tradotta in italiano. Per un approfondimento della sua filosofia dialogica
rimando ai seguenti saggi: Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997
3
comprendente gli scritti dialogici: Io e tu (1923); Sull’educativo (1926); Dialogo (1930); La domanda rivolta
al singolo (1936); Distanza originaria e relazione (1950); Elementi dell’interumano (1954); e la Postfazione:
per la storia del principio dialogico (1954); Inerenti alla propria vicenda biografica ed esistenziale cito i
seguenti testi: M. BUBER, Incontro. Frammenti autobiografici (1960), Città Nuova, Roma 1994: opera in cui
l’autore non si racconta seguendo il filo della narrazione come se la vita fosse una vicenda da registrare. Gli
schizzi che Buber dà di sé, della sua vita familiare e intellettuale, non sono tranches de vie realistici, ma
nuclei meditativi problematici che contengono la vita ripresa nel pensiero. M. BUBER, La modernità della
parola. Lettere scelte (1918-1938), La Giuntina, Firenze 2000.
8
1. L’amore per la parola
Martin Buber nacque a Vienna l’8 Febbraio 1878. Per ragioni tuttora sconosciute, il
matrimonio tra i suoi genitori fallì ben presto e all’età di tre anni il piccolo Buber fu
affidato ai nonni paterni con i quali trascorse l’infanzia a Lemberg (Leopoli), in Galizia.
Salomon e Adele Buber, genitori di Karl, padre di Martin, lo fecero entrare in
contatto con un ambiente di raffinata cultura ebraica in quanto il nonno, facoltoso uomo
d’affari, era anche uno studioso della tradizione ebraica; ancora più importante, come
confessa lo stesso Buber, fu l’influenza della nonna, donna intelligente e colta, che infuse
in lui «l’amore per la parola»
6
.
Il dramma seguito al giorno in cui sua madre se ne andò definitivamente da casa,
produsse in lui un profondissimo senso di perdita, aggravato dal silenzio degli adulti. Il
piccolo Martin visse con grave sofferenza questo periodo di allontanamento della madre,
anche se coltivava con pazienza la speranza segreta del suo ritorno
7
; in sua presenza il
nome di quest’ultima non venne mai menzionato dai nonni ed egli si astenne dal fare loro
delle domande in proposito.
Egli ricordò nella sua vecchiaia un episodio significativo al riguardo, quando,
stabilitosi in Galizia con i nonni, era accudito da una bambinaia:
«...Mi pare ancora di sentire quella ragazza dirmi: No, lei non tornerà più. So
che rimasi in silenzio, ammutolito. Ricordo che non ebbi alcun dubbio sulla verità
di quelle parole. Hanno lasciato un’impronta che anno dopo anno si è sedimentata
nel mio cuore. Dopo più di dieci anni cominciai a percepirla come una realtà che
non riguardava soltanto me ma ciascun essere umano. Coniai più tardi la parola
‘disincontro’ (Vergegnung)
8
per intendere il fallimento dell’incontro reale tra le
persone. Quando, vent’anni dopo, rividi mia madre venuta da lontano a visitare me,
mia moglie e mia figlia, non potei guadare i suoi occhi, ancora incredibilmente
belli, senza sentir giungere da qualche parte la parola Vergegnung come una parola
rivolta proprio a me. Credo che quanto compresi successivamente nel corso della
mia vita sull’incontro autentico abbia la sua genesi proprio in quell’ora, lassù sul
balcone…»
9
.
6
M. BUBER, Incontro…, op. cit., p. 5.
7
Ibid.
8
Vergegnung è un neologismo dell’Autore che assume il significato in contrapposizione a Begegnung
(Incontro).
9
M. BUBER, Incontro…, op. cit., p. 36.
9
Il dolore di quell’evento (e di quel periodo) si impresse indelebilmente nel piccolo
Martin e, attraverso successive elaborazioni, lo portò ad individuare in quei fatti non solo
un significato personale ma un insegnamento vero, valido universalmente.
Tuttavia, la realtà vissuta negativamente da Buber nell’infanzia non gli impedì di
costruire “l’elogio del dialogo autentico” anche perché la sua condizione, segnata
crudelmente dal ‘disincontro’ era pur sempre caratterizzata dalla presenza di adulti
premurosi e significativi.
Fino all’età di dieci anni, Martin fu istruito in casa e indirizzato precocemente alla
conoscenza delle lingue straniere, poiché, secondo la nonna, «la via regia dell’educazione
era un umanesimo fondato sulla conoscenza delle lingue»
10
.
A tal proposito Buber scrisse che:
«…La molteplicità dei linguaggi umani, la loro meravigliosa diversità, che
come un prisma scompone e al contempo preserva la luce bianca della lingua
umana universale, era già ai tempi della mia fanciullezza un problema che tanto mi
istruiva…»
11
.
Il nonno era un uomo facoltoso e dotto, banchiere, proprietario di una miniera di
fosforo, consigliere della camera di commercio e commerciante di grano; inoltre era il capo
della comunità ebraica di Leopoli, studioso di fama e profondo conoscitore della lingua
ebraica oltre che scrupoloso curatore di opere rabbiniche: «era un autentico filologo, un
amante della parola»
12
.
In ogni caso è sua nonna, ad apparire al centro di un frammento autobiografico.
Colta e molto esperta negli affari – assunse molte delle responsabilità di suo marito per
lasciarlo libero di studiare e scrivere – ella ebbe un duraturo influsso sul nipote,
impregnandolo della propria passione per la letteratura tedesca e per la parola parlata e
scritta. Quando sua nonna parlava con le persone, “parlava effettivamente” con loro.
Ella gli insegnò l’uso accurato delle parole cosicché non vi era bisogno di alcuna
parafrasi, perciò quando egli la lasciò aveva realmente appreso «cosa significa dire
10
M. BUBER, Incontro..., op. cit., p. 39.
11
Ibid.
12
Ibid., p. 38.
10
qualcosa»
13
. Ricordò Buber: «l’amore di mia nonna per la parola pura mi influenzò ancor
più fortemente che quello del nonno: poiché questo amore era così immediato e così
devoto»
14
.
Essendosi il padre risposato, a quattordici anni Martin andò a vivere con lui,
ricevendone un’impronta durevole.
Non eccelleva se non per essere un buon agricoltore. Certamente non uno studioso
– una volta osservò che la sua importanza consisteva nell’essere figlio di suo padre e padre
di suo figlio – Karl fu un uomo gentile e leale che si occupava dell’efficacia dei
fertilizzanti e della produzione di buoni raccolti, e impressionò Martin per il rispetto con
cui si avvicinava alle persone e persino agli animali e partecipava ai loro bisogni e alle loro
preoccupazioni:
«Il suo dialogo con la natura era profondamente umano, attivo e responsabile, il suo
amore per gli altri non era ordinario ma personale, una apertura attiva e responsabile,
capace di condurre alla piena reciprocità. Sapeva raccontare con semplicità, e ogni volta
che la conversazione lo sollecitava parlava delle persone che aveva conosciuto, ma ciò che
descriveva era sempre il puro evento senza infiorettature secondarie, nient’altro che
l’esistenza di creature umane e ciò che accadeva fra loro»
15
.
Attraverso il padre, inoltre, Martin conobbe uno zaddiq, ossia il capo di una
comunità chassidica, in una città chiamata Sadgora nella provincia della Buchovina, vicina
a una località in cui suo padre possedeva la terra; questo incontro fu per lui determinante e
lo impressionò profondamente per la autorevolezza nelle parole e nel comportamento.
Intorno ai quattordici anni il giovane e sensibile Martin iniziò ad indagare sullo
spazio e sul tempo, sulla loro finitudine o infinitudine; questi problemi gli procurarono
molta inquietudine fino a che lesse, a quindici anni, i Prolegomeni ad ogni metafisica
futura che vorrà presentarsi come scienza, di Kant e, due anni più tardi, Così parlò
Zarathustra di Nietzsche, che lo affascinò
16
.
13
Ibid.
14
Ibid.
15
M. BUBER, Incontro…, op. cit., p. 42.
16
Cfr. Ibid., pp. 50–52.