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ξ Il deterioramento del tessuto istituzionale e la bassa reazione da parte della
società civile locale.
Anche se la nascita della Sacra Corona Unita (SCU) si può collocare a metà degli anni
Ottanta, il territorio pugliese era già da tempo frequentato da numerosi esponenti dei
sodalizi mafiosi provenienti dalle altre regioni vicine. In particolare, erano presenti
individui legati alla Camorra e alla ‘Ndrangheta a seguito delle disposizioni previste
dall’istituto del soggiorno obbligato, che aveva anche portato alla creazione di una sorta
di colonia di siciliani affiliati alle principali famiglie di Cosa Nostra.
Nelle carceri pugliesi, in quegli anni, erano presenti numerosi detenuti provenienti dalle
regioni di origine delle cosiddette mafie tradizionali. Ad esempio, i detenuti
appartenenti alla NCO di Cutolo erano stati inviati in istituti di pena lontani dalle aree di
origine per evitare che in carcere si riproducessero le contrapposizioni che avevano
causato, alla fine degli anni Settanta, una violenta guerra con lo schieramento rivale: la
Nuova Famiglia.
Inoltre la Puglia si trovava in un’area strategica per lo sviluppo di alcuni traffici illeciti,
quali il contrabbando di tabacchi che, a seguito della chiusura del porto franco di
Tangeri(1959-1960), si era spostato lungo la via adriatica.
Altro fattore determinante, l’assenza di gruppi criminali autoctoni sul territorio, che
rendeva la Puglia un luogo di naturale sconfinamento per le altre organizzazioni
criminali mafiose, che si trovavano quindi ad avere a disposizione un mercato criminale
sostanzialmente libero da una concorrenza locale. Per diversi anni i rapporti con la
delinquenza pugliese furono di natura utilitaristica, senza che si verificassero episodi di
assimilazione dei piccoli gruppi locali o di creazione di realtà criminali autonome.
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Verso la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la situazione cominciò a
cambiare. La presenza camorrista negli istituti di pena e negli ambienti delinquenziali,
iniziò a far sentire in maniera sempre maggiore la propria influenza, attraverso
un’azione di proselitismo volta a far entrare nelle fila della Nuova Camorra Organizzata
un gran numero di giovani affiliati locali. Tale iniziativa però, suscitò il malcontento di
molti che percepivano sempre più l’invadenza dei cutoliani negli affari locali. Fu così
che nacque la Sacra Corona Unita, proprio con l’obiettivo di arginare il proselitismo
nelle carceri da parte della NCO e di proteggere il territorio pugliese dall’invadenza e
dall’infiltrazione delle altre organizzazioni mafiose.
Fin dall’inizio, la nuova organizzazione si presenta come un organo che mira a tenere
insieme le diverse anime della criminalità regionale ma il progetto naufraga in poco
tempo. La struttura centralizzata voluta dal suo fondatore, Giuseppe Rogoli, non regge
all’elevata conflittualità esistente tra i vari clan criminali e viene quindi sostituita da
un’organizzazione più fluida, frammentata e caratterizzata da una grande segmentazione
territoriale con la rifondazione del sodalizio: la Nuova Sacra Corona Unita (1983).
Negli anni successivi, si assiste alla nascita di moltissime associazioni criminali che si
fondono e si scompongono in continuazione. Nel 1984, ad esempio, viene ritrovato lo
statuto di fondazione di una consorteria denominata Famiglia Salentina Libera che si
proponeva di respingere ogni tipo di intervento da parte della SCU nel Salento e di
riaffermare la completa autonomia dei leccesi sul territorio. Nel 1986, nasce la Nuova
Famiglia Salentina che aveva come obiettivo una convivenza pacifica con la SCU,
basata sulla spartizione del territorio. Nel 1987, anche nella provincia di Bari, si assiste
alla nascita di una nuova associazione, La Rosa, guidata da Oronzo Romano a cui si
aggiungono altri gruppi criminali come quello guidato da Savino Parisi, nel quartiere
barese di Japigia, e quello di Salvatore Annacondia, legato a Cosa Nostra. In ultimo
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bisogna ricordare la Rosa dei Venti nata nel 1990 per scissione dalla SCU, su iniziativa
di due detenuti.
La Sacra Corona Unita però è rimasta l’associazione criminale più agguerrita e temibile,
in grado di esercitare un controllo capillare sul territorio tanto da far rientrare la Puglia
tra le aree mafiose considerate dalla Commissione Parlamentare Antimafia come
“regioni di insediamento tradizionale” insieme alla Sicilia, alla Calabria e alla
Campania.
Pur cercando di rivestirsi, da un punto di vista simbolico, di un’identità ispirata alla
cultura mafiosa tradizionale, mutuando dalla ‘Ndrangheta anche formule e rituali di
affiliazione, la SCU nelle dinamiche di comportamento ha rivelato uno spessore ben
diverso, come dimostra l’estrema eterogeneità socio-culturale dei suoi affiliati, la loro
scarsa attitudine alla segretezza, la bassa tenuta del vincolo associativo, la vocazione
prevalentemente utilitaristica del sodalizio, la tendenza all’ostentazione piuttosto che
alla dissimulazione e alla riservatezza e l’uso talvolta eccessivo della violenza.
Tutti questi fattori sono stati anche all’origine di un sentimento di disillusione da parte
di molti affiliati che hanno in seguito deciso di collaborare con le autorità. Infatti, già
all’indomani della storica sentenza del 1991 con cui venne riconosciuta la “mafiosità”
dell’organizzazione pugliese, cominciarono le prime collaborazioni con la giustizia che,
insieme alla forte offensiva giudiziaria iniziata negli anni Novanta, hanno
ridimensionato notevolmente la portata criminale della SCU.
Ma proprio le caratteristiche principali del sodalizio pugliese, in particolare la fluidità
delle sue strutture interne, la forte versatilità dei suoi interessi e la crescente vocazione
imprenditoriale, hanno fatto sì che essa continuasse ad avere contatti e rapporti di
collaborazione con organizzazioni criminali anche molto diverse tra loro.
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Nella seconda metà degli anni Novanta, infatti, il territorio pugliese è tornato ad essere
luogo di interessi criminali esterni alla regione, in particolare stranieri. La Puglia
rappresenta ancora oggi un territorio strategico per alcuni traffici, in particolare di
sostanze stupefacenti e di esseri umani, soprattutto da e verso l’Albania. Sembra che la
regione sia diventata un importante crocevia per l’approvvigionamento di droghe, anche
da parte delle altre mafie tradizionali, e che le organizzazioni pugliesi facciano da
intermediarie fra queste e gruppi criminali albanesi e di origine balcanica.
La tesi è quindi articolata, come accennavo all’inizio, in due parti distinte che si
compongono di due capitoli ciascuna. Nel primo capitolo ho affrontato il problema di
definire cosa si intenda per mafia. La questione è stata dibattuta, nel corso degli anni, da
molti studiosi che hanno prodotto varie interpretazioni del fenomeno mafioso,
contribuendo ad arricchire il bagaglio di conoscenze e gli strumenti grazie ai quali si
cerca di analizzare un fenomeno così complesso, pur nell’assenza di definizioni chiare e
condivise. Esistono due grandi correnti di definizioni e interpretazioni della mafia: una,
chiamata culturalista, focalizza l’attenzione sull’aspetto culturale del fenomeno e
interpreta la mafia come una subcultura, l’altra, quella organizzativa, la interpreta come
un fenomeno organizzativo, assimilandola ad un fenomeno molto più vasto, quello della
criminalità organizzata.
Per illustrare tale definizione verranno presentati alcuni studi significativi. In primo
luogo, faremo riferimento a Gaetano Mosca, il quale distingueva tra uno “spirito di
mafia” e una mafia intesa come un insieme di organizzazioni criminali, rifacendosi, in
maniera abbastanza evidente, alla corrente culturalista, di cui furono sostenitori anche
altri studiosi, tra cui il sociologo tedesco Hess e l’olandese Blok.
Contributo fondamentale è stato, senza alcun dubbio, quello di un altro studioso
straniero, Alan Block, il quale ha introdotto una distinzione molto importante,
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soprattutto per quanto riguarda l’analisi del fenomeno, quella tra power syndicate e
interprise syndicate, utilizzata, in seguito, anche da altri studiosi come, ad esempio,
Catanzaro. Si tratta di distinguere tra due tipi di organizzazione: una ha come obiettivo
principale il controllo del territorio, l’altra lo scopo di coordinare i traffici illeciti. Anche
se queste due sfere di interesse sono concettualmente distinguibili, nella realtà si
trovano spesso in un rapporto di reciproca funzionalità, oltre ad essere quasi sempre
intrecciate e sovrapposte tra loro. La distinzione di Block, però, permette di tenere conto
delle ambivalenze organizzative che spesso le organizzazioni mafiose presentano
(Sciarrone, 1998).
L’altra corrente, invece, quella organizzativa, nel nostro Paese è stata sviluppata da Pino
Arlacchi che, partendo dall’analogia tra mafia e impresa, ha identificato le
caratteristiche principali dell’impresa mafiosa, riprendendo anche i concetti di impresa e
imprenditorialità di Schumpeter, e arrivando ad affermare che l’impresa mafiosa
differisce dalle altre principalmente per i metodi utilizzati, in particolare per il ricorso
alla violenza e all’intimidazione (Arlacchi, 1983).
Diego Gambetta, invece, definisce la mafia come “un’industria della protezione privata”
ritenendo che la violenza sia solo un mezzo, e non il fine, di questo particolare tipo di
impresa, la cui risorsa principale è appunto la fornitura di protezione, da essa prodotta e
venduta (Santino, 2006).
L’ultimo contributo da me presentato è quello di Rocco Sciarrone, il quale dà una
definizione articolata del fenomeno mafioso, intendendolo come un fenomeno
multidimensionale. Un aspetto ulteriormente interessante del suo lavoro è l’analisi dei
fenomeni di propagazione della mafia in territori diversi da quelli d’origine come, ad
esempio, la Puglia, di cui mi sono occupata, e il Piemonte, oltre all’individuazione di
uno schema analitico con cui distinguere categorie ideal-tipiche di imprenditori, definite
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in base al comportamento imprenditoriale in ambienti caratterizzati da presenza mafiosa
e in base alle specifiche modalità di interazione con i mafiosi.
Il primo capitolo si conclude poi con la presentazione dello sviluppo che la legislazione
antimafia ha avuto nel nostro Paese.
Nel secondo capitolo ho tracciato il percorso storico che ha portato alla formazione
dalle Sacra Corona Unita in Puglia, partendo dalla nascita e dalla diffusione del
fenomeno mafioso nella regione ad opera della NCO di Cutolo, fino ad arrivare alle
molteplici e successive divisioni interne che hanno portato l’organizzazione ad avere la
tipica struttura frammentaria, che ancora oggi la caratterizza, e affrontando anche le
tematiche riguardanti l’inizio dell’azione giudiziaria nei confronti dell’associazione. Ho
poi presentato la sua organizzazione interna, preoccupandomi di evidenziare come essa
abbia precise regole e rituali, mutuati dalle tradizioni delle altre mafie presenti sul
territorio nazionale, che regolano, non solo l’entrata e l’uscita dal sodalizio, ma anche il
comportamento che ogni affiliato è tenuto ad avere in virtù della “dote” ricoperta da
ciascuno.
La seconda parte del mio lavoro, quella più propriamente di ricerca, costituita da
documenti reperiti grazie anche all’aiuto di due magistrati, appartenenti l’uno alla DDA
di Bari e l’altro alla DDA di Lecce, che ho intervistato durante un mio soggiorno in
Puglia, si apre con il terzo capitolo, interamente dedicato ad un clan che ha la propria
base operativa in un quartiere della città di Bari, il rione Japigia, ma che opera
sull’intero territorio provinciale: il clan Parisi. La realizzazione di questo capitolo si
basa interamente sull’analisi del Procedimento penale nr. 12406/96-21 prodotto dalla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari, Direzione Distrettuale Antimafia,
frutto dell’indagine condotta dal Sostituto Procuratore, Dr. Giuseppe Scelsi, che ho
anche avuto modo di incontrare.
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Grazie alle informazioni da lui fornitemi e alla documentazione giudiziale di cui
disponevo, ho cercato di tracciare un quadro che rappresentasse le caratteristiche
organizzative e strutturali del clan Parisi, occupandomi della sua organizzazione
gerarchica, del sistema assistenziale riservato ad ogni affiliato, dell’esercizio del potere
mafioso messo in atto dai suoi principali esponenti, del sistema di comunicazione
utilizzato dagli associati per comunicare tra loro e con chi è detenuto nel carcere della
città, dell’area territoriale di influenza del clan ed, infine, dei mezzi finanziari grazie ai
quali il sodalizio riesce a mantenere il controllo dell’intera provincia barese.
Nel quarto ed ultimo capitolo, infine, ho parlato della criminalità organizzata di stampo
mafioso presente nel Salento, dato le sue diverse caratteristiche che la differenziano da
quella operante sul resto del territorio pugliese. La realizzazione di questo capitolo è
stata possibile solo grazie al prezioso aiuto fornitomi dal Procuratore Aggiunto della
Procura della Repubblica, Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, il Dr. Cataldo
Motta che, oltre ad avermi rilasciato una lunga intervista, mi ha anche consegnato le
Relazioni relative all’attività della DDA di Lecce, riguardanti il periodo che va dal 1°
luglio 1998 al 30 giugno 2007, ricoprendo, quindi, quasi dieci anni di indagini da lui
condotte e una lezione, da lui tenuta nell’ottobre del 2007, alla scuola Allievi Ufficiali
dei Carabinieri di Palermo sulla Sacra Corona Unita e sui suoi rapporti con la
criminalità dei Paesi dell’Est. Ho così potuto tracciare una breve storia relativa allo
sviluppo della SCU su questo territorio, evidenziando le differenze esistenti sia con le
organizzazioni operanti sul resto del territorio regionale, sia quelle esistenti al suo
interno e che hanno portato allo sviluppo di realtà criminali differenti tra una provincia
e l’altra. Il capitolo si chiude con un paragrafo relativo ai rapporti che l’organizzazione
salentina ha instaurato, negli ultimi anni, con le organizzazioni criminali dei Paesi
dell’Est e che destano nuove preoccupazioni tra gli addetti ai lavori.
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CAP I: Che cos’è la mafia? Tentativi di
definizione
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Se cercassimo la definizione di mafia sul vocabolario troveremmo scritto che è:
“Un’organizzazione criminosa, sorta in Sicilia nella prima metà del sec. XIX, con la
pretesa di sostituirsi ai pubblici poteri nell’attuazione di una forma primitiva di
giustizia, che si regge sulla legge della segretezza e dell’omertà e che ricorre a
intimidazioni, estorsioni, sequestri di persona e omicidi allo scopo di proteggere
interessi economici privati o di procurarsi guadagni illeciti; e/o Gruppo, categoria di
persone unite per conseguire o conservare con ogni mezzo lecito e illecito, i propri
interessi particolari, anche a danno di quelli pubblici.”(Il nuovo Zingarelli, Ed.
Zanichelli,1992).
L. Violante in Non è la piovra del 1994 la definisce così:
“La mafia non è una piovra, né un cancro. Non è né misteriosa né invincibile. Per
combatterla efficacemente e per vincerla occorrono analisi razionali. E’ fatta di uomini,
danaro, armi, relazioni politiche e relazioni finanziarie. E’ costituita essenzialmente da
tre grandi organizzazioni criminali, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, e da
un’organizzazione minore, la Sacra Corona Unita, che è radicata in Puglia. Queste
organizzazioni hanno in comune il controllo del territorio, i rapporti con la politica e
l’internazionalizzazione.” (Violante, 1994, p. 3). Tale definizione mi sembra più
completa ed esaustiva della precedente perché contiene al proprio interno tutti gli
elementi che caratterizzano le organizzazioni di stampo mafioso. La mafia e le
organizzazioni di tipo mafioso in generale, non sono malattie incurabili della società,
ma organizzazioni imprenditorial-criminali il cui scopo è il controllo del territorio al
fine di conoscerne in profondità le attività che vi si svolgono per poi poter attuare
estorsioni, appropriarsi di nuove fette di mercato, conoscere in anticipo eventuali nuovi
avversari e potersi tutelare da improvvisi interventi delle forze dell’ordine. Tale
definizione ha anche al proprio interno la risoluzione del fenomeno: infatti la mafia non
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è né una bestia invincibile, né una malattia incurabile, può allora essere sconfitta.
Bisogna quindi smantellare le organizzazioni, arrestare gli uomini, sequestrare i beni
frutto delle attività illecite e neutralizzare le alleanze.
Ma che cos’è dunque la mafia? Come può essere meglio definita? È un’organizzazione
criminale o una mentalità, una società segreta o semplicemente uno stato d’animo?
Esiste veramente la mafia o esistono solo i mafiosi? Che rapporto c’è tra mafia e
società, tra mafia e istituzioni? E’ una patologia della società o un fenomeno strutturale
legato al contesto sociale nel quale nasce e si sviluppa?
A queste e a molte altre domande hanno tentato di dare risposta numerosi sociologi e
scienziati politici, non arrivando però a formulare definizioni chiare e condivise, ma
ricalcando spesso idee diffuse, luoghi comuni e stereotipi dominanti. Ad esempio uno
stereotipo che alcuni studiosi hanno contribuito a diffondere e ad avvalorare è quello
secondo il quale esisterebbe una mafia “tradizionale” ed una “moderna”, facendo
distinzione tra gli antichi uomini d’onore e i contemporanei imprenditori criminali senza
scrupoli e senza onore (Santino, 2006, p. 11). Tale idea ricalca un diffuso luogo comune
che vorrebbe la distinzione tra una mafia buona in un passato non ben collocato, ed una
mafia contemporanea cattiva, interessata solo alla ricchezza, che avrebbe preso il posto
della prima trasformandosi in semplice delinquenza e perdendo quei tratti distintivi di
rispetto e onore tipici della tradizione mafiosa.
In generale, si potrebbero distinguere due grandi correnti di definizioni e interpretazioni
sulla mafia: una focalizza l’attenzione sull’aspetto culturale del fenomeno, l’altra invece
lo presenta come un fenomeno organizzativo. La prima corrente interpretativa, che è
stata definita culturalista, tende a considerare la mafia una cultura, o una subcultura,
tipica dei contesti sociali in cui è nata e si è sviluppata.
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La seconda, che è stata definita organizzativa, tende invece ad assimilare il fenomeno
mafioso ad un fenomeno molto più vasto ed estremamente eterogeneo, quello della
criminalità organizzata (Sciarrone, 1998)
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1.1 Interpretazioni teoriche
Agli inizi del Novecento, Gaetano Mosca distingueva tra uno “spirito di mafia” e una
mafia intesa come un insieme di associazioni criminali: due fenomeni sociali distinti ma
collegati tra loro. Lo spirito di mafia “è una maniera di sentire che, come la superbia,
come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un
dato ordine di rapporti sociali”, e ancora: ”consiste nel reputare segno di debolezza
ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia e alla magistratura, per la riparazione dei
torti o piuttosto di certi torti ricevuti”(Sciarrone, 1998, p. 4).
Esempio ancora più lampante di interpretazione di tipo culturalista è rappresentato dal
lavoro del sociologo tedesco Hess che, nel 1970, sosteneva che la “mafiosità” fosse una
sorta di forma mentis diffusa in tutto il sistema subculturale siciliano. Una forma di
comportamento quindi, derivato “da una straordinaria debolezza degli organi del potere
ufficiale, dalla diffidenza, anzi dall’ostilità della popolazione verso gli organi statali”(La
Spina, 2005, p. 18), comportamento caratterizzato anche da una duplice morale che
vede in maniera positiva i legami personali, soprattutto familiari, mentre in maniera
distaccata e formale le istituzioni statali.
Secondo Hess dunque, era sbagliato parlare di mafia come di un’organizzazione
unitaria, si poteva forse parlare dell’esistenza di tante piccole organizzazioni
indipendenti e spesso in conflitto tra loro, basate su relazioni informali tra persone
appartenenti alle stesse reti sociali. Per Hess la soluzione era quindi colpire le cause
sociali del fenomeno attraverso riforme mirate più che opporre uno Stato forte e potente
come “antidoto al comportamento mafioso”.
Altro importante contributo arriva da un altro studioso straniero: l’olandese Blok che
interpreta la mafia come “un modus vivendi tra le richieste della struttura politica
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formale da un lato e le tradizionali esigenze locali dall’altro […] possiamo quindi
considerare il mafioso come una sorta di intermediario politico o mediatore di potere dal
momento che la sua ragion d’essere risiede nella capacità di ottenere il controllo dei
canali che collegano l’infrastruttura locale del villaggio alla sovrastruttura della società
più vasta.”(La Spina, 2005, p. 19).Lo studioso olandese fa quindi riferimento ai mafiosi
come a dei mediatori: prima, durante il periodo borbonico, tra i grandi proprietari
terrieri e i poveri braccianti e poi, dopo l’unificazione del Paese, tra la città e le
campagne, in connivenza con coloro che ricoprivano cariche pubbliche.
Ma uno dei contributi certamente più significativi, soprattutto per quanto riguarda
l’analisi del fenomeno, è la distinzione di Alan Block tra power syndicate e enterprise
syndicate. Si tratta di distinguere tra un’organizzazione il cui obiettivo principale è il
controllo del territorio e una il cui scopo è il coordinamento dei traffici illeciti. Si tratta
di due sfere di interesse concettualmente ed empiricamente distinguibili ma che quasi
sempre sono intrecciate tra loro, in un rapporto di reciproca funzionalità (Sciarrone,
1998, p. 43).
Tale concetto è stato più volte riutilizzato anche da altri studiosi come ad esempio da
Raimondo Catanzaro. Egli, riprendendo la distinzione tra i due tipi di crimine
organizzato, enterprise syndicate e power syndicate, descrive i mafiosi come
“imprenditori della protezione violenta” (Santino, 2006, p. 31). Catanzaro quindi si
chiede se sia la strutturale mancanza di fiducia a produrre una domanda di garanzia per
quanto riguarda i traffici, leciti o illeciti che siano, con una conseguente incentivazione
dell’offerta di protezione, o invece se sia l’offerta di protezione a creare la domanda. In
altre parole si chiede se sia la diffusa situazione di insicurezza sociale ed economica a
spingere gli imprenditori a chiedere delle garanzie di sicurezza sulle loro transazioni
rivolgendosi ai mafiosi, oppure se siano questi ultimi ad imporre la loro protezione.
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Catanzaro è dell’avviso che la tesi migliore sia la seconda e cioè che sia l’offerta di
protezione a creare la domanda. In questo modo, infatti, si riuscirebbe a spiegare la
sfiducia senza dover ricorrere ad altre cause difficilmente documentabili come ad
esempio dover ricorrere alla dominazione spagnola quale responsabile della sfiducia
diffusa in tutto il Mezzogiorno. Inoltre, si riuscirebbe a dare una spiegazione unitaria
della nascita e della diffusione del fenomeno mafioso. Con ciò non si vuole escludere
l’importanza della domanda di protezione che si intreccia fortemente con l’offerta anche
perché non bisogna dimenticare che, in quanto power syndicate, una delle caratteristiche
principali della mafia è il controllo, non solo del territorio, ma anche e soprattutto degli
uomini e la sua abilità nel manipolarli a proprio vantaggio (Santino, 2006, p. 31-32).
In Italia, il modello imprenditoriale di interpretazione del fenomeno mafioso, è stato
sviluppato da Arlacchi che, partendo dall’analogia tra mafia e impresa, identifica le
caratteristiche specifiche dell’impresa mafiosa che differisce da quella legale,
soprattutto per quanto riguarda il metodo (Longo, 1997, p. 61).
Arlacchi riprende la vecchia distinzione tra una mafia tradizionale e una moderna le cui
differenze qualitative sono da ricercare nel passaggio dei mafiosi da un ruolo di
mediazione ad un ruolo di accumulazione di capitale. Ricorrendo alle categorie di
impresa e di imprenditorialità di Schumpeter, riesce a riassumere tre dimensioni
importanti del fenomeno: l’aspetto innovativo, rispetto al passato, determinato
dall’ingresso dei mafiosi nel quadro economico; l’introduzione della razionalità e del
calcolo capitalistico nelle scelte economiche dell’imprenditore mafioso; l’aspetto
irrazionale e aggressivo dell’attività economica mafiosa, che si esprime con una corsa
sfrenata all’accumulazione di ricchezza.
Utilizza anche le caratteristiche schumpeteriane attribuite all’imprenditore, focalizzando
la propria attenzione soprattutto sulla definizione dell’imprenditore come “innovatore”.