2
gnifica che essa voleva una Nazione Algerina, ove fossero rispettate tutte le
componenti della sua popolazione, quindi un’Algeria islamica, ma anche
Amazigh e, non solo, Araba.
L’obiettivo dell’Indipendenza nazionale, ottenuta nel 1962 dopo
sette anni di guerra aperta, aveva convinto, gli esponenti cabili del FLN5, a
mettere da parte la questione identitaria. Essa si ripresentò, comunque, già
l’anno successivo alla liberazione. La rivolta, guidata da Belkacem Krim,
Aït Ahmed e Mohand Ou El Hadj, scoppiò in Cabilia, in reazione a Ben
Bella, che si era appropriato del potere, con l’aiuto dell’esercito6. La chiusu-
ra del fronte cabilo, mise a tacere gli Imazighen per qualche tempo, tanto
da lasciar credere che il nuovo Presidente, il gen. Boumediène, fosse riusci-
to a risolvere la questione.
La protesta e le manifestazioni del 1980, nate in seno agli ambienti
universitari, furono la dimostrazione che i Cabili erano afflitti dallo stesso
sentimento di oppressione ed avrebbero continuato a chiedere il riconosci-
mento per la propria identità. Il periodo di dimostrazioni fu denominato
Primavera Berbera e, sebbene avesse avuto inizio come rivendicazione cul-
turale, da essa scaturirirono anche le prime leghe per la difesa dei diritti
umani, in Algeria. Anche se prontamente represse dal regime monopartiti-
co, queste associazioni servirono a sviluppare una concezione più generale
della protesta, tale da coinvolgere anche il resto del Paese, in quanto tocca-
va problematiche che attanagliavano tutta la popolazione.
Quando, nel 1989, fu emanata la prima Costituzione liberale, si
credette che fosse stata instaurata una vera democrazia, nella quale ogni
voce potesse esprimersi ed essere rispettata. Le manipolazioni del sistema,
che portarono all’affermazione elettorale del partito islamico7 e al successi-
vo golpe militare, fecero cadere l’Algeria in un periodo nero, dove ogni li-
bertà era negata. Nonostante gli sforzi governativi di ristabilire l’ordine,
attraverso l’amnistia del 19998, le ristrettezze alle libertà rimasero, mentre
la situazione economica peggiorava irrimediabilmente. In questo clima, si è
sviluppata la rabbia esplosa, poi, in Cabilia nella “Primavera Nera” del
2001.
Il presente studio approfondirà il movimento di protesta sviluppa-
tosi dall’aprile 2001, conseguente alla morte di un giovane liceale per mano
di un gendarme, avvenimento che, scatenando la collera dei giovani di
un’intera regione, che iniziarono a manifestare spontaneamente per le stra-
de dei centri abitati. Attraverso le cronache dei quotidiani e i rapporti delle
associazioni di difesa dei diritti umani, è possibile risalire alle ragioni più
profonde che hanno portato la popolazione di un’intera regione a sfilare,
giorno dopo giorno, per un anno intero. L’apice di questo movimento fu la
5
Il Front de Liberation Nationale era la formazione di unità nazionale, che guidò il popolo
algerino alla ribellione.
6
Ben Bella, Mohand Ou El Hadj, Aït Ahmed e Belkacem Krim avevano guidato la Guerra
di Liberazione Nazionale, da posizioni di prestigio. Questi ultimi due furono perseguitati
dal nuovo Stato indipendente, per la loro opposizione al regime.
7
Il FIS, Front du Salut Islamique.
8
Si trattava della legge sulla Concordia Nazionale, proposta dal neo-eletto Presidente del-
la Repubblica Abdelaziz Bouteflika, come risoluzione del terrorismo islamico.
3
riunione di più di un milione di dimostrati, ad Algeri, nel giorno più caldo
di un’intensa stagione: il 14 giugno 2001. Il malessere cabilo non consiste-
va più nel solo disagio culturale. Non si manifestava per vedere riconosciu-
to il diritto ad una cultura particolare, ma allo scopo di rivendicare il diritto
alla vita, anche in senso stretto. Nei primi mesi di opposizione, quelli più
duri, i caduti furono un centinaio: quasi tutti giovani, uccisi dalle forze
dell’ordine.
Il movimento di protesta era, inizialmente, sfuggito ad ogni tipo di
controllo, nonostante i tentativi dei due partiti impiantanti nella regione: il
Front des Forces Socialistes9 e il Rassemblement pour la Culture et la Democra-
tie10. Le rivendicazioni della folla avevano, soprattutto, carattere sociale e
democratico ed interessavano tutta l’Algeria. Nonostante ciò, l’organo di
coordinazione che emerse, noto come Movimento Aârouch (o Aârchs) o
Movimento Cittadino, si richiamava alla vecchia tradizione cabila delle dje-
mâa, ovvero delle assemblee di villaggio.
A tutt’oggi, la situazione in Cabilia, e nel resto dell’Algeria, rimane
irrisolta, mentre la popolazione chiede, continuando a lottare, il riconosci-
mento della propria identità. Questa necessità emerge, a chiare lettere, nei
resoconti delle testate giornalistiche, nei rapporti delle associazioni impe-
gnate nella difesa dei diritti umani, nelle testimonianze orali e oculari ri-
portate dai media, negli studi condotti da intellettuali di origine cabila, co-
stretti ad emigrare in Francia per poter esporre le proprie convinzioni.
9
Il primo partito era nato nel 1963, sotto la spinta di Hocine Aït Ahmed, uno dei capi della
Guerra di Liberazione Nazionale. Era stata la sua nascita a dare il via alla rivolta cabila di
quell’anno.
10
Il Rassemblement era stato formato nel 1989, dal dott. Saïd Saâdi, un medico che si era
impegnato nella Primavera Berbera del 1980 ed aveva fatto parte del Mouvement Cultural
Berbère, sorto in seguito alla protesta.
4
5
Capitolo I
LA DISGREGAZIONE DELLA SOCIETÀ TRIBALE
1. L’appropriazione francese delle terre cabile.
La società tribale cabila dovette fare i conti con le forze disgregatri-
ci, soprattutto dopo la sconfitta di Al Mokhrani nel 1872. Nonostante le di-
verse ondate di conquista, susseguitesi nei millenni, un particolare non era
mai stato messo in discussione: la proprietà della terra era sempre rimasta
alle tribù, che avevano potuto proseguire nel loro modello sociale.
La Francia decise invece di reagire con la requisizione di enormi
porzioni di territori. La sua intenzione non era mai stata, in fondo, quella di
occupare nuove terre per impadronirsi delle ricchezze, ma di ottenere nuovi
possedimenti per coloro che volevano trasferirsi, alleggerendo la pressione
demografica in patria. Le mire dei coloni e dell’amministrazione furono
immediatamente attratte dalle terre più fertili. Nonostante, la Cabilia non
fosse una regione pianeggiante, le sue culture tradizionali corrispondevano
alle necessità di alcuni agricoltori francesi: vigneti e uliveti potevano trova-
re il terreno ideale ai piedi del Djurdjura, e i coloni potevano trarne enormi
guadagni. Eppure, le autorità francesi erano convinte di lasciare in mano ai
locali abbastanza terre, da garantirne la sopravvivenza. Non si rendevano
conto che, ogni tribù, basava la sua vita su tutto il territorio di sua proprie-
tà, essere private di porzioni immense significava mettere in dubbio la stes-
sa esistenza della società tribale.
La situazione stava, però, diventando incontrollabile anche per Pa-
rigi, che doveva affrontare frotte di nuovi coloni, che sbarcavano nei terri-
tori algerini e li occupavano senza chiedere alcuna autorizzazione. Mette-
vano, così, i governatori di fronte al fatto compiuto, e questi non potevano
ammettere di cacciare dei Francesi per rendere delle terre agli autoctoni11. Il
governo centrale decise, perciò, di impegnarsi per «salvaguardare la dignità
degli sconfitti»12, promovendo la formazione scolastica dei musulmani e op-
tando per un’integrazione completa nel governo francese, anche attraverso
la riorganizzazione dell’amministrazione dei possedimenti. Per farlo decre-
tò che tutte le terre comuni, di cui non venisse dimostrata la proprietà, sa-
rebbero state considerate libere, e distribuite ai coloni. Le tribù non cono-
scevano al proprietà privata, e non poterono dimostrare nulla, così persero
il diritto di lavorare la gran parte dei loro terreni e, gli uomini, si videro
costretti ad andare a chiedere lavoro nelle fattorie coloniali, come mezzadri
o come braccianti.
11
Il termine “autoctoni” veniva consapevolmente usato dai Francesi. Così facendo, cercava-
no di negare ogni implicazione nazionalista del termine Algerini.
12
J. Camion, riportato in C. R. Ageron, «Les Algeriéns musulmans et la France (1871-1919)»,
Parigi, 1968, pag. 478; tratto da Albert Hourani, «Storia dei popoli arabi», nota 2, p. 292,
Mondatori Editore, Oscar Storia 1998, prima edizione 1992.
6
2. Il «Mythe Kabyle».
Il nuovo corso della politica coloniale francese implicava, inoltre,
l’assimilazione delle popolazioni conquistate. Sebbene si volesse richiamare
un’ipotetica parità dei due elementi umani, francese e algerino, l’obiettivo
era lo spossessamento dell’individualità statale e culturale dell’intero popo-
lo, per prevenirne ogni reazione.
Il primo scopo che si prefissarono i coloni con questa politica fu la
creazione di differenze interne alla popolazione algerine. Convinti che esi-
stessero dei profondi contrati tra la popolazione araba e quella amazigh, i-
nizialmente solo gli Imazighen furono oggetto delle iniziative di assimila-
zione, con la prospettiva di ridimensionare le pretese degli Arabi.
I Francesi credevano che la fede islamica dei Cabili fosse superficiale, e che
essi avessero resistito continuamente alla presenza araba, dato che aveva
imposto loro una lingua che non volevano parlare. Fu in questo senso, che i
coloni contribuirono a rafforzare il sentimento particolarista, sostenendo
l’utilizzo dei dialetti e edificando quel “mito cabilo” che sopravvisse alla con-
quista e influenzò tutto il movimento nazionalista. I Cabili erano guardati
con discreto favore, dato che non avevano partecipato alla resistenza
dell’Emiro Abd El Qader13, e perciò, momentaneamente, erano ritenuti de-
gli alleati ideali per la salvaguardia del dominio coloniale.
Si trattava di un’interpretazione utilitarista, guidata dal principio
politico del divide et impera, che aveva il vantaggio di provocare sentimenti
settari, razzisti e di alimentare lotte tribali e dottrinali. Con il “Mito Cabi-
lo”, Parigi cercò di convincere gli Imazighen di avere origini Galliche, per
cui degli elementi culturali in comune con i Francesi, come la comunanza
della dominazione romana e dalla religione cristiana, praticata prima di
convertirsi all’Islam. Il “ritorno alla fede cristiana” faceva parte delle politi-
che rivolte ai soli Cabili, ma i conquistatori non consideravano che il Cri-
stianesimo non era mai filtrato, fino in fondo, negli animi degli autoctoni.
La comunità non vedeva, però, nelle attività dei colonizzatori un pe-
ricolo. Veniva data loro l’illusione che venisse mantenuto l’ordine sociale,
politico e culturale preesistente. I delegati francesi si consigliavano con i
capi delle djemaâ14, consentivano di mantenere i costumi (tanto più se con-
trastavano con quelli arabi), fu incoraggiata l’applicazione del diritto co-
munitario cabilo, a discapito della shari’a15, anche se le djemaâ si trasforma-
rono in simposi di dignitari, di solito, al soldo del governo coloniale.
13
La rivolta di Abd El Qader (1841-1848) si era sviluppata in seno ad una confederazione
di tribù che vivevano nelle regioni occidentali dell’Algeria. La coalizione non si allargò fi-
no alla Cabilia,perché i clan cabili non erano disposti a riconoscere l’autorità dell’Emiro
come capo delle tribù. In seguito alla rivolta guidata da Al Mokhrani, i Francesi compre-
sero che sarebbe stato, invece, più difficile domare gli Imazighen, e il “mito cabilo” perse
interesse, portando all’ampliamento delle politiche di assimilazione anche alle popolazioni
di origine araba.
14
La djemaâ era l’assemblea dei capifamiglia del villaggio. L’istituzione era l’autentica de-
positaria della sovranità del villaggio.
15
La legge coranica.
7
3. La società tradizionale cabila.
Al loro arrivo in Cabilia, i Francesi constatarono l’esistenza di un
sistema sociale complesso, che si reggeva su due fondamentali concetti: il
diritto consuetudinario e l’onore, necessari per regolamentare una società
priva di sovrani e caste, ma con un’autorità diffusa.
L’unità base della società era la famiglia, intesa come lignaggio. Ne erano
parte il capofamiglia, la sua consorte, i loro figli, le rispettive spose e proli.
Normalmente, anche i fratelli minori del patriarca e i loro congiunti vive-
vano la sua famiglia, formando delle unità abitative abbastanza grandi, cui
erano compresi anche gli eventuali averi, terreni e greggi. Il capofamiglia
era padre, capo, sacerdote e giudice. Assegnava ad ognuno il proprio ruolo
e deteneva il diritto d’imporre il matrimonio ai figli. Alla morte del caposti-
pite, il primogenito ereditava l’autorità, e in caso di divisione dei beni, vigi-
lava sulla buona condotta dei fratelli e delle sorelle. La moglie era incarica-
ta della gestione dei lavori domestici e di alcune occupazioni nei campi, co-
me la cura del giardino, la raccolta di legname, l’approvvigionamento
dell’acqua. Le donne erano, d’altronde, le guardiane della tradizione. Esse
trasmettevano la cultura ai propri figli, attraverso gli antichi racconti e po-
emi, e si dedicavano alla pratica d’arti magiche e rituali.
Pochi gruppi familiari, che abitavano in piccoli agglomerati, costi-
tuivano una “Kharrouba”. La riunione degli uomini eleggeva, tra essi, un
“Amin”, a salvaguardia dell’ordine. I patriarchi e il loro Amin prendevano
parte alla riunione della djemaâ, il villaggio, che prendeva decisioni di carat-
tere sociale ed economico. L’assemblea di villaggio era l’autentico detentore
della sovranità: legiferava, governava, amministrava e giudicava, insomma
riassumeva in sé tutti i poteri. L’onore dei suoi partecipanti, quindi la loro
importanza morale, era stabilito dalla capacità che questi avevano nel far
eseguire, in modo corretto ed efficiente, i compiti comuni che spettavano
alla loro collettività. Anche la djemaâ eleggeva un suo capo tra i membri,
“Amhar”, che restava in carica solo un anno. L’assemblea si occupava di as-
segnare e coordinare i lavori nei campi e le corvè collettive, e decideva del
destino di chi si sottraeva a tali mansioni. La stessa riunione decideva delle
faccende giudiziarie interne al villaggio, come la punizione dei trasgressori.
Preferiva, invece, rimandare alla tribù o ad arbitri esterni le dispute di di-
ritto civile16. Era la djemaâ ad occuparsi della distribuzione delle terre della
tribù ad inizio stagione, che venivano assegnate alle famiglie, mentre una
parte veniva lasciata incolta per i pascoli di tutte le greggi del villaggio. Le
assegnazioni tenevano conto anche degli anni precedenti, evitando che le
famiglie che avevano avuto un raccolto magro, non corressero lo stesso ri-
schio per due anni consecutivi17.
Quando l’occupazione coloniale distrusse l’equilibrio della società
tribale, l’assemblea di villaggio si prese carico dell’organizzazione
16 Rodolfo Sacco, «Di alcune singolari convergenze fra il diritto ancestrale dei Berberi e quelli dei
Somali», in Africa, rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto Italo-Africano, Ro-
ma 1989, anno XLIV, n. 3 Settembre 1989.
17
Le reti solidali di cui si componevano le tribù non avrebbero, comunque, permesso che
nessuno morisse di fame. La comunità avrebbe provveduto alle necessità primarie.
8
dell’emigrazione cabila in Francia, affinché chi si offriva di partire, non do-
vesse farlo in via definitiva, mentre i suoi guadagni avrebbero contribuito
al sostentamento dell’intera comunità, non solo della famiglia d’origine. Di
solito, i giovani con molti figli erano destinati alla Francia, che prevedeva
degli aumenti salariali per le famiglie numerose. I congiunti rappresenta-
vano, inoltre, il motivo che li portava a voler tornare a casa, limitando il pe-
riodo di soggiorno in Europa. La manualità acquisita al villaggio permette-
va, a questi emigrati, di specializzarsi come operai, cosicché i salari aumen-
tavano nell’arco dei due anni, un periodo grossomodo corrispondente alla
durata dell’«esilio».
4. Le politiche di scolarizzazione e lo sviluppo primor-
diale di un’élite cabila.
Tra le iniziative, che furono accolte più favorevolmente dalla comu-
nità cabila, ci fu la creazione delle scuole primarie, anche in quei villaggi
che non ne avevano mai avuta una. La “penetrazione” fu affidata a innocui
missionari, che celavano il loro ruolo politico con le attività caritatevoli. A
questi prelati era delegato il compito di “ri-cristianizzare” i Cabili. Si occu-
pavano, innanzitutto, dell’educazione degli orfani, insegnando la lingua
francese e i dogmi della fede cattolica. I ragazzi, affidati alle loro cure, rice-
vevano una formazione importante, che li differenziava dal resto degli Al-
gerini. Essi potevano usufruire di leggi particolari che consentivano loro di
frequentare istituti importanti, quali le scuole di medicina. Questo aveva,
però, dei risvolti negativi non trascurabili. Convinti di poter migliorare la
loro situazione sociale, avendo accesso a una professione importante, sco-
privano che sarebbero stati relegati al ruolo di paramedici nelle strutture
urbane, oppure potevano esercitare solo nei villaggi, solitamente in quello
da cui provenivano. I giovani cabili credevano, inoltre, di poter usufruire
della possibilità di diventare cittadini francesi, anche in virtù della conver-
sione al cattolicesimo, a cui dovevano sottoporsi per usufruire dei “benefi-
ci”. Ma essi divennero dei cittadini di “serie B”, cui era vietato anche con-
trarre matrimonio con i Francesi di nascita, perché sarebbero rimasti co-
munque dei Cabili, sospettati di tramare contro i coloni18.
L’obiettivo delle politiche di istruzione per i Cabili non era la crea-
zione di un’élite locale, ma solo di creare una contrapposizione con quella
araba, che aveva gestito la cultura fino all’arrivo francese, e che avrebbe po-
tuto sviluppare sentimenti nazionalisti. A questo scopo, l’amministrazione
coloniale aveva provveduto alla chiusura delle scuole tradizionali, costrin-
gendo la popolazione araba all’analfabetismo. In teoria, chiunque avrebbe
potuto accedere alle scuole francesi, ma la diffidenza nei confronti
dell’invasore e della sua cultura, e i costi che implicava una simile scelta,
erano ostacoli quasi insormontabili. Gli Imazighen poterono, quindi, appro-
fittare di servizi che per loro avevano un costo minore, data la diffusione
sul territorio delle scuole primarie e l’iniziale favore francese. Ben presto si
accorsero, però, dei vantaggi sociali ed economici che potevano derivare
dall’istruzione, cui si aggiunse un precoce senso di rivalsa: i conquistatori
18
Danièle Maoudj, «Mes deux montagnes: de Tizi Ouzou a Zonza», in Peuples Méditerranéens,
n. 38-39; gennaio-giugno 1987, Directeur de publication: Paul Vieille, Parigi.
9
potevano essere sconfitti solo appropriandosi delle loro armi, della lingua e
della cultura.
Non a caso, l’atteggiamento nei confronti dei Cabili cambiò in poco
tempo, quello necessario a vedere i frutti dell’istruzione diffusa. La popola-
zione amazigh divenne, improvvisamente, una comunità di avidi montanari,
privi di coraggio e senza dignità, e l’attenzione si rivolse verso politiche di
arabizzazione, scegliendo l’Arabo come lingua da affiancare al Francese
nell’amministrazione locale. Tra il 1908 e 1910, i coloni protestarono vi-
vamente contro l’alfabetizzazione della loro manodopera a bassissimo co-
sto, preoccupati che la cultura potesse favorire lo sviluppo di una coscienza
amazigh. Nel 1908, il direttore della sezione "indigeni" dell'amministrazio-
ne coloniale avvertiva: «I maestri elementari cabili si credono non solo liberati,
ma anche liberatori... Preferiscono parlare di proteste e di indipendenza piuttosto
che di sottomissione e di rispetto... Dimostrano sentimenti il cui sviluppo potrebbe
costituire un serio pericolo»19.
5. Emigrazione in Francia.
Coloro che non furono in grado di mantenere un quantitativo di ter-
ra, sufficiente alla sopravvivenza, o che non riuscirono a trovare lavoro
presso le nuove fattorie europee, furono costretti ad emigrare. Le direttrici
principali degli emigranti furono due: una interna, verso le città e le cam-
pagne algerine, la seconda oltremare, verso la Francia. I fellahin20 cercava-
no, prima di tutto, un’occupazione presso le fattorie coloniali, ma il pro-
gresso tecnologico e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie,
permise un vertiginoso aumento della popolazione. La conseguente carenza
di occupazione alimentò nuovi flussi migratori. Anche le città, tradizionale
valvola di sfogo della migrazione, non erano più in grado di assorbire la
popolazione in eccesso, ora che erano popolate anche da petit blancs21. Anche
i Cabili che prendevano la via dell’emigrazione, optavano, come prima scel-
ta, per trasferirsi ad Algeri, dove tendevano a riunirsi negli stessi quartieri
e, appena possibile, si facevano raggiungere dalle famiglie, ricreando dei
villaggi all’interno dei grandi centri urbani.
L’emigrazione verso lo Stato Francese iniziò in tempi molto pros-
simi allo sbarco dei conquistatori. Già dalla metà del XIX secolo, il sotto-
sviluppo, l’incremento demografico e le carestie costrinsero la popolazione
autoctona a cercare sostentamento altrove. All’inizio della Prima Guerra
mondiale, già 13 mila Algerini avevano salpato il Mediterraneo verso la
Francia, alla ricerca di occupazione. Si trattava dei cosiddetti convoyeurs ka-
byles (trasportatori cabili), che accompagnavano il bestiame (montoni, bovi-
ni, cavalli) in Europa e qui, poi, si fermavano. Già da subito, fu la Cabilia la
regione di partenza della maggior parte degli emigrati in Francia. La legge
19
Da «Il movimento berbero: tra rottura e integrazione», tratto da sito
http://digilander.libero.it/asaka/.
20
Contadini, divennero famosi per il contributo dato nella Guerra di Liberazione Naziona-
le.
21
Si trattava di coloni francesi, italiani, spagnoli, nati in Maghreb, che non erano stati ca-
paci di far fruttare le terre di cui si erano appropriati.
10
sulla scolarizzazione, del 1889, aveva fatto sì che i Cabili, di questa prima
ondata migratoria, fossero abbastanza istruiti, cosicché poterono occuparsi
anche di attività commerciali, e non solo di lavori manuali.
Furono i lavoratori stessi a rivelare quanto, l’emigrazione, non fosse sola-
mente un fattore temporaneo. Ad ogni “cambio della guardia” c’era sempre
chi restava in Francia, costituendo lo zoccolo duro di quegli operai che si
“occidentalizzavano”: apprendevano la cultura sindacalista, ma non dimen-
ticavano quella originaria, già vittima della società araba trionfante22. So-
prattutto, acquisivano concetti sconosciuti, ma rivoluzionari, come gli ideali
nazionalisti. Chi rientrava in Cabilia diffondeva, questi ideali, anche presso
la comunità d’origine, risvegliando l’antico orgoglio cabilo, che iniziò a
credere nella possibilità di uno Stato Algerino.
Al loro arrivo in Francia, gli emigrati non potevano contare sulle
strutture di supporto promesse dai Francesi. La convinzione, che i governi
parigini avessero provveduto agli impianti, atti all’accoglienza degli stra-
nieri, si radicò perché furono le comunità di immigrati ad organizzarsi di
conseguenza. I primi arrivati iniziarono a riunirsi in comunità omogenee, a
concentrarsi in quartieri che si contraddistinguevano, non tanto per la na-
zionalità dei loro abitanti, quanto per la loro appartenenza etnica, e i Cabili
divennero maestri di questa ristrutturazione. Centri, di questi nuovi villag-
gi imazighen, divennero quelli che noi definiremmo hotel, ma che in pratica
erano solo dei grandi stabili. Essi erano luogo di riunione per coloro che af-
fittavano le stanze dell’ostello, ma anche per quelli che abitavano nelle pic-
cole case del quartiere, ricreando l’ambiente del villaggio. Addirittura, si
ricreò la djemaâ, che imponeva regole sue e sanzionava coloro che le in-
frangevano. L’importanza del tenutario dell’ostello - di solito un immigrato
di vecchia data, che magari aveva spostato un’europea - andava ben oltre.
Esso era il centro stesso della comunità, e a lui ci si rivolgeva per contatta-
re un amico, o un parente che si trovava in Francia e del quale non si cono-
sceva la residenza. A quello stesso individuo si chiedeva di tenere i contatti
con i rappresentanti della società francese e del posto di lavoro, quando an-
cora non si conosceva la lingua. Egli assumeva ruolo di rappresentanza,
all’interno dei sindacati, ai quali faceva legare i componenti della sua collet-
tività, e manteneva i contatti con la Cabilia. Particolare non trascurabile, il
tenutario era disposto a concedere le stanze a credito, forte di una rete di
solidarietà che gli avrebbe permesso di rientrare nei suoi guadagni. Il ruolo
dell’intermediatore fu rafforzato dall’ostilità che la comunità autoctona di-
mostrava nei confronti degli immigrati, rei di non parlare la lingua e di non
conformarsi ai costumi23.
I forti legami si trasferirono anche sul posto di lavoro, tanto che,
chiunque potesse permettersi di rientrare in patria, cercava di lasciare il suo
posto ad un nuovo cabilo immigrato. Per i Cabili, stranieri in un Paese che
non li riconosceva, ma che dava loro il sostentamento, la solidarietà non era
un’opzione, ma un dovere. La trasgressione causava egoismo e veniva puni-
ta con severità dalla djemaâ. Lo stesso rigore era imposto quando si tratta-
va di dimostrare materialmente la propria solidarietà, organizzando collet-
22 Serge Bromberger, «Les rebelles Algériens», Libraire Plon, Parigi, 1958.
23
Kamal Bouguessa, «Mode de vie et reproduction: la communauté algérienne en France pendant
la colonisation», in Annuaire de l’Afrique du Nord 1981, Vol. XX, ed. CNRS 1982.
11
te per i malati e i disoccupati, e liste di priorità, affinché il nuovo partente
fosse colui che da più tempo era privo di lavoro. In caso di decesso, la soli-
darietà mostrava la sua ampiezza: tutti i membri della comunità davano un
contributo in denaro. La famiglia del defunto avrebbe così avuto un po’ di
contanti per mantenersi, in quel momento di difficoltà, e non avrebbe dovu-
to neanche pagare per il rimpatrio del corpo del suo caro.
Questa forma di solidarietà si estese, fino a culminare nel sentimen-
to di appartenenza ad una stessa comunità nazionale, nel ricordo del mondo
rurale, e a spese del sentimento di classe, che si sviluppava tra gli operai
francesi. Lo sguardo dell’immigrato era rivolto alla patria.
In fondo la condizione particolare dei Cabili partiva dall’Algeria stessa,
quando la djemaâ decideva chi sarebbe partito. Si trattava di un legame in-
scindibile. Gli emigrati non smisero mai di considerarsi parte delle comuni-
tà di origine. Un sentimento alimentato dai frequenti rientri, dal bisogno di
rimborsare i debiti della famiglia, contratti magari per riscattare le terre
sequestrate dai Francesi, e che non lasciava loro lo spazio per integrarsi
nella nuova società. La durata dei “soggiorni” in Francia variava solitamente
dagli otto mesi ai due anni, raramente si protraeva più a lungo. Le istitu-
zioni cabile avevano comunque creato dei “paracadute”, affinché si potesse
prevenire l’emigrazione definitiva. Era abbastanza diffuso far sposare i can-
didati all’emigrazione poco prima della partenza. In questo modo, il parten-
te desiderava rientrare, anche perché la tradizione impediva alle spose di
partire con i propri mariti24. Solo trovare una moglie europea, o aprire
un’attività in proprio in Francia, conduceva alla decisione di restare perma-
nentemente nel nuovo Paese. Coloro che si trasferivano definitivamente e-
rano gli unici a sentire il bisogno di integrarsi nella nuova società. Un altro
sistema per mantenere vive, nella memoria degli emigrati, le abitudini dei
loro villaggi, era quello di reintegrarli subito nella vita della famiglia appe-
na rientrati dalla Francia e reinserirli nei compiti che avevano avuto prima
di partire, come se mai fossero partiti. Tutto ciò non poteva evitare che, il
periodo vissuto all’estero, lasciasse negli emigrati delle influenze, che la-
sciavano segni invisibili, ma indelebili di un mondo moderno, che contri-
buiva all’evoluzione delle loro mentalità. Nei loro cuori si erano introdotte
delle nuove idee, che essi portavano nei loro villaggi. Si trattava di pensieri
d’indipendenza, di progresso sociale, d’istruzione, che ora andavano diffon-
dendosi anche tra le donne. Queste coscienze nuove divennero il fulcro es-
senziale del Movimento Nazionale Algerino, che giocò un ruolo fondamen-
tale nella resistenza alla pauperizzazione e allo spossessamento, sempre
crescente, dei contadini.
24
Questa tradizione si infranse solo dopo la II Guerra Mondiale.
12
13
Capitolo II
I CABILI E IL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE
NAZIONALE.
1. La nascita delle formazioni nazionaliste.
In reazione alla politica assimilazionista francese, gli Algerini ini-
ziarono ad esaltare le differenze tra le due popolazioni, ponendo al centro
del proprio essere l’aspetto che più aveva creato contrasti con gli Europei:
la religione islamica.
Le prime rivendicazioni furono presentate dal Manifeste Jeune Algé-
rien (o Giovani Algerini, 1912) che chiedeva nuove politiche di alfabetizza-
zione e una maggiore rappresentanza araba nelle istanze elettive
dell’amministrazione francese. Fu, però, l’avvento della I Guerra Mondiale
a risvegliare sentimenti sopiti di liberazione-indipendenza. In trincea, a fian-
co dei soldati francesi, gli Algerini iniziarono a comprendere cosa signifi-
casse “autodeterminazione dei popoli”, un principio che, secondo la Francia,
non era applicabile alle colonie.
Le élite che si svilupparono in questo momento, avevano, però, stretti rap-
porti con la Francia e, allontanandosi dai bisogni di proletari e fellahin25,
chiedevano un’applicazione totale delle politiche di assimilazione, fino ad
ottenere la cittadinanza francese. Un esempio fu la Fédération des Élus Mu-
sulmans, nata nel 1930 e guidata da Ferhat Abbas, farmacista cabilo di Sétif,
molto legato alle élite transalpine, che chiedeva che la cittadinanza francese
fosse concessa anche ai musulmani, rispettosi, però, della laicità dello Sta-
to26.
La prima formazione indipendentista nacque nel 1926, sotto la gui-
da di Messali Hadj. L’Etoile Nord Africaine (ENA) attirò, soprattutto, le
simpatie dei Cabili emigrati in Francia per lavorare nelle industrie e nelle
fattorie, fornendo il necessario appoggio popolare. Nonostante fosse nata in
seno alle organizzazioni sindacali e al Partito Comunista Francese, l’ENA
attirò i militanti puntando l’accento sull’unificazione della Umma Islamica27.
Il principio dell’indipendenza fu sancito ufficialmente nel Congresso del
1933, allontanando definitivamente l’ENA dal resto del movimento nazio-
nalista. Nel 1937 la formazione di Messali fu dichiarata fuorilegge, ma rie-
merse pochi mesi dopo con la creazione del Parti du Peuple Algérien (PPA).
A sua volta bandito nel ’39, quest’ultimo continuò la sua azione in clande-
25
Fellahin sono i contadini algerini. Saranno loro a diventare il nucleo combattente
dell’Armée de Libération Nationale (ALN), l’esercito di partigiani combattenti (moudjahid-
din) che fu impegnato nella Guerra di Liberazione.
26
Deluso dalla politica francese, nel 1943, Abbas pubblicò, insieme a 55 intellettuali, il
Manifeste du Peuple Algérien, allineandosi su posizioni indipendentiste, seppure aderì al
Front de Libération Nationale, guida della rivoluzione, solo nel 1956, convinto dall’azione di
Abane Ramdane.
27
L’Umma Islamica era la comunità di tutti i credenti, riuniti sotto un’unica guida come ai
tempi di Maometto.
14
stinità, attirando ancor di più le simpatie degli emarginati. La colpa mag-
giore del movimento fu l’imposizione di una visione unica della nazionalità:
l’Algeria era Araba e Islamica, a scapito dello zoccolo duro dell’ENA, for-
mato da Imazighen, coscienti e orgogliosi di essere “uomini liberi”.
La stessa posizione era condivisa dall’Association des Ulemas Musul-
mans Algériens, che pur non condividendo la rivoluzione armata, si richia-
mava all’ideale di uno Stato Algerino e Islamico, dove l’unica lingua era
l’Arabo. Il loro motto, «L’Algeria è la mia patria. L’Arabo è la mia lingua.
L’Islam è la mia religione»28, fu un’espressione usata anche dopo
l’Indipendenza, per bloccare le rivendicazioni masire. A difesa della loro
concezione della nazionalità algerina, gli Ulema non esitavano a denuncia-
re, come agenti del colonialismo, tutti quei berberisti che si opponevano alla
loro visione di unità algerina, araba e musulmana. A questo scopo, trovaro-
no, tra i Cabili stessi, dei validissimi portavoce, riuscendo così a ridurre la
portata del messaggio dei difensori della cultura Amazigh tra le masse.
2. Il Congresso del 1947 del PPA-MTLD.
All’annuncio della vittoria alleata nella II Guerra Mondiale, le città
cabile di Guelma e Sétif manifestarono la loro gioia per strada, convinti che
la liberazione della Francia avrebbe significato la libertà per l’Algeria. Il
conseguente stato d’assedio provocò almeno millecinquecento morti, anche
se le cifre ufficiali non sono considerate attendibili29.
Allo scopo di calmare gli animi, la Francia annunciò l’amnistia, poco prima
delle elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946, ma Messali, dal carce-
re, invitò la popolazione a disertare le urne. Fece, perciò, scalpore che, po-
chi mesi dopo, in seguito alla scarcerazione del suo leader, il PPA decidesse
di presentare, con il nome di Mouvement pour le Triomphe des Libertés Démo-
cratiques (MTLD), delle liste alle votazioni per l’Assemblea Nazionale
Francese. I militanti chiesero un Congresso Straordinario, che fu sostituito
da una Conferenza dei Quadri, che confermò la partecipazione elettorale e
respinse la proposta di Bennaï Ouali e Amar Ould Hamouda30, per la crea-
zione di un’organizzazione paramilitare.
Il Congresso si svolse l’anno successivo, provocando un tumulto di
polemiche interne. I rappresentanti della Cabilia, chiesero una partecipa-
zione proporzionale al numero di militanti per ogni regione. Gli Imazi-
ghen, da soli, costituivano, infatti, un gruppo più numeroso del resto dei
militanti messi assieme. Hocine Aït Ahmed31 scrisse: «Dopo l’aprile 1946, io
partecipai alle riunioni dell’Ufficio Nazionale d’Organizzazione in quanto rap-
28
Abdelkarim Bousafsaf, «L’association des Oulama musulmans algériens et sa position a
l’égard du mouvement berbère en Algérie»; in Revue d’histoire maghrebine (époque moderne et con-
temporaine), n. 63-64, luglio 1991, edizioni CEROMDI-ZAGHOUAN.
29
Gianpaolo Calchi Novati, «Storia dell’Algeria indipendente: dalla guerra di liberazione al
fondamentalismo islamico», Edizioni Bompiani, Milano, 1998.
30
I due dirigenti erano di origine cabila, ed erano stati tra coloro che avevano suggerito la
creazione di un programma d’insegnamento in Tamazigh, respinto qualche tempo prima.
31
Hocine Aït Ahmed nacque a Michelet, un “commune de plein exercice” (il cui nome odierno,
e antico, era Aïn El-Hammam), il 20 agosto 1926, giurista e figlio di un qadi (giudice mu-
sulmano) benpensante. Già a 16 anni iniziò la sua lunga vita di lotta, aderendo al PPA di
Messali, e divenne uno dei nove “Capi Storici” della Rivoluzione.