5
coltivazione, spesso unica attività produttiva
3
. Una limitata porzione del terreno era coltivato
in maniera intensiva.
In una prima fase non esisteva distinzione alcuna tra pars rustica e pars urbana
4
. Tra la
fine del III sec. a.C. ed il II sec. a.C. si assiste ad una trasformazione, causata
dall’arricchimento materiale e dallo sviluppo della società romana. Nascono le villae
dedicate all’otium, e la villa diventa l’immagine della ricchezza e del rango del proprietario.
In età repubblicana, la villa è un’azienda agricola autosufficiente
5
. Doveva rispondere a dei
requisiti ben definiti: edificata nei pressi di corsi d’acqua o sorgenti
6
, su un luogo che fosse
salubre in ogni periodo dell’anno
7
, su una collina o a mezza costa
8
, non lontana dal mare, o
da un fiume navigabile
9
, o da una strada
10
, preferibilmente vicina alla città
11
, esposta a venti
benefici ed al sole
12
.
La costruzione non doveva essere troppo grande rispetto al fundus, perché sarebbe
stato troppo costoso mantenerla, né troppo piccola, perché, in tal caso, sarebbe risultata
inadeguata a contenere gli strumenti di lavoro, gli schiavi, gli animali ed il raccolto
13
.
Si distingueva in tre parti: pars urbana, pars rustica, pars fructuaria
14
. La pars urbana
era costituita dalla residenza del dominus e della sua gens. Era formata dalla basis villae
15
,
dal vestibolum, dalle fauces (ingresso), dall’atrium, con l’impluvium ed il lavarium, dal
tablinum (tablino, era l’ambiente principale della casa romana, posto di fronte all’atrio, tra
3
Col., 4.3.
4
Per Varrone, 3.2.9, la villa era un edificio articolato in due parti, rustica e urbana; Columella, 1.6, distingueva
tre parti, rustica, urbana e fructuaria.
5
La villa quale modello architettonico - produttivo si afferma tra l’età tardo-repubblicana e protoimperiale.
6
Var., 1.11.2; Col., 1.5.
7
Var., 1.4.6-4; Col., 1.4.
8
Var., 1.13.7; Col., 1.4.
9
Var., 1.16.6.
10
Cat., 1.3; Var., 1.16.1; Col., 1.3.
11
Cat., 1.3.
12
Col., 1.5.
13
Var., 1.11; Cat., 3-4; Col., 1.4; Vitr., 6.6; Pal., 1.8.1.
14
Troviamo in Varrone, R. R. 3.2.1, una articolata tipologia della villa; Carandini 1989, p. 109, seguendo
Columella, riferisce una distinzione tra pars urbana e pars rustica, che, a sua volta, poteva suddividersi nelle
parti rustica e fructuaria.
15
Era il basamento su cui veniva costruita la villa nel caso in cui essa dovesse essere posta su un pendio:
formato da ambienti voltati, poteva essere utilizzato come criptoportico, ninfeo o cisterna; cfr. Vitr., 6.8, e Pli.,
Ep. 5.6.
6
questo e l’hortus o il peristilio), dal peristilyum (peristilio, uno spazio o sala a cielo aperto,
cinto da un quadriportico a colonne), dalle hospitalia, dalle cubicula (camere da letto), dai
triclinia
16
(divani o letti nella sala da pranzo), dagli oeci (sale), dalle exedrae (esedre, locali
aperti, solitamente coperti da un portico, lungo il cui perimetro erano posti molti sedili per
conversazioni o conferenze), dal porticus, dalle dietae (costruzioni costituite da una stanza
con anticamera, separate dall’edificio principale), dal gymnasium, palestra. I ginnasi si
dotarono poi di gestationes, o ambulationes, cioè piccoli stadi o ippodromi, e di un balneum
(bagno), distinto da quello della pars rustica
17
, articolato in vestiarium (o apodyterium, lo
spogliatoio), frigidarium (frigidario, il primo locale dei bagni, fornito di acqua fredda),
tepidarium (tepidario, stanza di passaggio dal bagno caldo a quello freddo), laconicum (o
sudatio, destinato al bagno di sudore), destrictarium, calidarium (stanza contenente una
vasca piena di acqua calda).
La pars rustica comprendeva gli ambienti destinati agli schiavi, zona identificata
dall’espressione strumentum vocale. Lo strumentum semivocale era, invece, lo spazio in cui
si tenevano gli animali
18
. C’erano poi il mutum, per gli attrezzi da lavoro, le cellae familiae,
con depositi per il vestiario e le derrate alimentari degli schiavi, le cellae per gli aiutanti del
vilicus, ossia i praefecti, i magisteri ed i monitores, e quelle per gli operarii e gli artefices
(artigiani). Vi si trovavano, inoltre, l’ergastolum per gli schiavi vinti, il valetudinarium per
quelli ammalati, i magazzini, l’habitatio del vilicus e quella del procurator, e poi ancora la
culina (cucina), la latrina, il balneum e gli armadi per l’instrumentum domesticum.
La pars fructuaria era riservata alla lavorazione e conservazione dei prodotti derivanti
dall’agricoltura e dall’allevamento, custoditi dalla vilica, dai promi (promus era il
16
Stanza da letto e stanza da pranzo costituivano spesso un appartamento a sé, che poteva essere invernale o
estivo; Vitr., 6.4; Var., 1.13.7; Col., 1.6.
17
Cicerone, Att. 13.29, parla di balnea minora e balnea maiora, alludendo verosimilmente ai due tipi di bagni
che potevano trovarsi in una stessa villa.
18
Sulla tripartizione varroniana, R. R. 1.17.1; ancora Varrone, R. R. 1.17.2-7; 1.18; 1.19-21; 1.22.
7
dispensiere) e dai cellarii
19
. Comprendeva: il torcularium (stanza del torchio) per il vino, con
il lacus (vasca); il corticale, dove il mosto veniva cotto; il fumarium (cella fumaria), dove il
vino veniva invecchiato artificialmente mediante il calore della cucina o i preformi del
bagno; la cella vinaria (dove si conservava il vino), il trapetum, la cella olearia (per la
conservazione dell’olio), il tabulatum, i granaria per il grano, i farraria, i foenilia (fienili), i
paleria (pagliai), il nubilarium (capannone per riparare il grano dalla pioggia). C’erano
inoltre: l’area, dove si ammucchiavano paglia e fieno, l’oporotheca, dispensa per la frutta, il
pristinum, macina per i cereali, ed il carnarium, per la conservazione della carne salata.
Completavano l’azienda le costruzioni ubicate circa villa: tabernae, case coloniche,
campi con orti e giardini per verdure e fiori, frutteti, vigneti, oliveti, boschi, campi
frumentari, prati per il pascolo; le coltivazioni circa villam più vicine generalmente erano
chiuse entro recinti in muratura. Caratteristico era il loro organizzarsi a blocchi, tendenza che
verrà poi abbandonata nel corso del I sec. d.C.
20
.
Accanto a queste villae, già nell’età tardo repubblicana, compaiono le villae-otium,
rifugio dell’aristocratico intellettuale che si dedica all’otium honestum. Il proprietario, oltre
che recarvisi per controllare le attività produttive del fondo, se ne serviva anche come luogo
soggiorno, di otium
21
.
Le villae suburbane e marittime proliferarono agli inizi dell’età imperiale. Uno stesso
proprietario poteva possederne più d’una; i luoghi più rinomati erano le città di Ostia, Anzio,
Formia. Molto apprezzata era inoltre l’area presso il Golfo di Napoli, dove sorgevano
costruzioni la cui architettura era particolarmente sontuosa
22
.
19
Col., 12.2-3.
20
Accardo 2000, p. 18; Carandini 1989, pp. 107 - 110.
21
Un simile uso della villa non esclude affatto che sul fondo si praticassero anche attività produttive a fini
commerciali.
22
Accardo 2000, p. 19.
8
Varrone
23
, nel voler delineare la villa ideale, specificava che la villa rustica si basava
su agricoltura e pastio agrestis, la villa marittima sulla sola pastio villatica, la villa perfecta
su agricoltura, pastio agrestis e pastio villatica.
Il Carandini ritiene che si possa introdurre una ulteriore suddivisione tipologica, basata
sull’economia politica, che, a suo avviso, potrebbe dirci molto di più sul problema del
latifondo. Distingue, infatti, due tipi principali di villa, “centrale” e “periferica”.
La “villa centrale”, tipica della suburbana regio Italiae e di altre zone di tipo centrale
della Penisola, è rivolta verso colture intensive. I fondi, su cui viene edificata, non sono
molto grandi ed è, dunque, facilmente sorvegliabile. Il proprietario utilizza soprattutto
schiavi privi di catene, cooperanti tra loro, con rare integrazioni di coloni insediati in
sporadiche case coloniche satellite; quando non può farne a meno, si avvale anche di operae
esterne.
La “villa periferica” si trova nella longiqua regio. È situata su terreni meno fertili e
richiede minori investimenti di capitale. I fondi sono più ampi e sono coltivati in maniera
estensiva. Tale tipo di villa è più difficilmente sorvegliabile dal proprietario, che si avvale
soprattutto del lavoro di coloni (liberi e schiavi) accolti in case rurali
24
.
Le “ville centrali”, dunque, furono puramente schiavistiche, diversamente dalle quelle
“periferiche”: tale affermazione sembra essere in totale contrasto con il quadro pugliese, se ci
si basa sulle testimonianze epigrafiche che attestano un notevole numero di schiavi impiegati
nelle proprietà rurali, mentre risultano essere rare le iscrizioni riguardanti coloni.
Si assiste ad una evoluzione architettonica delle villae nel corso dei secoli. Le strutture
diventano, infatti, più ricche e complesse; sorgono ville formate da più nuclei, distinti tra
loro, e collegati da elementi di raccordo e di passaggio: quartieri residenziali, quartieri di
rappresentanza, portici, viali, terrazze panoramiche, giardini, terme. Pitture parietali
23
Var, R. R. 3.2.1.
24
Carandini 1995, pp. 33-34.
9
compaiono sia negli interni sia sui muri esterni, e ad essi si aggiungono colonne, pavimenti
musivi, giochi d’acqua, ed altro ancora.
Comandante onnipresente della villa era il fattore schiavo o vilicus, mentre la vilica si
occupava delle attività che si svolgevano all’interno e intorno agli edifici
25
. I soprastanti, o
monitores, potevano vivere anch’essi accoppiati con una conserva, avere figli e un peculio;
seguivano da vicino le squadre di schiavi addetti alla coltivazione
26
. Essi badavano
soprattutto a che gli schiavi cui erano preposti non rallentassero il ritmo del lavoro o
eseguissero male i propri compiti
27
. Gli schiavi comuni, homines qui agrum colunt,
specializzati nei diversi lavori e fra loro cooperanti erano, invece, generalmente solo maschi,
almeno fino alla tarda età repubblicana (epoca di facile approvvigionamento sul mercato), ed
erano organizzati in decuriae o turmae.
Questo sistema consentiva, da un lato, di stimolare la produttività e l’operosità degli
schiavi, in quanto si prospettavano loro avanzamenti nella scala gerarchica, con conseguente
miglioramento delle condizioni di vita, e dall’altro lato, mantenendo ben vive differenze
anche profonde tra gli status degli appartenenti ai vari livelli della gerarchia stessa, evitava
che la manodopera servile potesse coalizzarsi e dare luogo a sedizioni e rivolte
28
.
Questi strumenti dotati di voce (instrumenta vocalia) erano usati tenendo anche conto
delle loro caratteristiche etniche, fisiche e caratteriali
29
.
Colture preferite erano la vite e l’ulivo, che garantivano i proventi più alti. Catone
fornisce, a tal proposito, una gerarchia tra le varie coltivazioni
30
: 1)vinea; 2)hortus;
3)salictum; 4)oletum; 5)pratum; 6)campus frumentarius; 7)silva caedula; 8)arbustum;
9)glandaria silva
31
.
25
Carandini 1998, p. 33 e196; Giliberti, p. 87.
26
Col. R. R. 1,7,6-7; Carandini 1989, p. 106; sulla manodopera nella villa, anche Carandini 1998, pp. 33 - 34.
27
Ligios 1996, p. 51.
28
Ligios 1996, p. 53.
29
Carandini 1989, p. 106.
30
Cat., 1.
31
Carandini 1998, p. 90; Accardo 2000, p. 21.
10
Grande importanza rivestiva l’allevamento
32
, distinto in pastio agrestis e pastio
villatica
33
. Il pastio agrestis era rivolto a buoi, pecore, maiali, asini, cavalli e animali di
servizio, quali muli, cani e schiavi
34
. In Italia meridionale ovini e bovini furono la principale
fonte di ricchezza.
Il pastio villatica consisteva nell’allevamento più pregiato, destinato ad accontentare le
richieste dei lussuosi banchetti cittadini: piccioni, tortore, tordi, oche, anatre, pavoni
35
, lepri,
cinghiali, caprioli, daini
36
, lumache, ghiri, pesci d’acqua dolce e salata
37
; tale tipo di
allevamento assicurava guadagni così notevoli che dal I secolo a. C. vi furono ville che
fondarono la loro attività esclusivamente su tale produzione
38
.
Varrone, nel tentativo di delineare la villa ideale, ci descrive le varie tipologie esistenti
nel periodo in cui vive
39
.
Stando a Columella, la proprietà ideale doveva avere attorno alla villa, dei campi
coltivati con prati, cereali, saliceti e canneti, colline, con piantagioni di olivi e viti, oppure
non alberate, per le messi, pascoli per il bestiame, boschi per l’approvvigionamento di
legname, cave di pietra per le costruzioni, tutto il necessario per l’autosufficienza.
Per rendere un fondo fructuosus, cioè per guadagnare sulla terra, oltre la presenza del
padrone in villa, la professionalità della manodopera e la conduzione diligentemente
intensiva, occorrevano capitali e volontà di spendere. A questi dovevano accompagnarsi la
buona amministrazione e il risparmio, per cui si doveva comprare il meno possibile sul
mercato, procurando la sussistenza e i mezzi “gratuitamente” nel settore naturale e
patrimoniale del fondo stesso o di altri della stessa proprietà. Era necessario anche saper
32
Carandini 1998, p. 67.
33
Var. 3.2.4.
34
L’allevamento degli schiavi pastori è classificato come allevamento di animali di servizio già nel I a. C. (cfr.
Var. 2.1.12); Columella, 1.8, parla anche dell’allevamento degli schiavi agricoltori.
35
Solitamente si allevavano in apposite voliere: cfr. Var., 3.3.1.
36
Per questo tipo di allevamento occorrevano boschi recintati (leporaria), spesso posti vicino alla habitatio
dominica della villa: Var. 3.3.2; 3.12.1-2.
37
L’allevamento dei pesci era particolarmente dispendioso, e spesso si rivelava economicamente rovinoso; cfr.
Var., 3.3.3.
38
Var., 3.2.15-16; 3.17.3.
39
Var., 3.2.1.
11
vendere i prodotti nei momenti di prezzi alti, quando cioè le merci scarseggiavano, ma per
questa speculazione sul tempo occorreva lo spazio adeguato nella villa o in città, dove le
derrate potevano essere immagazzinate per essere poi immesse sul mercato al momento
opportuno. Schiavi esperti, distinzione dei generi e delle razze di quanto si coltivava e
allevava, selezione dei prodotti e calcolo economico per il settore monetario e capitalistico
del fondo (come il vigneto o l’allevamento di schiavi, maiali e pollame) diventarono
necessità e naturali conseguenze di questo modo di produrre
40
.
Carandini ritiene che i Romani possano aver tratto dalla Sicilia e dall’Africa
settentrionale ispirazione per l’introduzione della villa schiavistica quale modello di
organizzazione produttiva. Negli anni compresi tra il 262 ed il 256 a. C. i Romani conobbero
le piantagioni siceliote e della regione di Cartagine, con i loro edifici di tipo urbano in
campagna, ed importarono questo modello economico, potenziandolo e trasformandolo in
quello che può definirsi il sistema romano della villa, che individuava quale suo strumento
fondamentale lo “schiavo-manager”, una invenzione tipicamente romana.
Nel corso degli anni un numero crescente di dati riguardanti plebisciti, ville, moli,
proprietà, bolli laterizi e anforici testimoniano che senatori e cavalieri si interessarono, per
tutto il periodo qui considerato, alla vendita di prodotti agricoli e in particolare al commercio
del vino. L’imprenditore romano disponeva di organizzazioni commerciali vere e proprie
quali le società entro cui l’agricoltura veniva a connettersi con altre attività di carattere
altamente speculativo.
Le informazioni su questa realtà che non riusciamo a trarre dalle fonti letterarie e dai
monumenti stessi delle ville possono essere in buona parte ottenute mediante lo studio del
commercio del vino italico di media qualità e di lusso e in particolare dei contenitori da
trasporto di questo alimento: le anfore
41
.
40
Carandini 1989, p. 104 - 105.
41
Carandini 1989, p. 112 - 114.
12
Dal 225 a. C. circa la tradizionale anfora greco-italica comincia a trasformarsi in
direzione della futura anfora chiamata Dressel I: il contenitore vinario italico tardo-
repubblicano per eccellenza.
L’anfora Dressel I è il simbolo del dominio del vino italico in Occidente, come l’anfora
apula Lamboglia 2 lo è per l’Oriente.
Intorno al 10 le anfore Dressel I e Lamboglia 2 scompaiono, sostituite la prima dalla
Dressel 2-4 e la seconda dalla Dressel 6 (prodotta quest’ultima in Piceno, Emilia e Venezia),
esportate entrambe anche molto lontano, ma in quantità assai minori rispetto a quelle dei due
gloriosi contenitori del precedente periodo.
Intorno al 130 d. C. scompaiono dopo una vita di quasi un secolo e mezzo le due
principali anfore italiche, la Dressel 2-4 e la Dressel 6. È la fine del commercio vinario di
abbondanza tirrenico e adriatico. Qualche segno di vitalità si registra ancora in Emilia, nella
Valle Tiberina e in Campania.
Il vino non venne sostenuto dall’intervento pubblico quanto l’olio, liquido alimentare
assai più essenziale per l’alto grado delle sue calorie e per la sua funzione illuminatoria, le
cui anfore diventano non a caso progressivamente sempre più grandi fino alla tarda antichità,
per meglio rispondere alle necessità del grande trasporto transmarino.
Arriveranno poi (dalla metà del III secolo circa) le botti, contenitore antiromano per
eccellenza, a sancire la trasformazione in questo universo alimentare. Le botti non si
conservano, per cui sono una fonte silente. Le indistruttibili anfore hanno fatto, però, in
tempo, prima di scomparire, a lasciarci il messaggio che da loro più ci attendevamo, e cioè la
fine della grande produzione vinaria e successivamente dei quattro secoli della grande
cooperazione schiavistica nelle ville e nei fondi in Italia.
13
Parte I
Organizzazione del Lavoro nelle Grandi
Proprietà Rurali
14
AMMINISTRAZIONE DELLE PROPRIETA’ TERRIERE
L’economia di Roma antica fu sempre orientata soprattutto, sebbene nel periodo della
sua maggiore fioritura in maniera preponderante, verso l’agricoltura. Il possesso terriero
quale fonte di benessere e forma d’investimento era considerato socialmente rispettabile in
virtù delle sue radici tradizionali.
È giusto postulare che il primato dell’agricoltura nell’economia antica si poggiasse
sullo sviluppo storico delle istituzioni giuridiche romane, in particolare dell’attività
giurisdizionale del pretore, che interveniva nelle controversie private che scaturivano da
contrasti connessi con situazioni di vita reale. Di conseguenza, sembra naturale attendersi
che il sistema della rappresentanza indiretta fosse particolarmente diffuso nell’ambiente
rurale ed è, pertanto, necessario soffermarsi, innanzitutto, sulla gestione delle proprietà
agricole. Diversamente dalla conduzione della piccola proprietà familiare, destinata ad una
produzione mirante ad un’economia di pura sussistenza, l’economia della villa era orientata
alla vendita dei prodotti, per cui le villae e i fundi, all’interno dei quali erano situate,
fungevano da sfondo per un’ampia varietà di attività
42
.
L’agricoltura era ritenuta un’attività economicamente sicura, contrariamente a quelle
commerciali in genere, sebbene le seconde fossero effettivamente più redditizie
43
.
I proprietari di un fondo agricolo non erano necessariamente impegnati nella sua
coltivazione. In età arcaica, gli aristocratici che disponevano di grandi estensioni di terreni
probabilmente erano spesso personalmente coinvolti nelle attività agricole più che nei
periodi successivi. Le storie che dipingono i membri dell’elite romana mentre arano le terre
dei loro antenati, da soli o con l’aiuto di altre persone, possono rappresentare un cliché
letterario, ma le radici storiche di questi racconti difficilmente possono considerarsi oggetto
42
Aubert 1994, p. 117.
43
Cat., Agr., Pref.; Orazio, Carm. 1.1.17-18; Mar. 4.37.
15
di discussione, poiché un modello di gestione della proprietà terriera rimaneva frequente
all’interno del periodo Romano. Tuttavia, il processo di dissociazione tra la realizzazione dei
proventi derivanti dalle tenute e conduzione diretta di una villa rustica dovette iniziare a
verificarsi già nel periodo medio - repubblicano, né si affermò uniformemente e
irrevocabilmente nelle epoche successive e in tutti i territori posti sotto il dominio romano
44
.
Alla fine della Repubblica, la proprietà fondiaria era concentrata in poche mani, anche
se tentativi di assegnazioni o ridistribuzioni di terre si sforzavano di contrastare tale
tendenza, mentre masse di contadini, rimasti senza fondi da coltivare, erano facilmente
disponibili a diventare coloni o mercenari
45
.
Nel I secolo d. C. la villa, pur mantenendo il suo nucleo centrale, anch’esso potenziato
e coltivato attraverso lo sfruttamento di manodopera composta da schiavi, conosce una
notevole estensione della propria area coltivabile e di quella destinata al pascolo
46
.
Columella si scagliava contro le prepotenze, socialmente pericolose ed
economicamente dannose, dei latifondisti. Questi appartenevano ad uno strato sociale di cui
sono rimaste ampie testimonianze nelle fonti letterarie, giuridiche ed epigrafiche, sebbene
esista il rischio che tale stato della documentazione possa portare gli studiosi moderni ad
enfatizzare il ruolo e l’importanza di questo gruppo sociale a scapito di un’analisi più
complessiva, che non dovrebbe trascurare le altre componenti sociali impegnate in diversa
misura nella gestione delle proprietà terriera e nella stessa produzione.
Un proprietario terriero aveva tre opzioni tra cui scegliere in quale modo gestire la sua
proprietà: poteva amministrarla in prima persona, affidarla al suo vilicus, dare in affitto
l’intera proprietà o piccoli lotti di questa. La scelta dipendeva da diversi fattori, non solo
economici: la situazione finanziaria del proprietario, la posizione, l’estensione e la
produttività del terreno, giocavano un ruolo importante.
44
Aubert 1994, p. 120.
45
Esisteva la prassi di tenere agricoltori salariati, permanentemente o saltuariamente; Carandini 1998, p. 33-40;
Giliberti 1981, p. 4.
46
Cfr. Carandini 1981, pp. 251-252.
16
La divisione delle grandi e medie proprietà in diverse unità manageriali portò alla
formazione di una nuova classe di intermediari responsabili della supervisione della gestione
delle singole unità. Il livello più basso di management sembra essere stato il fundus. B. W.
Frier
47
suggerisce che “l’estensione del fundus corrispondeva più o meno alla quantità di
terra che conveniva coltivare, all’infuori della villa, da un singolo manager-lavoratore più un
corredo di schiavi permanentemente assegnati”. Il fundus può essere descritto come una
unità manageriale che spesso corrispondeva ad una unità produttiva, o economica. La disputa
circa il reale significato di tali concetti è stata recentemente riaperta da P. W. De Neeve
48
,
che è giunto alla seguente conclusione: le testimonianze a nostra disposizione suggeriscono
che un fundus fosse una unità amministrativa, la cui estensione ed i cui obbiettivi erano
stabiliti dal proprietario
49
; il valore del fundus doveva essere stimato, registrato nelle tavole
censuali, e trascritto nella forma per finalità di ordine fiscale; la rendita (reditus) veniva
registrata sotto una delle voci dei libri contabili (rationes) del padrone, e non era importante
se il fundus fosse suddiviso, o se fosse una parte di una più vasta unità economica
50
. Un
fundus era identificato dal nome del suo proprietario presente, o passato, dal suo manager,
dalla sua ubicazione in una civitas ed un pagus, e dalle relazioni con le tenute confinanti
(adfines)
51
.
Le villae, le cui dimensioni erano maggiori rispetto a quelle del fundus, erano coltivate
da una famiglia rustica assai gerarchizzata, comprendente varie figure, tra cui l’actor, ossia
l’amministratore, il vilicus, o fattore, il subvilicus ed il magister pecoris, il mandriano. Il
vilicus poteva decidere in merito ad assunzione e licenziamento della manodopera libera del
47
B. W. Frier, “Law, technology and social change. The equipping of Italian farm tenancies”, ZRG 96 (1979),
pp. 204-228.
48
De Neeve, “Fundus as economic unit”, RHD 52 (1984), pp. 3-19.
49
Ulp., Dig. 50.16.60 pr.
50
Ulp., Dig. 50.15.4 pr.
51
Scev., Dig. 32.35.1 ; Aubert 1994 , pp. 128-129.
17
fondo; suo collaboratore era il monitor; il magister officiorum era una sorta di
“caposquadra”
52
.
Risulta particolarmente ampia la gamma degli schiavi specializzati occupati nei lavori
agricoli, nelle attività artigianali o al servizio del personale. Uno stesso schiavo, il più delle
volte, doveva partecipare a diversi processi produttivi, poiché mantenere degli schiavi che
sapessero solamente mietere o falciare sarebbe stato estremamente svantaggioso
53
.
Nelle tenute più grandi i servi erano divisi in decuriae. Altre figure presenti erano: i
saltuarii, cui compito era la sorveglianza del fondo, il topiarius e l’hortolanus, schiavi
“dirigenti” che si occupavano delle colture specializzate; strictores, leguli e torculari erano
addetti alla produzione olearia; l’arborator curava il giardinaggio, l’aviarius l’allevamento
dei volatili, mentre il vinitor seguiva la coltura delle vigne, ed era anche un aiutante del
vilicus. Gli schiavi senza alcuna qualifica figuravano come mancipia fundi
54
.
Quando un proprietario terriero non era in grado o non aveva la volontà di coltivare
parte delle sue tenute, poteva vendere il terreno, o abbandonarlo. Se desiderava tenerlo sotto
il suo controllo, poteva dare in affitto alcuni appezzamenti a degli affittuari (conductores o
coloni), dai quali poteva periodicamente riscuotere un affitto in denaro o in natura, prefissato
o proporzionale alla totalità della rendita. In tal caso, non aveva alcun diritto di parola circa
la gestione dell’attività. L’affittuario poteva anche subaffittare la terra, o coltivarla
personalmente, da solo o con l’aiuto di una famiglia rustica. Tale modello viene detto
“tenancy”
55
.
Un’altra possibilità, di cui disponevano tanto il proprietario quanto il conductor, era
quella di incaricare un vilicus di occuparsi della tenuta.
52
Giliberti 1981, p. 87.
53
F. De Robertis, “L’organizzazione e la tecnica produttiva. La forza lavoro e i salari nel mondo romano”,
Napoli 1946, p. 28, ha raccolto tutti i riferimenti esistenti nelle diverse fonti alle specializzazioni degli schiavi
rurali; Staerman & Trofimova 1975, p. 36.
54
Giliberti 1981, p. 88.
55
Aubert 1994, p. 129.
18
É importante evidenziare che la scelta tra agenzia e locazione non era connessa con
l’impiego di schiavi o di uomini liberi. Le testimonianze non sono così tante come ci si
attenderebbe, eppure è indubbio che i coloni potevano, ed effettivamente impiegavano, forza
lavoro schiavile
56
. Questi schiavi erano o parte dell’instrumentum (forniti dal locatore), o
potevano essere reclutati dall’affittuario
57
. D’altro canto, il racconto di Regolo, tramandato
da Frontino, prova che non era indispensabile porre i vilici a capo della familia rustica. Casi
simili sono attestati raramente, perché le piccole imprese poco frequentemente furono
ricordate nelle fonti. Nella Tarda Repubblica e nel primo periodo Imperiale, le due tipologie
meglio rappresentate di modello di gestione delle proprietà imperiali erano o la gestione
effettuata, su terreni di media e piccola scala, da coloni, che pagavano un canone d’affitto al
proprietario, o al suo procurator/actor, oppure il cosiddetto “sistema di produzione
schiavile”, che sfruttava un certo - talvolta elevato - numero di schiavi posti sotto il comando
di un vilicus.
La scelta di un determinato tipo di gestione era determinata da una serie di fattori.
Poteva dipendere da un pregiudizio o da un’inclinazione naturale, da tradizioni di famiglia,
usi locali, contesto storico e sociale, considerazioni di ordine economico e politico, ecc. Le
fonti sono piuttosto lacunose circa le motivazioni che spingevano a preferire un sistema
invece che un altro.
Le riserve espresse dagli agronomi circa il “sistema vilicus” in relazione con il modello
di produzione schiavile non possono essere accettate in modo acritico, perché, nonostante le
loro riserve circa l’affidabilità dei vilici e della forza lavoro schiavile in generale, essi
insistono sul fatto che l’agenzia fosse di gran lunga preferibile alla “tenancy”. Non è
possibile stabilire con certezza quale dei due sistemi si sia maggiormente affermato
58
.
56
Ulp., Dig. 33.7.12.3; Col., R. R. 1.7.3.
57
Per il primo caso, Ulp., Dig. 7.8.12.6, e Plin., Ep. 3.19.2; per il secondo caso, Ulp., Dig. 9.2.27.9 e 11.
58
Aubert 1994, p. 132.