4
Figura 1: Consumi mondiali di energia distinti per fonte (fonte: Energy Agency 2004)
Nella seguente tabella è riportata una sintesi delle attività petrolifere in Italia relative
agli ultimi 15 anni, espressi in tonnellate. Sostanzialmente i consumi sono rimasti
invariati nel corso del tempo, mentre le importazioni hanno registrato un calo del
40%, a fronte di un aumento delle esportazioni. Il grado di dipendenza dall’estero
rimane comunque elevatissimo, attestandosi sul 94%.
Tabella 1: Sintesi attività petrolifere in Italia (fonte: Unione Petrolifera su dati Ministero delle
Attività Produttive e Istat )
5
Da questi dati è facile intuire come il petrolio rappresenti la risorsa energetica più
utilizzata dal pianeta, e quindi fondamentale per l’economia globale.
Come detto in precedenza, attualmente l’80% delle fonti energetiche utilizzate sono
di origine fossile, ed il loro uso è strettamente connesso all’emissione di anidride
carbonica nell’atmosfera. In particolare, ogni anno l’atmosfera del nostro pianeta
riceve più di 23 miliardi di tonnellate di CO
2
; solo dal 1990 sono stati emessi più di
300 miliardi di tonnellate di CO
2
nell’atmosfera (www.osservatoriokyoto.it).
Le previsioni circa le emissioni e lungo termine svolte dalla Commissione
Europea presenti nel Biofuels Progress Report non sono confortanti
(www.scienzaegoverno.org). I risultati indicano che, di questo passo, il valore delle
emissioni solo nel settore dei trasporti raggiungerà nel 2025 la soglia delle 77 Mt
all’anno, per un totale di 126 Mt/anno comprensivi delle emissioni in tutti i settori:
Figura 2: Previsione emissioni nel 2025 (fonte: Commissione Europea - Biofuels Progress Report,
gennaio 2007)
Alla luce di questi valori, nel mondo scientifico prevale la tesi secondo la quale
l’attuale valore di emissione di CO
2
e degli altri gas serra procurano danni
irreversibili al clima del pianeta.
Se in poco meno di un secolo l’approvvigionamento a basso costo dei
combustibili fossili ha permesso di raggiungere un livello di sviluppo tecnologico e
6
produttivo tale da consentire all’uomo di usufruire in misura crescente di beni e
servizi, di contro, l’intensità e l’estensione delle attività umane sta interferendo con i
cicli naturali dell’atmosfera. In particolare l’emissione in atmosfera di gas alternati
produce impatti sugli equilibri dinamici che governano gli ecosistemi a causa
dell’effetto serra (nel caso degli ossidi di zolfo e di carbonio) e delle piogge acide
(nei casi di ossidi di zolfo).
Allo stato attuale, soprattutto nei paesi industrializzati, si è raggiunta la
consapevolezza che si sta superando la capacità del carico del pianeta (intesa come la
possibilità della terra di sostenere attività antropiche) e che viene compromessa la
sopravvivenza delle generazioni future.
A questo bisogna aggiungere il costante incremento demografico che,
secondo le stime della Comunità Europea, porterà la popolazione mondiale a
raggiungere i 9 miliardi di individui nel 2050. Inoltre la vertiginosa crescita
economica di giganti come la Cina e l'India continua a sfruttare in maniera massiccia
le fonti energetiche fossili, di cui si prevede l'esaurimento in circa cento anni.
Sebbene non sia universalmente accettato che l’effetto serra sia legato alle
attività umane, è innegabile che nell’ultimo secolo la temperatura media globale sia
aumentata notevolmente, insieme alla manifestazione di eventi climatici come
cicloni, maremoti, precipitazioni poco frequenti ma intense, ecc., che si verificano
con intensità e frequenza sempre maggiore, soprattutto negli ultimi 30 anni.
I fenomeni chimico-fisici alla base dell’effetto serra sono ormai noti. Le fonti
energetiche fossili derivano da un lentissimo processo di degrado del materiale
organico (circa 100 milioni di anni), mentre vengono utilizzate ad un ritmo
estremamente più veloce (in 150 anni si sono consumate circa la metà delle risorse
disponibili). La combustione a fini di produzione energetica di tali risorse comporta
l'emissione di grandi quantità di anidride carbonica, responsabile di un effetto serra
aggiuntivo a quello naturale, e un conseguente aumento di temperatura derivante
dall’assorbimento da parte della CO
2
e degli altri gas serra di radiazione infrarossa.
L’elevata emissione di CO
2
nell’atmosfera contribuisce quindi a trattenere il calore
che la Terra irradierebbe altrimenti verso lo spazio. Questo riscaldamento globale
della bassa atmosfera e della superficie terrestre ha come conseguenza un
7
cambiamento del clima, dalla cui entità e velocità dipenderanno gli effetti sugli
ecosistemi terrestri ed acquatici, sulla salute umana e sui sistemi socio-economici.
Se si considerano le proiezioni dell’andamento climatico globale fino al 2100
dell’IPCC (“Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico”, che è la
commissione di scienziati di tutto il mondo creata dall'ONU nel 1988 per studiare i
cambiamenti climatici), è possibile riscontrare un forte incremento della
concentrazione di CO
2
nell’atmosfera negli ultimi decenni, dovute alle attività
umane, con notevoli conseguenze climatiche, tra cui un aumento della temperatura
superficiale globale media da 1,4°C a 5,8°C nel periodo 1990-2100, congiuntamente
ad una velocità di riscaldamento in aumento rispetto al ventesimo secolo. Le
previsioni dell’IPCC per il XXI secolo sono:
ξ accelerazione del ciclo dell'acqua nell'atmosfera e nel suolo, con conseguente
aumento globale delle precipitazioni atmosferiche (con distribuzione non
uniforme sulla superficie terrestre);
ξ aumento della frequenza di eventi meteorologici estremi (siccità, alluvioni e
tempeste);
ξ aumento del livello del mare (per effetto dell'espansione termica degli oceani
e dello scioglimento dei ghiacciai), con la conseguenza che alcune zone
verrebbero permanentemente sommerse e le inondazioni diventerebbero più
frequenti;
ξ aumento del rischio di desertificazione di alcune zone (aride, deserti tropicali
e subtropicali)
Il conseguente cambiamento delle fasce climatiche e vegetazionali si
verificherebbe ad una velocità superiore alla capacità di adattamento della
vegetazione, con la conseguente destabilizzazione su larga scala e forse il collasso di
molti ecosistemi naturali. L'acqua diventerebbe un bene ancora più raro e nel settore
agricolo la conseguenza principale sarà la produzione di prodotti scadenti, sia dal
punto di vista quantitativo che qualitativo. In realtà i risultati del riscaldamento
globale sono visibili già oggi: lunghi periodi di siccità, suoli più aridi, l’evaporazione
più intensa dell’acqua, con il conseguente rischio di desertificazioni di molte aree,
8
senza considerare l’immissione di essa con maggiore energia nell’atmosfera e il
verificarsi di calamità atmosferiche.
Le conseguenze dei mutamenti climatici ricadono in tutti i settori, a partire da quello
agricolo in cui le produzioni, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, sono
penalizzate da una situazione climatica in continuo divenire, con il risultato di
condizionare fortemente l’economia mondiale. La situazione è complicata dal fatto
che le emissioni dei gas serra più persistenti (biossido di carbonio, protossido di
azoto, perfluorocarburi) hanno un effetto duraturo sul clima: molti studi hanno
dimostrato che, anche dopo parecchi secoli dopo le emissioni di CO
2
, circa un quarto
di esse permane ancora nell' atmosfera (www.osservatoriokyoto.it).
Negli ultimi anni una maturata coscienza verso i problemi ambientali legati al
surriscaldamento globale e allo sfruttamento delle risorse fossili, insieme all’aumento
del costo del petrolio greggio, hanno rafforzato l’esigenza di individuare fonti
energetiche alternative, biodegradabili e rinnovabili. E’ ormai noto come il
fabbisogno energetico dell’uomo può essere soddisfatto senza dover necessariamente
ricorrere a vettori energetici fossili.
L’esigenza di uno sfruttamento razionale e sostenibile delle risorse
energetiche diventa sempre più impellente, anche in virtù del fatto che allo stato
attuale attraverso l’uso di risorse come l’energia solare, l’energia eolica e le biomasse
( a cui non sono associati l’emissioni di CO
2
) si possono ottenere la maggior parte
dei vettori energetici attualmente utilizzati. Occorre quindi adottare un’insieme di
strategie e politiche energetiche che tendano alla creazione di un modello di sviluppo
della società umana compatibile con le risorse e l’equilibrio chimico-fisico del
pianeta. E’ indispensabile sotto questa ottica mettere a punto una strategia per un
sistema energetico accettabile sia sotto il profilo economico che ambientale,
promuovendo l’impiego di fonti energetiche alternative ai combustibili fossili e
all’adozione di politiche e misure per un uso razionale dell’energia e soprattutto per
la riduzione dell’emissione dei gas serra a livello mondiale.
Consapevoli della situazione ambientale in mutevole divenire nel corso
dell’ultimo secolo e tenendo presente le proiezioni a medio-lungo termine delle
conseguenze dello sfruttamento intensivo e sconsiderato dei combustibili fossili, i
principali Paesi responsabili dell’inquinamento atmosferico hanno stipulato nel 1997
9
il protocollo di Kyoto, che costituisce allo stato attuale il principale mezzo per la
riduzione delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera. Esso rappresenta il primo
tentativo globale di coordinamento delle politiche economiche dei principali Stati del
mondo, oltre che la base da cui partire per un utilizzo razionale e sostenibile delle
risorse energetiche del pianeta.
1.2 Il protocollo di Kyoto
Il protocollo di Kyoto
3
è un trattato internazionale in materia ambientale
riguardante il riscaldamento globale, sottoscritto nella città giapponese di Kyoto l'11
dicembre 1997 in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle
Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Nel novembre 2001 si tenne la
Conferenza di Marrakech, in cui 40 paesi rinnovarono gli obiettivi del Protocollo
di Kyoto. Due anni dopo, più di 120 paesi avevano aderito al trattato, fino
all'adesione e ratifica della Russia nel settembre del 2004, considerata fondamentale
in quanto questo Paese produce singolarmente il 17,6% delle emissioni mondiali.
Di fatto, per diventare operativo il Protocollo richiedeva una copertura di almeno il
55% delle emissioni di gas serra tramite i Paesi firmatari, soglia minima che è stata
raggiunta solo con l’adesione della Russia. Il trattato è quindi entrato
ufficialmente in vigore il 16 febbraio 2005; ad oggi 176 Paesi, che da soli
contribuiscono per il 61,6% alle emissioni globali di gas serra (tra i quali spiccano
Russia, Giappone, Canada e Polonia), insieme ad un'organizzazione di integrazione
economica regionale (EEC), hanno ratificato il Protocollo.
Il trattato prevede l'obbligo per i paesi industrializzati di operare una
riduzione nel periodo 2008-2012 delle emissioni di elementi inquinanti: anidride
carbonica (CO
2
) e gli altri cinque principali gas serra, ovvero metano (CH
4
), ossido
di azoto (N
2
O), idrofluorocarburi (HFC), perfluorocarburi (PFC) ed esafluoruro di
zolfo(ZF
6
). La riduzione deve in una misura non inferiore al 5,2% rispetto alle
emissioni registrate nel 1990, anno in cui si sono verificati i massimi livelli di
3
Fonte: www.governo.it
10
inquinamento dei gas “CO
2
equivalenti” (cioè con riferimento alle loro capacità
clima-alteranti).
Poiché l'atmosfera terrestre contiene 3 milioni di megatonnellate (Mt) di CO
2
,
il Protocollo prevede che i paesi industrializzati riducano del 5% le proprie emissioni
di questo gas. Secondo gli ultimi studi condotti dagli scienziati per il monitoraggio
del surriscaldamento globale, il mondo immette allo stato attuale 6.000 Mt di CO
2
, di
cui 3.000 dai Paesi industrializzati e 3.000 da quelli in via di sviluppo. In base a
questo, con il protocollo di Kyoto se ne dovrebbero immettere 5.850 anziché 6.000,
su un totale di 3 milioni.
I singoli Paesi, sulla base delle proprie potenzialità, si sono impegnati in
misura diversa: l'Europa ha fissato una riduzione dell'8%, il Giappone del 6%,
mentre l'Italia ha assunto l'obbligo di una riduzione del 6.5%. Per quanto riguarda i
Paesi in via di sviluppo, invece, al fine di non ostacolare la loro crescita economica
frapponendovi oneri per essi particolarmente gravosi, non sono stati invitati a ridurre
le loro emissioni.
Tra i Paesi non aderenti spiccano gli USA, responsabili di oltre il 37% del
totale delle emissioni. Il motivo del mancato ingresso della prima potenza mondiale
risiede nella convinzione che anche una piena implementazione del Protocollo
avrebbe un impatto limitato sui cambiamenti climatici. Inoltre un’altra critica mossa
dagli USA al Trattato è quella relativa all’assenza della partecipazione dei Paesi in
via di sviluppo, in seguito all' accoglimento del cosiddetto Principio di
Responsabilità (secondo cui i Paesi che hanno maggiormente contribuito ai livelli
attuali di concentrazione dei gas devono essere i primi a sostenere i costi ed a ridurre
le emissioni).
Nella recente Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che
si è tenuta a Bali, in Indonesia, dal 3 al 14 dicembre 2007, si è discusso sull’avvio dei
negoziati relativi ad un accordo esauriente e ambizioso sul clima per gli anni
successivi al 2012, quando si concluderà il primo periodo di impegno previsto dal
protocollo di Kyoto, con l’obiettivo di stabilire una tabella di marcia che ne definisca
gli elementi principali. Per l’occasione si è riunita la tredicesima Conferenza delle
Parti (COP-13) dell’UNFCCC (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui
11
cambiamenti climatici, comprendente 192 Paesi membri) e la terza Riunione delle
Parti (COP/MOP-3) del protocollo di Kyoto allegato alla convenzione UNFCCC.
Un recente studio dell’organizzazione ecologista “Germanwatch”, presentato
alla Conferenza delle Nazioni Unite, ha rivelato che l’Italia è in ultima fila nella lotta
ai cambiamenti climatici, alla pari con un gigante “energivoro” come la Cina. Lo
studio, che prende in considerazione i dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia
(AIE) sulle effettive emissioni di anidride carbonica e le politiche governative
adottate per limitarle, pone l’Italia al 41° posto, a pari merito con la Cina, su una
classifica di 56 Paesi. Il più virtuoso è la Svezia, il primo al mondo ad impegnarsi per
proteggere il clima; segue, tra gli altri, al quinto posto l’India, l’altro grande gigante
economico mondiale, mentre i peggiori in assoluto sono l’Arabia Saudita, all’ultimo
posto, preceduta da Stati Uniti, Australia e Canada. Gli autori dello studio hanno
definito allarmanti i cattivi risultati dei dieci Paesi, tra cui l’Italia, che da soli sono
responsabili per oltre il 60% delle emissioni di CO
2
. Per quanto riguarda i consumi
energetici, la graduatoria dei maggiori consumatori di energia è guidata dagli USA,
che da soli consumano il 20,47% dell’energia prodotta nel mondo, seguiti da Cina
(15,18%), Russia (5,66%), India (4,70%), Giappone (4,64%), Germania (3,02%),
Canada (2,38%), Gran Bretagna (2,05%), Corea del Sud (1,87%) e Italia (1,62%).
Per quanto concerne la situazione climatica attuale e futura, risulta importante
il terzo rapporto dell’IPCC presentato il 4 Maggio 2007, approvato dagli oltre 400
scienziati riuniti a Bangkok in occasione della nona sessione dell’apposito gruppo di
lavoro. La riunione segue temporalmente le riunioni di febbraio a Parigi e di aprile a
Bruxelles, che avevano delineato rispettivamente le basi scientifiche e l'impatto
sull'ambiente dei cambiamenti climatici. In estrema sintesi, i risultati del rapporto
rivelano come, dal 1970 al 2004, le emissioni di gas inquinanti sono lievitate del
70% e, stante le attuali politiche energetiche, si prevede che le emissioni di CO
2
tra
il 2000 e il 2030 aumentino ulteriormente tra il 45 e 110%.
Secondo il Comitato dell'Onu, le emissioni dei gas responsabili dell'effetto
serra non devono aumentare dal 2015 per poi ridursi gradualmente e arrivare nel
2050 ad un 50-58% in meno rispetto ai livelli del 2000. Tale obiettivo viene
considerato realistico dagli scienziati, grazie alle innovazioni tecnologiche che
12
consentiranno di contenere l'aumento della temperatura tra i 2 e i 2,4 gradi, una
soglia sopra la quale si corrono gravissimi rischi per l'ambiente.
Non meno incoraggianti sono i dati presentati alla conferenza nazionale sui
cambiamenti climatici tenutasi a Roma il 12 settembre 2007 presso il Palazzo della
FAO e organizzata dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente. Gli esperti
dell’APAT ritengono che quasi la metà del territorio nazionale sia soggetto, nel
medio periodo, al rischio desertificazione, andando oltre le stime che vedevano il
Sud-Italia (e in particolare Puglia, Sardegna, Sicilia e Basilicata) correre questo
rischio. Nella “red list” sono state inserite anche Lazio, Marche, Toscana, Umbria ed
Abruzzo. Oltre 6.600 comuni, è stato evidenziato ancora nei workshop dell'APAT,
sono classificati nelle categorie di pericolo per alto dissesto idrogeologico, ovvero 8
comuni su 10, interessando in percentuale 23 milioni di cittadini italiani. Il 10% del
territorio italiano è classificato a elevato rischio per alluvioni, frane, e valanghe; i
dati sono impressionanti se si considera che dal 1918 ad oggi le cifre del dissesto
idrogeologico parlano di più di 5.000 grandi alluvioni, 12.000 frane, più di 220
fenomeni all'anno. Per quanto riguarda le precipitazioni, sono meno frequenti ma
decisamente più violente del passato, con conseguenze e danni elevati per
l’agricoltura e non solo. Una stima di massima prevede, nell'ipotesi oramai superata
che la temperatura globale cresca solo di 1,5°C, che i costi per far fronte ai
cambiamenti climatici ammonterebbero di 50 miliardi di euro l'anno. Nella
situazione più catastrofica, con un aumento della temperatura di circa 6°C, i costi
arriverebbero a 200 miliardi.
Il cambiamento climatico si traduce dunque soprattutto in danni economici
pesantissimi; costi che sono destinati ad aumentare ulteriormente con il passare degli
anni e il concomitante innalzamento del livello del mare. Secondo le previsioni degli
esperti dell'Onu dell'IPCC, alla fine del secolo tale livello sarà più alto di 30
centimetri. Ovviamente la situazione italiana è perfettamente applicabile anche al
resto dell’Europa, dove nell’ultimo decennio si è assistiti a numerosi episodi di
emergenze e catastrofi climatiche, che si sono verificate con una frequenza mai
registrata in passato.
Consapevole dell’importanza degli effetti del riscaldamento globale sui
cambiamenti climatici del pianeta e della validità degli studi dell’IPCC, l’UE ha
13
fissato gli obiettivi da raggiungere nel breve e medio periodo proponendo che
l’accordo sul clima post-Kyoto comprenda 8 punti fondamentali
4
:
1) Limitazione del surriscaldamento del pianeta a 2ºC al di sopra della
temperatura dell’era pre-industriale. Per rispettare questo limite le
emissioni globali dovranno stabilizzarsi entro i prossimi 10-15 anni, per poi
dimezzarsi rispetto ai valori del 1990 entro il 2050.
2) Riduzione delle emissioni vincolanti e più consistenti in termini assoluti
per i paesi industrializzati. L’UE propone che i Paesi industrializzati
riducano collettivamente le loro emissioni del 30% entro il 2020 e del 60-
80% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. In attesa di giungere ad un
accordo su questo punto, l’UE si è autonomamente impegnata ad abbattere le
proprie emissioni di almeno il 20% entro il 2020.
3) Contributi equi ed efficaci da parte di altri Paesi, ed in particolare delle
economie emergenti in rapida crescita, che dovrebbero essere chiamati a
garantire una crescita economica a minore intensità di emissioni.
4) Potenziamento ed ampliamento del mercato globale del carbonio, anche
attraverso meccanismi flessibili innovativi e rafforzati.
5) Rafforzamento della cooperazione per la ricerca, lo sviluppo e la
diffusione delle tecnologie pulite necessarie per abbattere le emissioni.
6) Maggiore impegno a favore dell’adattamento ai cambiamenti climatici,
rafforzando la cooperazione per affrontare gli effetti inevitabili dei
cambiamenti climatici, in particolare per aiutare i paesi più poveri e più
vulnerabili al fenomeno.
7) Emissioni del settore aereo e del settore marittimo internazionali. L’UE
sta già discutendo la proposta volta ad inserire il trasporto aereo nel sistema
UE di scambio delle quote di emissione.
8) Abbattimento delle emissioni conseguenti alla deforestazione, attività che
contribuisce fino al 20% delle emissioni planetarie di CO
2
.
4
Fonte: www.europa.eu
14
Il dibattito circa gli interventi sul clima a partire dal 2012 è cominciato due
anni fa e l’UE ritiene imprescindibile l’apertura di negoziati concreti su un nuovo
accordo globale. Una delle piste seguite in questo contesto è stato il dialogo
informale sull’azione di cooperazione a lungo termine tra i 192 paesi firmatari della
UNFCCC. Parallelamente, le 176 Parti del protocollo di Kyoto stanno discutendo i
nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni da applicare ai paesi industrializzati per il
periodo successivo al 2012.
Il protocollo di Kyoto rappresenta dunque un fondamentale mezzo di
coordinamento globale delle politiche economiche dei principali Paesi del mondo
per far fronte ai mutamenti climatici conseguenti al surriscaldamento globale.
Il Trattato deve però essere affiancato da una politica energetica, specifica per
ogni Stato e seconda del proprio sistema economico-produttivo, in grado di
promuovere e diffondere un utilizzo razionale e sostenibile delle risorse energetiche a
disposizione. I provvedimenti da adottare all’interno di una politica energetica
razionale sono molteplici, comprendendo la già citata eliminazione graduale dei CFC
(clorofluorocarburi, riconosciuti come i maggiori responsabili del buco dell’ozono e
il cui uso è soggetto a restrizioni sempre maggiori, sulla base del protocollo di
Montreal), la riduzione dei gas-serra, la riduzione della deforestazione nel mondo
(sempre crescente negli ultimi decenni) e soprattutto il risparmio energetico, sia su
scala locale a livello del singolo cittadino, sia a livello nazionale con l’utilizzo di
energia da sorgenti rinnovabili. Il campo delle eco-energie è vasto, in quanto
comprende lo sfruttamento di energia solare, eolica e geotermica, ma alla luce della
situazione ambientale legata al surriscaldamento globale e alle emergenze
ambientali, senza peraltro dimenticare l’aspetto economico, il settore delle bio-
energie derivanti da biomasse appare sicuramente il più promettente sotto tutti i
punti di vista. In questo contesto di crisi energetica ed ambientale, destinato secondo
gli esperti a peggiorare sempre più con il passare degli anni, il ruolo delle risorse
rinnovabili attraverso lo sfruttamento di biomasse assume un’importanza strategica
per il conseguimento di un approvvigionamento energetico sostenibile.
15
1.3 Fonti energetiche alternative: le biomasse
La biomassa, abbreviazione di "massa biologica", indica qualsiasi sostanza
organica, sia vivente che morta, derivata direttamente o indirettamente dalla
fotosintesi clorofilliana:
CO
2
+ H
2
O + energia solare C
6
H
12
O
6
+ O
2
Mediante questo processo, le piante assorbono dall'ambiente circostante
anidride carbonica e acqua che vengono trasformate, con l'apporto dell'energia solare
e di sostanze nutrienti presenti nel terreno, in materiale organico utile alla crescita
della pianta. L’energia radiante, quindi, convertita durante il processo fotosintetico in
energia chimica di legame, rappresenta la fonte di energia che alimenta la vita nella
biosfera in tutte le sue espressioni. Questa definizione contiene implicitamente il
concetto di rinnovabilità della fonte, in quanto esclude tutte le fonti fossili e derivati,
i cui tempi di formazione dell’ordine di milioni di anni non sono comparabili con i
tempi di sfruttamento della risorsa, ben più rapidi considerando l’attuale tasso di
consumo a livello globale.
Attraverso il processo fotosintetico, annualmente vengono fissate
complessivamente circa 2×10
11
tonnellate di carbonio, con un contenuto energetico
equivalente a 70 miliardi di tonnellate di petrolio, circa 10 volte l'attuale fabbisogno
energetico mondiale (fonte: www.minambiente.it).
Le biomasse costituiscono una fonte di energia rinnovabile e pulita,
fondamentali per il rispetto degli impegni internazionali per la riduzione delle
emissioni di gas serra. Esse assumono quindi un ruolo importantissimo, essendo
ampiamente disponibili, costituendo una risorsa energetica a basso impatto
ambientale e, se gestita correttamente, non destinata all’esaurimento. Il contributo
principale che le biomasse possono offrire per la riduzione dell’effetto serra deriva
proprio, come detto, dalla loro capacità di immagazzinare enormi quantitativi di CO
2
sottratti all’atmosfera e immobilizzati a lungo all’interno delle fibre che lo
costituiscono. Proprio per questo le biomasse sono definite fonti energetiche a
bilancio nullo di CO
2
, in quanto la quantità di CO
2
rilasciata in atmosfera durante la
decomposizione è uguale a quella che viene assorbita durante la crescita della
16
biomassa stessa. In aggiunta a questo, la biomassa può essere usata per produrre
energia (bio-energia), direttamente come combustibile o convertita in altri tipi di
combustibile, elettricità e/o calore.
Con il termine biomassa nell'accezione più generale possiamo considerare
tutti i materiali di origine organica, sia vegetale che animale. E' intuitivo come rientri
in questa definizione una grande quantità di materiali molto eterogenei tra loro. Le
biomasse sono raggruppate in quattro categorie principali:
ξ residui forestali e dell’industria del legno: derivano dagli interventi di
manutenzione dei boschi e dalla lavorazione del legno;
ξ sottoprodotti agricoli: paglia, stocchi, scarti di potatura, sarmenti di vite,
ecc.;
ξ residui agroalimentari: sanse, vinacce, noccioli, ecc.:
ξ colture energetiche: sono finalizzate alla produzione di energia oppure di
biocombustibile.
Sotto un punti di vista prettamente agronomico, le biomasse utilizzabili per la
conversione energetica possono seguire la seguente classificazione:
ξ Residui e sottoprodotti ligno-cellulosici derivanti dalle operazioni di
manutenzione dei boschi (ramaglie, potature, diradamenti), residui derivanti
dalla lavorazione del legno (cortecce, sfridi, segatura, trucioli) e residui agro-
industriali (paglie, gusci e noccioli della frutta ecc);
ξ Colture zuccherine: barbabietola, sorgo zuccherino, topinambur.
ξ Colture ligno-cellulosiche: fra le specie annuali, sorgo da fibra, fra quelle
erbacee perenni, canna comune e tra le specie perenni robinia, pioppo ed
eucalipto.
ξ Colture amidacee: cereali, mais e patate.
ξ Colture oleaginose: colza e girasole.
I prodotti energetici derivanti da biomasse possono essere utilizzati come
combustibili solidi (legno, cippato, pellets, ecc.) per riscaldamento, teleriscaldamento
17
urbano, generazione di energia elettrica, come combustibili liquidi (oli vegetali,
esteri, alcoli) per riscaldamento, per autotrazione e infine come combustibili gassosi
(biogas da digestione anaerobica) per generazione di energia termica ed elettrica.
La conversione energetica avviene principalmente attraverso processi
termochimici e biochimici.
I processi termo-chimici sono:
ξ Combustione: è il più semplice dei processi termochimici e consiste
nell'ossidazione completa del combustibile a H
2
O e CO
2
.
ξ Gassificazione: consiste nella trasformazione di un combustibile solido o
liquido, nel caso specifico della biomassa, in combustibile gassoso, attraverso
una decomposizione termica (ossidazione parziale) ad alta temperatura. Il gas
prodotto è una miscela di H
2
, CO, CH
4
, CO
2
, H
2
O e N
2
, accompagnati da
ceneri in sospensione e tracce di idrocarburi. La proporzione tra i vari
componenti del gas varia notevolmente in funzione dei diversi tipi di
gassificatori, dei combustibili e del loro contenuto di umidità.
ξ Pirolisi: è un processo di degradazione termica di un materiale (nello
specifico la biomassa) in assenza di agenti ossidanti (aria o ossigeno), che
porta alla produzione di componenti solide, liquide e gassose.
I processi biochimici riguardano essenzialmente la digestione anaerobica,
ossia la degradazione della sostanza organica in assenza di ossigeno ad opera di
alcuni ceppi batterici. Questo processo interessa la biomassa con un alto grado di
umidità (reflui zootecnici, la parte organica dei rifiuti solidi urbani ecc.), portando
alla produzione di biogas (CH
4
e CO
2
) e può avvenire sia nelle discariche che in
reattori appositamente progettati chiamati digestori. Attualmente si stanno
sviluppando processi di co-combustione e di co-gassificazione volti a utilizzare nello
stesso impianto biomasse e combustibili tradizionali come il carbone.
E’ pertanto possibile riunire i processi di conversione in energia dalle biomasse in
due categorie: